Il nuovo spirito del capitalismo
Il concetto di spirito del capitalismo, così come lo definiamo, ci permette di superare l’opposizione, che ha dominato buona parte della sociologia e della filosofia degli ultimi trent’anni – almeno per quanto riguarda i lavori che si collocano all’intersezione tra sfera sociale e sfera politica – tra le teorie, spesso di ispirazione nietzschiano-marxista, che hanno visto nella società solo violenza, rapporti di forza, sfruttamento, dominio e scontri di interessi e, sul fronte opposto, le teorie ispirate soprattutto alle filosofie politiche contrattualiste, che hanno posto l’accento sulle forme del dibattito democratico e sulle condizioni della giustizia sociale. Nei testi che fanno capo alla prima corrente, la descrizione del mondo appare troppo negativa per essere reale. In un mondo del genere non si potrebbe vivere a lungo. Mentre la realtà sociale descritta dai testi della seconda corrente è innegabilmente troppo rosea per essere credibile. Il primo orientamento teorico si occupa spesso del capitalismo, ma senza riconoscergli una dimensione normativa. Il secondo tiene conto delle esigenze morali che derivano da un ordine legittimo; ma, sottovalutando l’importanza degli interessi e dei rapporti di forza, tende a ignorare la specificità del capitalismo, i cui contorni si sfumano confondendosi nell’intreccio delle convenzioni su cui si fonda sempre l’ordine sociale.
Il concetto di spirito del capitalismo ci permette anche di coniugare all’interno di una stessa dinamica le evoluzioni del capitalismo e le critiche che gli vengono mosse. Nella nostra costruzione, infatti, faremo svolgere alla critica un ruolo determinante nei cambiamenti dello spirito del capitalismo.
Se è vero che il capitalismo non può prescindere da un orientamento verso il bene comune da cui trarre dei motivi di coinvolgimento, la sua indifferenza normativa fa sì che lo spirito del capitalismo non possa generarsi a partire dalle sue sole risorse: ha bisogno dei suoi nemici, di quelli che indigna e gli si oppongono, per trovare i fondamenti morali che gli mancano e incorporare alcuni dispositivi di giustizia dei quali, altrimenti, non avrebbe alcun motivo di riconoscere la pertinenza. Il sistema capitalistico si è rivelato infinitamente più solido di quanto avessero pensato i suoi detrattori, Marx fra i primi, anche perché ha trovato nelle stesse critiche che gli venivano rivolte le possibilità della sua sopravvivenza. Il nuovo ordine capitalistico emerso dopo la Seconda guerra mondiale, per esempio, non ha in comune con il fascismo e il comunismo il fatto di attribuire grande importanza allo Stato e a un certo dirigismo economico? È probabilmente questa sorprendente capacità di sopravvivenza per endogenizzazione di parte della critica che ha contribuito a disarmare le forze anticapitaliste, con la conseguenza paradossale che, in periodi come quello attuale in cui il capitalismo sembra trionfante, si manifestano i sintomi di una fragilità che compare proprio quando i veri antagonisti sono scomparsi. Il concetto stesso di critica sfugge peraltro alla polarizzazione teorica tra interpretazioni in termini di rapporti di forza o di relazioni legittime. Infatti l’idea di critica assume valore solo se esiste un differenziale tra uno stato di cose desiderabile e uno stato di cose reale. Per assegnare alla critica il posto che le spetta nella realtà sociale, bisogna rinunciare a ridurre la giustizia alla forza o a lasciarsi accecare dall’esigenza di giustizia al punto da ignorare i rapporti di forza. Per essere valida, la critica deve potersi giustificare, deve cioè poter chiarire i propri fondamenti normativi, in particolare quando deve confrontarsi con le giustificazioni che dà delle proprie azioni chi è oggetto della critica. La critica continua dunque a fare riferimento alla giustizia – poiché se la giustizia è un inganno, a che scopo criticare… Ma, d’altra parte, la critica mette in scena un mondo nel quale l’esigenza di giustizia è continuamente trasgredita. Svela l’ipocrisia delle pretese morali che dissimulano la realtà dei rapporti di forza, dello sfruttamento e del dominio.
L’impatto della critica sullo spirito del capitalismo sembra essere, potenzialmente, almeno di tre tipi. In primo luogo, è in grado di delegittimare gli spiriti precedenti e togliere loro efficacia. Daniel Bell sostiene per esempio che il capitalismo americano ha avuto grandi difficoltà alla fine degli anni sessanta a causa della crescente tensione tra le modalità di vivere il lavoro derivate dall’ascetismo protestante sulle quali continuava a fondarsi e, dall’altra parte, lo sviluppo di un modo di vita fondato sul godimento immediato e sul consumo stimolato dal credito e dalla produzione di massa, che i salariati delle aziende capitalistiche erano spinti ad abbracciare nella vita privata. Secondo questa analisi, l’edonismo materialista della società consumistica si scontra, criticandoli, con i valori della fatica e del risparmio che si presuppone sostengano, almeno implicitamente, la vita lavorativa, e scalza così delle modalità di impegno legate alla forma di spirito del capitalismo allora dominante, che risulta quindi parzialmente delegittimata. Ne segue una smobilitazione importante dei salariati, che è il risultato di una trasformazione delle loro aspettative e delle loro aspirazioni.
In secondo luogo la critica, opponendosi al processo capitalistico, costringe coloro che ne sono i portavoce a giustificarlo in termini di bene comune. Più la critica si rivelerà feroce e convincente per un gran numero di persone, più le giustificazioni dovranno essere legate a dispositivi affidabili che garantiscano un miglioramento effettivo in termini di giustizia. Se infatti i rappresentanti dei movimenti sociali si accontentano, in risposta alle loro rivendicazioni, di dichiarazioni superficiali non seguite da azioni concrete – di belle parole –, se l’espressione di buoni sentimenti è sufficiente a calmare l’indignazione, non c’è alcuna ragione perché i dispositivi che dovrebbero rendere l’accumulazione capitalistica più conforme al bene comune debbano essere migliorati. E quando il capitalismo è costretto a rispondere effettivamente ai punti sollevati dalla critica per cercare di calmarla e per continuare a mantenere l’adesione dei suoi accoliti che rischiano di prestare orecchio alle denunce, con questa stessa operazione incorpora a sé una parte dei valori in nome dei quali era criticato. In questo caso l’effetto dinamico della critica sullo spirito del capitalismo passa attraverso il rafforzamento delle giustificazioni e dei dispositivi a esse associati che, senza mettere in discussione il principio stesso dell’accumulazione né l’esigenza di profitto, dà in parte soddisfazione alla critica e integra nel capitalismo dei vincoli corrispondenti ai punti che preoccupano maggiormente i suoi detrattori. Per la critica, il prezzo da pagare per essere ascoltata, almeno parzialmente, è dunque di vedere che una parte dei valori che aveva mobilitato, per opporsi alla forma assunta dal processo di accumulazione, vengono messi al servizio di questa stessa accumulazione, secondo il processo di acculturazione di cui abbiamo parlato in precedenza.
L’ultimo possibile impatto della critica emerge da un’analisi molto meno ottimistica circa le reazioni del capitalismo. Si può infatti supporre che, in certe condizioni, il capitalismo si sottragga all’esigenza di rafforzamento dei dispositivi di giustizia sociale rendendosi più difficilmente decifrabile e “imbrogliando le carte”. In questo caso la risposta alla critica non porta alla realizzazione di dispositivi più giusti, ma a una trasformazione dei modi di realizzazione del profitto, al punto che il mondo si trova momentaneamente disorganizzato rispetto ai referenti precedenti e in uno stato di forte illeggibilità. Di fronte a nuove organizzazioni di cui non era stata prevista la comparsa e di cui è difficile dire se siano più o meno favorevoli ai salariati rispetto ai dispositivi sociali precedenti, la critica resta per un certo tempo disarmata. Il vecchio mondo che denunciava è scomparso, ma non sa cosa dire del nuovo. La critica agisce qui come sprone per accelerare la trasformazione dei modi di produzione, che entreranno in contrasto con le aspettative dei salariati formatesi in base ai processi precedenti, e questo indurrà a una ricomposizione ideologica destinata a dimostrare che il mondo del lavoro ha sempre un “senso”.
di Luc Boltanski e E’ve Chiapello
fonte: le parole e le cose
16/1/2015 www.rifondazione.it
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