La Trilogia Working Class: scrivere per non farsi togliere la pelle
INDICE
Introduzione: Things Are Different Now
1. A che serve la narrativa working class?
2. Ma insomma, cos’è questa letteratura working class? La risposta di WCL
3. Intrecciare la narrativa working class con le categorie di femminismo, genere ed etnicità
4. Raccontare il reale oltre il realismo
5. Come non raccontare la classe operaia (per non diventare un «traditore di classe»)
6. La narrativa working class racconta il conflitto dal basso
7. E allora i vecchi operai che votano a destra?
8. Non dimentichiamo la working class bianca
9. Parti da te
10. Cosa sto cercando di fare con la Trilogia Working Class
11. Cosa voglio fare con la collana «Working Class» di Alegre
12. «Se sei uno scrittore non sei working class»
Postilla: E dopo la Trilogia Working Class?
«So Mr. Williamson,
what have you done in order to find gainful employment
since your last signing on date?»
Jobseeker, Sleaford Mods
«I’m not a traitor to my class»
Tommy Shelby, in Peaky Blinders
La prima ricognizione sulla manutenzione delle scritture operaie la pubblicai su Giap in un periodo in cui era difficile per me avere risposte concrete dall’industria editoriale. Oggi la situazione è diversa: sto scrivendo il terzo e ultimo tomo della Trilogia Working Class che uscirà per Laterza, forse nel 2020; la trilogia Working Class è in corso di traduzione in svariate lingue straniere; la casa editrice Alegre ha lanciato una collana di libri working class di cui sono il curatore.
All’estero, soprattutto in Inghilterra, si pubblica nuova narrativa working class e la critica compie ricognizioni su questi ambiti, si veda ad esempio il saggio del 2017 Working-Class Literature(s). Historical and International Perspectives a cura di John Lennon e Magnus Nilsson.
Anche l’accademia dedica al tema degli studi operai e della labour history parecchi convegni in cui spesso sono invitati scrittori working class. Il testo che segue, infatti, servirà anche da base per il mio intervento del prossimo 2 novembre al Festival of Italian Literature in London, dove parlerò di letteratura working class assieme a Anthony Cartwright, con la moderazione di Paolo Nelli.
1. A che serve la narrativa working class?
Viviamo in tempi strani. Da anni ci ripetono che la classe operaia non esiste, e da anni muoiono almeno tre operai al giorno.
Sì, la classe operaia esiste ma si trasforma e non è quella di un tempo. Se uso l’espressione «working class», lo faccio proprio per marcare una cesura. L’immaginario della tuta blu è quello di un maschio bianco con le mani sporche d’olio. Un’immagine dovuta al rilievo che nella classe operaia italiana hanno avuto i metalmeccanici, la sezione più combattiva. Eppure la classe operaia è sempre stata molteplice: operai-massa, tecnici, lumpen, disoccupati, aristocrazia operaia, etc. L’inglese usa un termine più estensivo e inclusivo: working class, «classe lavoratrice», indica tutti coloro che per campare devono vendere la propria forza lavoro in cambio di un salario.
La nuova classe lavoratrice, anche in Italia, è sempre meno fatta da maschi bianchi ed è sempre più intersezionale: si è «femminilizzata», si sposta sempre più dalla produzione alla logistica e ai servizi, ed è sempre più rappresentata da lavoratori migranti e da donne che oltre al lavoro di riproduzione sociale – la riproduzione della classe operaia stessa – sono adesso anche produttrici. Ristorazione, pulizie e movimento merci rappresentano un settore trainante della nuova working class. Non solo tute blu, ma anche pink collar, e una parte dei white collar. Soprattutto, non solo maschi bianchi: la working class è ibrida, fluida, meticcia, creola. Ed è anche meno testosteronica, ha orientamenti sessuali che non rispettano più l’eteronormatività d’un tempo.
Eppure la rappresentazione della classe operaia in certi ambiti del mainstream è completamente diversa. Con un paradosso, su Twitter un compagno, @monster_chonja, ha scritto:
«oggi sei working class solo se odi a turno una di queste categorie: omosessuali, musulmani o donne; altrimenti sei il figlio di un banchiere ebreo anche se fai il facchino e guadagni 700 euro al mese».
In un articolo sul Guardian intitolato, alla maniera di Alan Sillitoe, La solitudine dello scrittore working class, Tim Lott mette in evidenza questo paradosso: «From being heroic, interesting, passionate, honest and authentic, working-class people are now seen as white, racist, thuggish, scrounging, loud, unpleasant and uncultured. Are they really like this?»
No, non siamo così, ma se non ci raccontiamo noi che dentro la working class abbiamo un piede o tutti e due dentro, ci racconteranno loro.
A questo serve la narrativa working class.
2. Ma insomma, cos’è questa letteratura working class? La risposta di Working Class Literature
Di recente è stato varato su Twitter il profilo di Working Class Literature (WCL), twin-project di Working Class History che si propone di promuovere la letteratura working class in lingua inglese. Chi modera il progetto ha scritto un thread sulla definizione della letteratura working class. Provo a riassumerne i punti principali.
Secondo WCL, a prima vista la definizione di letteratura working class è problematica. È l’estrazione di classe dell’autore quel che conta? O il suo impegno politico? Oppure il soggetto della narrativa? È letteratura working class anche quella fatta da un autore di classe media che parla di operai? O che incita alla lotta di classe? Oppure solo quella di chi appartiene alla working class?
La risposta non è semplice. Un autore come Allan Sillitoe, esempio indiscusso di narrativa working class, era working class ai tempi in cui pubblicò Sabato sera, domenica mattina. «Ma lo era ancora ai tempi di Open Door, dopo 30 anni di attività professionale come scrittore?», si chiede WCL.
L’ipotesi di WCL è quella di una definizione non restrittiva: è working class la scrittura che ruota «attorno al tema del lavoro (salariato o domestico) e di una accurata (ma non necessariamente realistica) rappresentazione della vita working class, della sua cultura e resistenza al potere». Come corollario, va inclusa nella definizione anche «una letteratura che sia rilevante per il movimento operaio», includendo quindi anche autori di estrazione borghese come Zola e Orwell.
Si pone il problema anche Michael Denning, l’autore di The Cultural Front:
«Troppo spesso i critici si muovono dalla stessa domanda: la letteratura proletaria si definisce secondo l’autore, il pubblico, il soggetto o la sua politica? È una letteratura dei lavoratori, per i lavoratori, o sui lavoratori? O è semplicemente letteratura rivoluzionaria?»
Tutte queste ipotesi secondo Denning sono «fallimentari», perché considerano «i generi come tipi ideali astratti e storici», e non invece come «istituzioni che nascono da specifiche formazioni sociali». Quindi più che chiedersi cos’è la narrativa working class, dovremmo chiederci quali sono le formazioni letterarie che si richiamano all’immaginario working class – Wu Ming 1, lui stesso cresciuto nella working class in quanto figlio di un operaio e di una bracciante, parlerebbe forse di «costellazioni» della scrittura working class – e, aggiungo io, come queste formazioni si rapportano ai conflitti sociali in corso.
Un altro punto che WCL sottolinea è che spesso gli autori indicati come scrittori working class sono in genere maschi bianchi. È un punto problematico su cui bisogna insistere. Per fortuna di recente abbiamo avuto ottime uscite di autrici working class in Italia: Simona Baldanzi, Sonia Marialuce Possentini, Pia Valentinis, ma bisogna aggiungere anche la poetessa Nadia Augustoni. Nella sfera anglofona è rilevante l’opera di Kit De Waal, che ha appena curato la splendida antologia Common People, dove la stragrande maggioranza di contributi sono realizzati da donne, con un impianto spesso intersezionale: donne, working class, non bianche.
Inoltre le tematiche dell’ultima letteratura working class in inglese sono sempre meno eteronormate: diventano più rilevanti il queer e il femminismo pro-sex e si esplorano le dimensioni della fluidità di genere, sia nella dimensione liberatrice dei piaceri extra-binari, che nella denuncia degli abusi e dello sfruttamento sessuale del corpo working class.
3. Intrecciare la narrativa working class con le categorie di femminismo, genere ed etnicità
Quel che bisogna fare adesso è appunto intrecciare, in un’ottica intersezionale, classe e identità. Valorizzare i punti di vista queer, “sbiancare” la working class e decolonizzarla. Non lo dice apertamente WLC, ma il ragionamento va in quella direzione.
Bisogna però anche lavorare in senso inverso, perché intersezione significa questo, ossia riconoscere la matrice working class di autrici e autori black, postcoloniali e LGBT. «Autrici come Toni Morrison o come Jeanette Winterson», sostiene WCL, «sono entrambe di estrazione sociale working class, ma sono percepite come femministe o LGBT», oppure nel caso di Morrison anche «come black e postcolonial, ma non come working class». La working class non viene percepita, occultata dalle – anziché intrecciata alle – politiche dell0identità.
Per evitare un conflitto tra le politiche di classe e quelle di identità, la risposta più radicale, che rilancia in avanti, è quella dell’approccio intersezionale.
Altro esempio riportato da WCL:
«Djuna Barnes non è più middle class di Orwell (forse meno, probabilmente) e il suo romanzo Nightwood, alla pari di Senza un soldo a Parigi e Londra, è ambientato negli slum della Parigi postbellica. Tuttavia quello di Nightwood è considerato un romanzo LGBT e non gli è concesso di essere un romanzo working class.»
Il problema allora è come pensiamo la working class, la sua composizione e le sue politiche. Spesso pensiamo alla classe lavoratrice come un aggregato di maschi bianchi, dimenticando che la working class dei nostri giorni è sempre più composta di donne e di lavoratori con origini nei paesi del sud del mondo. Antirazzismo, diritti delle donne e orientamento sessuale possono e devono essere considerati problemi della working class contemporanea.
La classe si stratifica anche attorno alle politiche dell’identità: se sei donna, sei pagata di meno; se sei lesbica o omosessuale, puoi essere discriminata sul posto di lavoro; se sei trans, possono rifiutarti un lavoro dopo un colloquio; se il tuo nome indica origini in un paese del Sud del pianeta, possono scartarti prima ancora di concederti un colloquio, oppure possono darti un lavoro nero, confidando nel fatto che non avrai reti sociali per permetterti di denunciare un boss di merda che ti sottopone a straordinari non pagati. Ripetiamolo: politiche di classe e politiche di identità sono intrecciate. E dobbiamo intrecciarle anche nei nostri racconti.
4. Raccontare il reale oltre il realismo
Sempre sul tema della definizione degli autori working class, WCL fa un controesempio: Bryan Stanley Johnson.
L’autore di In balia di una sorte avversa era di estrazione working class, bianco e maschio, impegnato nel sindacato. La sua opera spesso «esprime prospettive di sinistra, sottolinea l’alienazione dei lavoratori e il conflitto di classe». Sarebbe perfetto per una definizione standard di «autore working class» ma…. «ma è troppo sperimentale», commenta WCL.
Lo stigma del realismo colpisce la narrativa operaia e i romanzi proletari devono purtroppo essere pensati come variante di una qualche forma di realismo.
5. Come non raccontare la classe operaia (per non diventare un «traditore di classe»)
Fin qui ho riassunto, con mie chiose ed estensioni, le tesi di Working Class Literature. Adesso voglio spingermi più avanti.
Innanzitutto, per costruire dobbiamo sgombrare il terreno dalle macerie. Dobbiamo respingere alcune cornici di pensiero. Punti di vista letterari consolidati che possono essere vincenti e portare a buone vendite, perché sono consolatori e galvanizzano la coscienza del borghese medio, eliminando il racconto del conflitto sociale.
Una di queste strategie che disinnescano la portata conflittuale del racconto del mondo dei lavoratori è quella del vittimismo. Avrei potuto raccontare così la storia di mio padre in Amianto, ma mi avrebbe preso a pedate anche da morto.
Un’altra cornice è quella della strategia del cherry picking: il bravo ragazzo figlio di lavoratori che ce l’ha fatta, la success story di chi parte dal basso, in pieno spirito meritocratico liberal.
La terza modalità che respingo è raccontare quant’era brutta la vita operaia, quant’era meschina, volgare, sessista, rassicurando i lettori di ceto medio, anche di sinistra, sulla loro superiorità morale.
Per come la vedo io, tutte sono forme di quello che in Francia e in Inghilterra si definisce «tradimento di classe». In realtà il vero tradimento è farsi raccontare dagli altri. Basta donne raccontate da maschi, neri raccontati da bianchi, operai raccontati da borghesi. Farsi raccontare, abdicare dalla responsabilità di creare un immaginario che ci rappresenti, è un colpo basso nei confronti dei nostri pari.
E questo è il punto: ci stanno raccontando “loro” e ci raccontano male, in maniera condiscendente o demonizzando le nostre vite. Dobbiamo raccontarci da soli. Dobbiamo mettere le nostre mani sugli arsenali del racconto.
Perché forse hanno ragione loro.
Forse scrivere è davvero roba da borghesi.
Scrivere storie working class è il mio modo per non essere un class traitor.
6. La narrativa working class racconta il conflitto dal basso
In definitiva, l’unica certezza che abbiamo è il conflitto. La working class esiste quando c’è il conflitto sociale: per questo dicono che la classe operaia non esiste più, per gettare acqua sui tizzoni che ancora, più o meno marginalmente, ardono.
Quel che caratterizza la narrativa working class è che racconta una realtà non pacificata, il conflitto sociale, guardandolo dal basso ed espandendo la solidarietà tra sfruttati. Sta dalla parte degli oppressi contro gli oppressori, dalla parte degli sfruttati contro gli sfruttatori.
È proprio per raccontare il conflitto dei nostri giorni nella maniera più efficace che bisogna intrecciare le categorie di genere, etnicità e orientamento sessuale con quelle di classe. L’oppressione si radica in queste categorie. Utilizzarne alcune contro altre è un altro esempio di tradimento di classe e un fallimento intersezionale. Come succede se si racconta una classe bianca mettendola contro i lavoratori neri, o se si racconta il patriarcato dipingendolo come connaturato agli operai maschi bianchi, assolvendo il maschilismo dei ricchi.
Raccontare in maniera parziale, senza intrecciare questi elementi di subalternità, spesso porta non a una rappresentazione della classe lavoratrice, ma alla sua trasfigurazione tendenziosa e caricaturale. Dobbiamo raccontare per trasformare ed espandere l’immaginario della classe operaia dei nostri giorni, non per demonizzarla.
7. E allora i vecchi operai che votano a destra?
E allora le foibe? No, ok. Torniamo al punto.
Dimensioni di conservatorismo ci sono sempre state nella classe operaia. Oggi sono enfatizzate anche dai media che usano maldestramente le politiche liberiste volute dalle élite che strumentalmente pretendono «di fare il bene dei lavoratori» per incassare voti. In realtà, they are just screwing the working class, ci stanno insomma fottendo.
Dall’elezione di Trump alla Brexit, è sempre meglio dar la colpa alla working class, usare la nostalgia, parlare di classe bianca e dei bei tempi andati, fomentare il razzismo storpiando le tesi di Marx sull’esercito industriale di riserva (senza citare quel che ha scritto sulla solidarietà di classe verso gli irlandesi): tutto questo per evitare che i lavoratori neri ricompattino il fronte delle mobilitazioni sui luoghi di lavoro.
Alcuni di questi operai “disillusi” sono passati attraverso lo shock di anni di liberismo, tutti sono stati abbandonati dai loro partiti di riferimento, che sono diventati partiti di professionisti della classe media. Lo smantellamento delle comunità operaie e la deindustrializzazione hanno distrutto, alimentando il morbo tossico dell’individualismo thatcheriano, i punti di riferimento della classe operaia, che fatica a leggere il nord sulla bussola. Tempeste elettromagnetiche attraversano la nostra società col “rumore” delle passioni tristi: pensa ai fatti tuoi, fatti una risata, arricchisciti alle spalle degli altri. Ossia diventa classe media.
In realtà, il grosso della classe lavoratrice non vota oppure, se lo fa, lo fa per vendicarsi di chi ha tradito il suo impegno verso i lavoratori.
Per uscire da questo cul-de-sac, bisogna distruggere il veleno del razzismo che è usato dai ceti egemonici per spezzare la ricomposizione della nuova classe lavoratrice. Si può fare lottando assieme. Si può fare anche, in maniera parziale, ricostruendo un immaginario working class con ogni mezzo necessario, anche con la narrativa. Ma non possiamo trascurare le ferite di classe degli operai bianchi. Altrimenti si infetteranno e la cancrena si estenderà ai nuovi segmenti del mondo del lavoro.
8. Non dimentichiamo la working class bianca
Per questo non possiamo dimenticarci della classe operaia bianca. Non possiamo pensare che quella classe operaia non esista più o non vada raccontata, concentrandosi solo sulla composizione della nuova working class. Delusa e frustrata, abbandonata da partiti e sindacati di riferimento e priva di sicurezze sociali, la vecchia classe operaia viene data in pasto agli avvoltoi della destra, che usano la miseria operaia per alimentarla, non per abolirla. La diamo in pasto alla destra, che la manipola, o al moralismo edificante di chi la stigmatizzerà come white trash o chav o coatta per alimentare il proprio senso di superiorità morale.
Aggiungo solo che la pelle di mio padre era bianca, ma si maculava di ferite e bruciature e si tingeva di olio nero, di ossidi di ferro rossi e polvere grigia d’amianto.
9. Parti da te
Perché il protagonista della mia storia non è una donna operaia o un operaio nero? Perché parto dalla mia esperienza, dal mio vissuto, da me stesso. Applico il principio femminista: parti da te, dal tuo corpo. La scrittura funziona bene, col motore al massimo dei giri e senza cadute di tensione, quando si parte da se stessi.
Se leggo racconti di donne afroitaliane – ne è appena uscita una splendida antologia per Effequ, Future – mi rendo conto che certe esperienze, con tutte quelle sfaccettature, senza stereotipi vittimari, io non posso raccontarle altrettanto bene perché non posso collocarmi nella pelle, nel punto di vista delle autrici. Bisogna scrivere all’altezza del nostro corpo, delle nostre ferite di classe. Per questo il mio progetto come scrittore continua come editor: dove non arrivo io, possono arrivare altri, e la collana working class serve proprio a questo. Dare spazio a una narrativa working class che sia anche femminile, ibrida, postcoloniale e queer.
10. Cosa sto cercando di fare con la Trilogia Working Class
Il punto è quello del pensiero femminista e del punk. Do it yourself. Scrivi e non farti scrivere. E parti da te stessa e dal tuo corpo. Racconta la classe a partire dal corpo. In particolare dal corpo dei lavoratori. Ho iniziato con Amianto, dove ho raccontato la destrutturazione del corpo del protagonista del libro, il saldatore Renato, che era il mi’ babbo. Sto cercando di raccontare il lavoro sfruttato su tre generazioni, a partire da una storia personale. Al momento sto dando colpi di lima al manoscritto dell’ultimo volume. Comincio a vedere la terra, dopo un percorso di scrittura iniziato nel 2010, ormai dieci anni fa, quando cominciai la prima stesura di Amianto. Un percorso intervallato da momenti di manutenzione dell’officina della scrittura, come questo che sto pubblicando su Giap.
11. Cosa voglio fare con la collana «Working Class» di Alegre
Con la collana Working Class voglio fare quello che non posso fare con la mia scrittura. O detto altrimenti: la collana è una continuazione della Trilogia con altri mezzi.
Nella Trilogia non posso mettere al centro le donne e i migranti, che è quello che bisogna fare per parlare della classe lavoratrice di oggi, perché ho deciso di seguire il principio del «parti da te» (in realtà si vedrà che nel terzo e ultimo libro le donne hanno un ruolo centrale). Però donne lavoratrici, lavoratori migranti e persone afroitaliane possono raccontare le storie del loro lavoro, come parte di questa nuova classe lavoratrice, nella collana Working Class. Raccontarla dall’interno, a partire da sé, dalla pelle e dal corpo, invece che farsi raccontare da altri, con paternalismo, condiscendenza, vittimismo, categorie che risultano nocive quanto la demonizzazione d’un tempo.
È questa una delle linee programmatiche del progetto. Partire dalla vecchia classe operaia per raccontare la nuova working class ibrida. Rispetto alla definizione ampia di WCL, la collana ha un senso più stringente, perché privilegia i racconti fatti da chi è cresciuto e vive dentro alla classe lavoratrice. Questo implica alcune difficoltà. Non ci rivolgiamo di solito ad autori professionisti. Sto incoraggiando a scrivere alcune persone che non hanno mai pubblicato. A volte arrivano manoscritti in lettura, ma il punto di vista è molto ripiegato su di sé e sulle proprie sfighe personali, come in certa «narrativa del precariato», mentre io vorrei uno sguardo anche corale, molteplice, aperto al racconto della solidarietà tra lavoratori, che offra spazio anche ai compagni di lavoro.
Come ho già scritto, nella collana non voglio dimenticare la working class bianca. Piuttosto, bisogna raccontarla meglio, mostrare le sue crepe, le stratificazioni e le sfaccettature. Ad esempio, raccontarne il sessismo, denunciandolo ma senza moralismo e senza chiamarsi fuori, deridendolo con l’ironia. Oppure raccontare una classe operaia che si apre a concetti come il queer (ricordate il film Pride?), che smonta la propria eteronormatività. Ci sono autori, soprattutto in Inghilterra, che questo lavoro l’hanno fatto e sarebbe bello ospitarli nella collana.
12. «Se sei uno scrittore non sei working class»
L’accusa è che se scrivi un libro non sei un subalterno. Paradossale, perché le entrate delle vendite di un libro anche fortunato, a parte rare eccezioni, sono magre e non valgono un salario da postino. Inoltre non “si è” scrittore, “si fa” lo scrittore o la scrittrice, come si fanno tanti altri mestieri, spesso contemporaneamente.
Il punto è che scrivere libri nell’immaginario comune fa parte della condizione di confort della borghesia alta, ma questo vale solo perché dobbiamo ancora imporre un immaginario in cui anche chi, di estrazione sociale bassa, pubblica libri, o li edita e li traduce, possa farlo senza diventare un traditore di classe.
Piuttosto che preoccuparsi di aver scritto un libro, bisogna auspicare che i lavoratori dell’industria editoriale di estrazione working class siano sempre più numerosi. Negli UK è stato condotto nel 2016 uno studio sulla partecipazione degli occupati con origini working class nella forza lavoro dell’editoria, citato da un articolo sul Guardian di Kit De Waal. La percentuale è bassa, i working class sono sotto-rappresentati nell’industria editoriale e contano solo per il 10 percento. In Italia neanche ci si pone il problema, e lo stesso vale per gli afroitaliani o per altre persone di colore: «tornate al centro interinale», «state al vostro posto», «cosa c’entra la classe operaia coll’aureo mondo delle lettere», vero?
Postilla: E dopo la Trilogia Working Class?
A volte mi chiedono cosa farò dopo la Trilogia Working Class, dopo dieci anni di lavoro Ho cominciato a scrivere Amianto nel 2010, nel 2012 è uscito per Agenzia X; nel 2014 è stato rieditato per Alegre in una nuova edizione accesciuta. Nel 2018 è uscito per Laterza 108 metri. Nel 2019 Amianto è stato pubblicato in Francia. Nel 2020 Amianto sarà tradotto in castigliano e catalano e 108 metri sarà pubblicato in greco (uscirà anche in spagnolo nel 2021). Sempre nello stesso anno dovrebbe uscire il terzo e ultimo volume della Trilogia. Sono dieci anni esatti di lavoro.
Non so cosa farò dopo. Non si tratta di chiudere una parentesi ma di rimettere il sasso nella fionda, mirando più lontano. Di sicuro sento anche il bisogno di cambiare. Non parlare troppo di me, dopo averlo fatto in tre libri (la trappola del narcisismo nella biofiction è appena dietro l’angolo). Provare a inventare mondi di finzione (mica si può lasciare solo agli autori di estrazione sociale alta l’idea che il loro immaginario narrativo serva a creare mondi d’invenzione, mentre i poveracci sono costretti a ruminare le proprie cenciose esistenze).
Di certo, posso cambiare forme espressive, ma non possiamo cambiare quel che siamo e da dove veniamo, né si possono cancellare le ferite di classe sul nostro corpo. Un nero non può togliersi la pelle. E la classe, come ci ricorda la femminista Annette Kuhn, va oltre i tuoi abiti, si vede nei riflessi, perché is under your skin, è corporea, sta proprio sotto la pelle.
Provano a negare l’esistenza della classe solo per toglierci la pelle. Ma la pelle ci dice quel che siamo, da dove veniamo, che cosa soffriamo. La letteratura working class parte dalla pelle.
Alberto Prunetti
26/9/2019 https://www.wumingfoundation.com
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