La morte di Elena nel rogo di psichiatria
Il 13 agosto Elena Casetto, una ragazza di nemmeno 20 anni, è morta in un incendio che ha coinvolto il reparto di psichiatria dell’ospedale bergamasco Papa Giovanni XXIII. Come sia stato possibile che in un ospedale le fiamme abbiano avuto il tempo e il modo di uccidere una paziente ricoverata è l’oggetto dell’inchiesta della Procura che ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo.
A dare l’allarme è stata un’addetta alle pulizie, anticipando il sistema antincendio. Pare ormai accertato che l’incendio sia partito proprio dalla stanza della vittima e proprio per questo sia stato impossibile ai soccorritori intervenire e trarre in salvo la ragazza: una volta aperta la porta, il fumo denso rendeva impenetrabile l’ambiente. Questo però non risponde alla domanda, anzi, ne pone altre.
I sindacati, a loro volta, denunciano come scarsità di personale, blocco del turn over e inadeguata formazione rendano le condizioni di lavoro del personale sanitario molto difficili. Questo non si fatica a crederlo, è un dato generale che chiama in causa direttamente Regione e Ministero della Salute: la qualità dei servizi sanitari, i diritti dei malati e le condizioni di lavoro del personale sanitario sono strettamente intrecciati e dove arretra uno, arretrano tutti gli altri.
Il fatto gravissimo che pare emergere dalle dichiarazioni dello stesso ospedale, infatti, è un altro. La ragazza era stata sedata e legata al letto, “contenuta” come si usa dire in gergo tecnico, prima del divampare delle fiamme.
«La paziente deceduta era stata bloccata pochi istanti prima dell’incendio, a causa di un forte stato di agitazione, dall’équipe del reparto. Scattato l’allarme antincendio, nell’ambito delle procedure di evacuazione dei pazienti prontamente attivate, il personale infermieristico ha aperto la porta della sua camera per portarla in salvo ma si è presentato un muro di fumo e nonostante l’uso dell’estintore non è stato possibile raggiungerla. Hanno tentato diverse volte, anche con gli addetti della squadra antincendio, senza purtroppo riuscire».
Che sia stata lei stessa ad appiccare l’incendio in un atto di autolesionismo pare molto probabile, oggetto dell’inchiesta rimangono i tempi e la dinamica in cui si è prodotto il rogo, ancora non chiari, elementi chiave a cui dare risposta per fare luce sui fatti e definirne le responsabilità.
Ciò che questa drammatica vicenda testimonia, infatti, è che la pratica della contenzione, seppure illegale, è contemplata e largamente utilizzata nei servizi psichiatrici, esponendo i pazienti a pericoli evidenti per la loro incolumità e ledendone la dignità e la salute fisica e mentale.
A 40 anni dalle legge Basaglia la “contenzione” rischia di tornare ad essere di nuovo il paradigma del trattamento delle malattie mentali. Ridurre al silenzio, all’immobilità, all’invisibilità le persone con disagio psichico, negarne e esasperarne la sofferenza, significa riconsegnarle all’abbandono e all’abuso, cancellare il passaggio epocale che quella legge, con fatica e enorme lavoro medico e culturale, aveva compiuto: restituire la dignità e i pieni diritti a uomini, donne e bambini a cui non erano mai stati riconosciuti.
“Avevamo dimenticato la storia di Antonia Bernardini, morta bruciata il 31 dicembre 1974 legata a letto nel manicomio criminale femminile di Pozzuoli. Cominciammo a pensare allora che la pratica della contenzione sarebbe stata bandita. Prese infatti forza la lunga marcia attraverso le istituzioni manicomiali che arriverà tre anni dopo alla legge e alla sofferta chiusura dei manicomi.” Così inizia l’intervento di Peppe dell’Acqua – psichiatra, stretto collaboratore di Franco Basaglia, dopo di lui direttore dei servizi psichiatrici di Trieste – sul sito del Forum Salute Mentale.
La morte di Elena nell’ospedale di Bergamo ci riporta alla mente anche storie più recenti: quella di Giuseppe Casu, ambulante sessantenne di Quartu Sant’Elena, che nel 2006 muore nell’ospedale Is Mirrionis di Cagliari, dopo un’intera settimana di contenzione, o quelle di Andrea Soldi, morto soffocato nel 2015 a 45 anni a Torino, e di Jefferson Tomalà, morto a 20 anni a Genova lo scorso anno, avvenute durante interventi di Tso.
Non si tratta di episodi isolati, insomma, suona un campanello d’allarme che non va ignorato.
Peppe dell’Acqua, in conclusione del suo contributo, cerca di riportare il problema “nella città”, chiamando in causa il sindaco di Bergamo Gori e richiamando il ruolo assegnato dalla legge ai sindaci (quello di ordinare il Tso ma anche di farsi garante della cura e dalla salute della persona sottoposta al trattamento). Riportare il disagio mentale fuori dall’ospedale, riportarlo a tema sociale e che proprio nella società va affrontato sembra infatti essere l’unica via d’uscita per non tornare indietro. Intanto il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma si costituirà parte offesa nell’inchiesta sulla morte di Elena Casetto.
Serena Fredda
16/8/2019 www.dinamopress.it
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