Sanità, la privatizzazione strisciante

L’uomo più ricco del mondo, Jeff Bezos, ha deciso di tagliare l’assicurazione sanitaria a 1900 dipendenti di una controllata da Amazon, la Whole Foods. Quei lavoratori dovranno rinunciare alle cure in caso di necessità in un paese, come gli Stati uniti, dove anche una semplice visita medica può costare diverse centinaia di dollari. Pensate un po’ lo stato d’animo di quelle persone, alle quali viene imposta una pesantissima limitazione al diritto alla salute da parte di una società che fa capo ad un uomo che in un’ora (in un’ora!) guadagna grosso modo l’equivalente di due mesi di salario di tutti quei dipendenti messi insieme. Farebbe rabbia già questo dato da solo.

Intanto, già da quasi un anno Amazon, insieme a Berkshire Hathaway di Warren Buffet e alla banca d’affari JP Morgan, è protagonista di un’operazione per entrare nel business delle coperture sanitarie e proporsi come concorrente nel mercato della salute Usa. Considerate che da soli i tre colossi del business contano più di un milione di dipendenti. Una platea già enorme a cui proporre prestazioni e servizi sanitari. Un’operazione che nasce – dicono – dall’apprensione per i costi della sanità statunitense.

Considerazione che suona immediatamente ipocrita, anche se ammantata di una veste di utilità sociale, come se i colossi americani, con una mano sul cuore (sic!), avessero deciso di dare il loro contributo al benessere dei cittadini, dando vita a una società indipendente che avrà la missione dichiarata di ridurre gli oneri assistenziali a carico dei dipendenti e migliorare i servizi. Ovviamente, anche per dare una veste umanitaria all’operazione, la società che i colossi Usa stanno creando sarà una no-profit. Ma è proprio il sistema privatistico statunitense a produrre contemporaneamente una spesa sanitaria statale tra le più alte al mondo e un’aspettativa di vita così bassa da piazzare il modello sanitario statunitense tra quelli peggiori al mondo.

L’irruzione dei privati

In Italia, lo stato sociale si muove sui binari della privatizzazione ormai da decenni, ma ora l’ingresso del privato nella sanità irrompe in un settore dove gli interessi particolari si scontrano inevitabilmente con il diritto universale alla salute. È interessante leggere, su questo tema, quanto sostenuto nel Rapporto sullo stato sociale 2019, welfare pubblico e welfare occupazionale, che fa notare come il welfare contrattualizzato accentua le disparità di accesso alle prestazioni sociali. E non finisce qui, perché a rimetterci non è solo l’equità già compromessa, ma anche l’efficienza delle prestazioni, sull’esaltazione della quale si regge invece la narrazione neoliberista che decanta le virtù del privato e l’inefficienza congenita del pubblico. È scritto a chiare lettere nel Rapporto appena citato: «I costi di gestione delle assicurazioni sanitarie e dei fondi pensionistici finanziati a capitalizzazione presenti nel mercato sono strutturalmente superiori a quelli delle corrispondenti prestazioni offerte dal welfare state».

Se gli Stati uniti sono un caso emblematico di welfare privatizzato (con la spesa su Pil pari al 6,7%) e l’Italia è avviata su quella strada ma con il welfare occupazionale a impegnare, per il momento, una spesa in rapporto al Pil pari allo 0,9%, negli altri paesi Ocse si registrano dati significativi: l’Olanda spende il 7% del Pil, il regno Unito il 5,3%, la Svezia il 3,2%. Ma più di tutti, la lettura combinata di un paio di dati danno l’idea dell’andamento della spesa sanitaria italiana, che drena denaro dal pubblico verso il privato.

In Italia la spesa sanitaria si aggira complessivamente, tra pubblico e privato, sul 9% del Pil, con una variazione negativa tra il 2009 e il 2013 (-0,9%) e lievemente positiva nei quattro anni successivi. Un andamento che riflette lo scarso impegno di spesa del nostro paese nel servizio sanitario, dal momento che, negli stessi periodi, i paesi dell’Ue-28 registravano variazioni positive, rispettivamente dello 0,6% e dell’1,9%. Questo dato va precisato meglio, per individuare dove c’è stata la riduzione della spesa sanitaria. Ancora il Rapporto sullo stato sociale mostra, dati alla mano, quel che spesso si materializza nella vita reale della stragrande maggioranza delle persone comuni come difficoltà a far valere il diritto alla salute. La stretta della spesa sanitaria, in Italia, è legata in particolar modo alla riduzione della componente pubblica, scesa, in soli sette anni dal 2010, del 4,4% per attestarsi al 74%, ben al di sotto di quella di Francia, Germania e paesi scandinavi dove la quota varia tra l’83 e l’85 per cento. Intanto, già dal 1990 in Italia la spesa riconducibile agli schemi del welfare occupazionale continuava ad aumentare, crescendo dell’85% fino 2015.

Questi ultimi dati sono un indicatore dell’indirizzo che la politica italiana ha adottato riguardo la sanità, e cioè una lenta sostituzione della sanità pubblica con quella privata. Da un punto di vista degli interessi e delle istanze sociali in gioco, significa far avanzare l’idea che la salute sia sempre meno un diritto e sempre più un bene da acquistare sul mercato, mentre dalle parti alte della scala sociale si assiste a un drenaggio di ricchezza pubblica verso le casse dei privati. I dati riferiti al 2017 indicano in 5,7 miliardi di euro l’onere a carico del bilancio pubblico per sostenere la spesa sanitaria privata, nella quale operano giganti del settore sanitario che fatturano, ognuno, decine di milioni di euro l’anno e distribuiscono ricchi dividendi agli azionisti. Così, mentre per pochi la sanità rappresenta un grande business, il sistema sanitario nazionale viene progressivamente svuotato della garanzia dei diritti universali, che statisticamente si traduce in oltre 10 milioni di persone che si trovano a dover rinunciare alle cure, mentre nella vita reale si materializza nella sofferenza per malattia, nella difficoltà ad assistere un familiare disabile, nella morte precoce, nell’assenza di prevenzione o nell’impoverimento.

Gli Stati uniti chiamano

Attraverso lo svuotamento del servizio sanitario pubblico, passa più facilmente l’idea che lo stato non possa garantire efficacia delle cure ed efficienze, che per fornire assistenza sia necessario tutelare il bilancio dell’azienda sanitaria che perciò prevale sul diritto alla salute, che quindi siano giustificati i sistematici tagli di spesa (la chiamano razionalizzazione, spending review) alla sanità pubblica, che non serva o non si possa sbloccare il turn over per sopperire alla strutturale e cronica insufficienza di personale. Uno svuotamento scientifico della sanità pubblica per giustificare l’ingresso dei privati. Niente di nuovo, neppure da un punto di vista ideologico: Milton Friedman, guru del neoliberismo, è stato uno dei più convinti teorizzatori di questa subdola riforma in senso privatistico dei servizi pubblici, dell’espropriazione dei diritti per farne profitto.

Non c’è bisogno di una riforma che americanizzi d’un colpo la sanità per fare in modo che questa diventi un business per privati. Basta fare in modo che gli ospedali decadano, chiudano, che non abbiano fondi sufficienti, che i tempi di attesa per una prestazione siano inconciliabili con i bisogni di tutela della salute e di cura. Apparirà, poi, giustificato drenare soldi pubblici ai privati, lasciare che questi allarghino i loro tentacoli su ogni tipo di prestazione, non ritenere necessario verificarne l’attività perché – si lascia intendere – come può l’inefficiente stato controllare un più capace, produttivo, dinamico privato?

Sempre più persone saranno, a quel punto, costrette a rivolgersi frequentemente ai privati. Nessun problema per chi potrà permetterselo. Ma chi non vive di profitti, chi è costretto a campare di salario o sussidi o carità, vedrà, e già vede, il diritto alla salute compromesso, se non del tutto cancellato. Chi ci rimette? Come al solito, le categorie di persone più vulnerabili: chi vive al Sud, troppo spesso costretto a viaggi della salute; chi campa di bassi salari o è sostenuto da redditi bassi che avrà maggiori difficoltà economiche a fare una visita specialistica; le donne che ancora si dedicano più degli uomini al lavoro di cura e sperimentano sulla propria pelle il medioevo in troppi consultori e reparti di ginecologia pieni di obiettori di coscienza; chi è costretto ai margini della società. Tutti avvolti in una spirale di riduzione della capacità di rispondere ai bisogni sanitari e una spinta verso il basso della qualità delle prestazioni. Le disuguaglianze sociali, in questo modo, non possono che crescere ulteriormente. A tutto questo contribuisce il welfare aziendale anche nelle forme in voga in Italia.

Il ruolo del welfare aziendale

Eppure c’è stato chi l’aveva raccontata diversamente la questione del welfare aziendale, così strettamente legato a un più generale diritto alla salute. Si diceva che non avrebbe rappresentato una minaccia al  welfare pubblico, che avrebbe favorito il benessere dei lavoratori; che sarebbe stato una risposta concreta ai bisogni delle persone capace di abbassare la soglia di accesso ai servizi. Insomma, sembrava, secondo questa lettura, una risposta strategica alla strutturale debolezza dei lavoratori in questa fase storica di neoliberismo galoppante. Invece, se la foglia di fico la si sposta appena un po’, si mostra apertamente che quel che è avvenuto è l’esatto contrario di ciò che è stato detto per giustificare l’introduzione del welfare aziendale: ha aperto i rubinetti pubblici nelle casse dei privati.

Appare fin troppo ovvio che proprio la debolezza dei lavoratori di fronte ai datori di lavoro, agendo su due fronti, ha facilitato l’accettazione che il diritto alla salute possa essere affidato alle regole di mercato: da un lato le pressioni di gruppi di potere economici e finanziari hanno spinto una politica quasi del tutto assorbita (seppure con gradi e sfumature diversi) dall’idea neoliberista, a soluzioni di mercato e neocorporative; dall’altro, la riorganizzazione dei processi produttivi che ha frammentato la classe lavoratrice ha favorito il processo di parcellizzazione del lavoro, il contenimento del costo del lavoro, l’erosione di quote di salario di cui il welfare aziendale è strumento per la sua attuazione.

Così, il welfare aziendale si risolve in erosione di salario per i lavoratori e sgravi fiscali per i datori di lavoro, riduzione del salario indiretto e differito per i lavoratori e contenimento del costo del lavoro per le imprese. Perché è evidente che la quota di salario sostituita dal welfare aziendale non è nelle piene disponibilità dei lavoratori e che per quella stessa quota di salario andranno persi contributi sociali e Tfr. In più, la beffa è dovuta al fatto che questo meccanismo non è senza costi per le finanze pubbliche, dal momento che – calcolano gli estensori dello studio richiamato sopra – «in campo sanitario, in aggiunta alle prestazioni del Ssn, lo stato riconosce sgravi fiscali per l’acquisto sul mercato di beni e servizi sanitari tra cui quelli mediante l’iscrizione a fondi sanitari i quali assorbono risorse stimate tra i 2 e i 2,5 miliardi di euro». Soldi, cioè, che escono dalle tasche dei lavoratori per finire nel business della salute, sottratti al welfare pubblico al quale sono imposti sistematici tagli delle risorse in nome del libero mercato e dei vincoli di bilancio.

Soluzioni o specchietti per le allodole?

In questo contesto arriva la proposta del ministro della salute, Roberto Speranza, di far pagare il ticket sanitario in base al reddito. Che vuol dire chiudere gli occhi di fronte alla sfascio che da qualche decennio di produce nella sanità pubblica. Anzi, significa tenerli bene aperti sugli interessi dei privati. Perché risulta fin troppo ovvio che proprio coloro che si troverebbero a pagare ticket più elevati, cioè chi gode di redditi alti, continueranno a scegliere strutture private lasciando, così, ai meno abbienti un servizio sanitario sempre più svuotato; mentre nemmeno uno dei problemi strutturali viene neanche menzionato.

Una maniera per finanziare la sanità pubblica avendo attenzione al reddito ci sarebbe, a partire dall’abolizione della regionalizzazione del Ssn: finanziare il fabbisogno sanitario attingendo da una fiscalità generale fortemente progressiva. Sarebbe, questo, un meccanismo redistributivo, che garantendo il diritto universale alla salute contribuirebbe a ridurre le disuguaglianze che un sistema di welfare privato fa, invece, aumentare.

Ma chiaramente, per fare questo, bisognerebbe abbattere il totem dei vincoli di bilancio imposti dall’Ue e in generale abbandonare l’idea che il mercato sia regolatore di ogni cosa, anche dei diritti universali. Difficile credere che Speranza, con tutto il governo di cui è parte, lo farà. D’altronde, un segnale arriva dalla manovra economica che, a parte un aleatorio recupero dall’evasione fiscale, si regge sulla flessibilità che dovrebbe essere concessa dall’Ue e sul risparmio delle spese per interessi dovuto al calo dello spread. In parole povere  si regge sul beneplacito delle élite economiche e finanziarie internazionali, cioè proprio di coloro che spingono perché i diritti siano mercificati e diventino fonte di profitto. Non c’è neanche bisogno di ricordare che tra quelle élite troviamo i colossi del business da cui siamo partiti. E per ricordare la loro poca propensione (generosissimo eufemismo) alla tutela dei diritti dei lavoratori, e delle persone in genere, specie quelle più vulnerabili, basti l’esempio delle ampiamente documentate critiche alle condizioni di lavoro nei magazzini Amazon o la pressione di JP Morgan sui governi europei per cambiare le Costituzioni antifasciste, colpevoli di garantire ancora i diritti sociali.

Da parte nostra, piuttosto che sperare in improbabili e improvvisi ravvedimenti e pentimenti di chi finora ha sostenuto le magnifiche sorti e progressive del libero mercato, faremo bene a stare vigili per reagire allo smantellamento ulteriore dello stato sociale, per non ritrovarci, prima o poi, dei Jeff Bezos, dei Warren Buffet, dei Jamie Dimon a venderci, tra una spedizione veloce, un contratto assicurativo e una proposta di investimento, anche il diritto alla salute. Che non è affatto detto che potremmo permetterci.

Carmine Tomeo

9/10/2019 https://jacobinitalia.it

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