Torino Mirafiori, 1969. C’era una volta la lotta operaia
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Nel dicembre 1968 comincia alla Fiat una nuova storia che si sviluppa velocissima e con il fragore di una valanga. Il padrone non era cambiato e non voleva cambiare, ma certo era cambiata la testa dei lavoratori, a cominciare proprio dai giovani meridionali.
Il 12 dicembre 1968 la Fiom vince le elezioni di Commissione interna e diventa il primo sindacato, con un grande sospiro di sollievo. Ci sono nuovi giovani, come Giampiero Carpo del collaudo che seguiva prevalentemente lo stabilimento delle presse e delle meccaniche, Armando Caruso alle fonderie e Salvatore Hernis in carrozzeria. Girano di più e prendono anche tonnellate di multe. Affiancano con efficacia i più anziani ed esperti come Aldo Surdo.
Riesce discretamente lo sciopero per le pensioni a febbraio 1969 e, anche con nostra sorpresa, riesce alla grande lo sciopero per i morti di Battipaglia in aprile (due morti, uccisi dalla polizia). Proprio questo ci spinge, assieme a Fim e Uilm, ad accelerare la fase delle vertenze articolate, cioè vertenze specifiche rivolte alla soluzione immediata dei problemi più gravi che riguardavano quei particolari lavoratori.
Ci avevamo lavorato a lungo, alle porte dello stabilimento e con i pochi che passavano dalle leghe. A lungo vuol dire per mesi. Alle fonderie siamo addirittura arrivati a una serie di una quarantina di volantini numerati, in sequenza.
Eravamo sicuramente in ritardo. Certo per le elezioni di Commissione interna, ma anche per la difficoltà di costruire piattaforme efficaci e adeguate per risolvere problemi concreti, proprio perché la ricostruzione delle reali condizioni di lavoro avveniva nelle discussioni alle porte, di corsa, o nelle leghe: ma sempre di corsa, perché a casa dovevano tornare i lavoratori. Ed eravamo in ritardo perché in tutta Italia ormai iniziavano le assemblee per la discussione e l’approvazione della piattaforma per il prossimo contratto: da definire entro le ferie, in previsione di una vertenza che ci si aspettava decollasse verso il mese di ottobre.
Le piattaforme pronte erano tre: quella delle ausiliarie, cioè prototipi e manutenzione di tutte le officine, nella quale si chiedeva il superamento del capolavoro e la perequazione dei superminimi per anzianità; quella della sala prova motori nella quale si chiedeva la 2° categoria per il centinaio di addetti; e quella delle presse, nella quale, oltre alla solita perequazione dei superminimi si chiedeva il passaggio alla rotazione del turno di notte ogni 5 settimane invece che ogni 3.
La piattaforma per le linee di montaggio era quasi definita. Mancavano alcuni dettagli che stavamo mettendo a punto con l’aiuto prezioso e particolare di Aldo Surdo. Si trattava di giungere a una regolamentazione del lavoro in linea, nella quale fosse assicurato il rapporto tra la produzione da fare e i lavoratori presenti, la presenza di un numero di sostituti in grado di garantire a tutti la possibilità di staccarsi dalla linea per andare al gabinetto, la necessità di calcolare con precisione le pause dovute a fermate tecniche (interruzione della corrente, mancata alimentazione della linea, eccetera), in modo che i capisquadra non potessero in alcun modo costringere i lavoratori a recuperare la produzione persa non per loro responsabilità. E soprattutto si trattava di imporre in ogni squadra, la presenza di un operaio – il delegato, appunto – che facesse valere questi elementari diritti.
Dichiarammo due ore di sciopero interno per il 13 maggio 1969, per ausiliarie, presse e sala prova. La sala prova è partita subito a oltranza senza controlli. Ausiliarie e presse hanno scioperato come da volantino. Per tutti noi davvero un colpo impressionante. Anche perché si trattava di sciopero interno, senza la scusa di picchetti o altro. E le ausiliarie erano formate da 8.000 lavoratori, in massima parte addetti alla manutenzione e distribuiti quindi su tutti gli impianti dello stabilimento. Immaginate lo shock di tutti gli altri che vedono d’improvviso questi lavoratori allontanarsi insieme dagli impianti. Per sciopero. L’innesco di una gigantesca deflagrazione. E a miccia cortissima.
Avvertiamo i boati del terremoto che inizia e chiediamo un’immediata riunione con Pace e Pugno, segretari della Fiom di Torino e della Camera del Lavoro, Alberto Tridente e Cesare Del Piano, segretari della Fim e della Camera Cisl di Torino, Corrado Ferro, segretario della Uilm di Torino, e G. Perrone, padre-padrone della Uil torinese. Per chiedere, pensandoci ora in modo davvero irrituale, di inviare immediatamente dalle leghe di Mirafiori la piattaforma sulle linee di lavorazione e di montaggio che stavamo definendo. Ricordo una discussione dura e agitata, ma non ostile. Alla fine ci hanno dato il via libera.
Quella stessa sera Adriano Serafino, responsabile della Fim Mirafiori, Mario Castellengo, membro di Commissione interna e responsabile per la Uil della Mirafiori, e io firmammo la richiesta per le linee la piattaforma sulle scale del Bambi: una balera che, allora, stava proprio alle spalle della Quinta Lega della Fiom, in Corso Unione Sovietica. L’abbiamo portata subito alla porta 5, quella della Palazzina e della Direzione, con ricevuta naturalmente.
Anche la Fiat ha avvertito i boati, e immediatamente dopo il secondo sciopero interno ci ha convocato all’Unione Industriali. L’accordo per sala prova, presse e ausiliarie è stato firmato il 23 maggio 1969, dopo solo 10 giorni: davvero un primato, con la sostanza delle cose che avevamo chiesto, cioè abolizione del capolavoro, perequazione dei superminimi per anzianità, rotazione della notte ogni 5 settimane e 2° categoria per la sala prova.
Il terremoto sulle linee, specie in carrozzeria, scoppia comunque. E siamo arrivati agli inizi di giugno 1969. Le piattaforme sono tante, almeno 20-25 oltre quella unitaria del sindacato. Si chiede moltissimo. La 2° categoria per tutti, 50 lire di aumento sui superminimi, 50 lire sulla paga base, e tante altre cose che non vale la pena di ricordare.
Nel frattempo, davanti a Mirafiori era arrivato di tutto. Soprattutto studenti e movimento studentesco di tantissime città italiane, non solo di Torino, e poi gruppi, partiti, associazioni. Le porte della Carrozzeria, cioè la 1 e la 2 di Corso Tazzoli e la 18 e 20 di via Settembrini, della Meccanica, erano diventate il punto di aggregazione di tutte queste forze, specialmente al cambio turno dalle 13 alle 15. Per ciascuna porta, in Carrozzeria, passavano 5.000 operai, metà in entrata e metà in uscita. In Meccanica diciamo sui 4.000.
Accanto alle bancarelle di ortaggi e di vestiti o scarpe, oppure di attrezzi da ferramenta e altre varietà, spesso vi era la distribuzione in contemporanea di 7-8 volantini diversi. E si formavano gruppi, capannelli, si accendevano discussioni assai animate. Sicuramente le settimane più tumultuose e appassionanti che ho mai vissuto.
L’attacco al sindacato e alla richiesta di regolamentazione del lavoro in linea con la conquista del delegato in ogni squadra era portato con grandissima violenza: “Il nostro delegato è il corteo”, “Delegato bidone” erano le cose più gentili che ci dicevano tutti i gruppi. I distinguo sono arrivati dopo che li abbiamo conquistati. Ma c’erano anche attacchi altrettanto cattivi e pesanti per noi, come un volantino del Pci che sostanzialmente diceva: “…cosa state a chiedere queste baggianate, chiedete soldi!!”. Oppure le critiche di Pino Ferraris del Psiup, che ci accusava di tradimento perché volevamo contrattare con i padroni i Consigli dei delegati, che erano la struttura portante della nuova società. Il volantino del Pci non l’ho più rintracciato, neanche negli archivi della Federazione, e i vari responsabili sostenevano comunque che non erano stati loro a farlo.
Non so il giorno esatto, ma diciamo verso il 18-20 di giugno, la Fiat ci convoca all’Unione Industriali e comincia la trattativa. A quella trattativa in varia misura partecipa tutto il gruppo dirigente del sindacato. E anzi, durante le serate e le nottate passavano compagni di Commissione interna che non erano stati presenti, attivisti dei vari settori, già addentro al lavoro del sindacato, membri di Commissione interna e dirigenti sindacali di altri stabilimenti della Fiat o di altre leghe di Torino, di tutti i sindacati ovviamente. Passavano a informarsi, per capire, per sapere.
Soprattutto le attese e le notti erano un tormento. Non c’erano posti comodi e non eravamo ancora abituati alle tirate notturne. Molte attese sono state riempite dai racconti dei più anziani, sui reparti-confino, sulle esperienze fatte a Torino durante la guerra e l’occupazione tedesca, alcuni racconti anche da chi era stato in montagna durante la Resistenza. A volte si questionava, come quando abbiamo scoperto che il Dott. Vittonato, capo del personale Fiat, che chiamavamo “Westmoreland” perché era identico al comandante Usa delle truppe in Vietnam, si era portato una brandina da campo e ci dormiva nelle pause. Naturalmente, su questo, aveva ragione lui. Anche lui ci ha raccontato episodi curiosi e assai simpatici sulla Fiat.
Alla fine però all’accordo, anzi “Accordone” come è stato chiamato, ci siamo arrivati. Oltre alla regolamentazione del lavoro in linea e ai 56 delegati più 56 sostituti, vi erano anche forme di perequazione dei superminimi che hanno dato qualche quattrino e la 3° super. Oltre a queste cose si sono recuperati tutti i punti firmati il 23 maggio per ausiliarie, presse e sala prova.
Era il 26 giugno 1969. Ci siamo presi pochi giorni per decidere con i lavoratori e la decorrenza ufficiale è quella del 30 giugno: un mese di fuoco concluso nel migliore dei modi.
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Siamo stati abbondantemente coperti dalle segreterie nazionali, interessate comunque a una chiusura della vertenza che non pregiudicasse la ormai prossima vertenza per il contratto. Erano al nostro fianco i torinesi della Cgil e della Cisl, sommamente attratti da una svolta radicale in Fiat. Ho avuto paura per le possibili forzature della Uil, specie dopo che la Fiat ha cominciato a parlare di “acconto” sul prossimo contratto.
Però va detto che anche in questo siamo stati fortunati, sia per la prossimità della scadenza contrattuale, nella quale erano impegnati fino in fondo i metalmeccanici della Uil, sia perché un eventuale accordo separato, con il clima che si era creato nello stabilimento, avrebbe determinato conseguenze davvero drammatiche, ben al di là di quelle del ’62 a Piazza Statuto, quando scattò una protesta violenta, fomentata anche da provocatori prezzolati, contro la sede della Uil che aveva fatto un accordo separato.
A ripensarci dopo cinquant’anni vengono i brividi e si drizza il pelo sulla schiena. Francamente non so se, magari a 45-50 anni, invece dei 29 che avevo o di quelli che avevano i miei omologhi delle tre leghe o gli altri giovanissimi con i quali prendevamo le decisioni, avrei avuto il coraggio un po’ incosciente di chiedere in una piattaforma senza quattrini (poi alla fine qualcosa è arrivato) di ribaltare in un colpo solo 15 anni di modello vallettiano: perché in fondo di questo si trattava. Avevamo chiesto tutto il cucuzzaro.
Non è stata però solo la determinazione un po’ esasperata di qualche giovanotto. Alle spalle quindici anni di una ricerca appassionata e puntigliosa condotta da fior di tecnici, scienziati, intellettuali – a cominciare da Ivar Oddone, medico, professore universitario, docente di psicologia – assieme ai gruppi dirigenti del sindacato e agli operai più curiosi e disponibili. Ricerca approdata a risultati importanti con il Convegno sull’ambiente svolto alla Farmitalia, dove è stata lanciata la parola d’ordine “la salute non si vende”, e dove si è costruito uno dei passaggi fondamentali per ribaltare le impostazioni della Medicina in tema di prevenzione.
La teoria del “gruppo omogeneo” e della validità, anche scientifica, del gruppo dei lavoratori interessati per decidere la sostenibilità delle condizioni di lavoro in tema di nocività dei vari fattori di rischio era divenuto un mantra, a volte sembrava una fissazione sin troppo ripetitiva, ma non era così. Attorno a questo lavoro, a questa ricerca, a questa impostazione culturale ai confini con la politica, si era cementata una profonda unità di tutto il gruppo dirigente torinese della Cgil, che ci ha caratterizzato e in qualche modo al tempo stesso difesi, nelle discussioni e polemiche con la Fiat, con le varie forze politiche della città, con lo stesso partito comunista, sia a Torino, sia a livello nazionale; sicuramente i più anziani ricordano le discussioni non tenere con Togliatti, a proposito di scioperi e di strategie sindacali.
Anche in Francia, alla Renault, durante il maggio 1968, vi era stata una rivolta operaia della stessa intensità e della stessa durata. Rivolta che si era conclusa con gli accordi di rue de Grenelle, che avevano portato a aumenti salariali attorno al 35%, nominale. Però le condizioni dentro le fabbriche non erano per nulla cambiate, a differenza di quello che poi accadde in Italia. Vero è che attualmente non si può dire che ci siano enormi differenze, però è indubbio che ci sono stati dieci anni nei quali si è divaricata in modo significativo l’esperienza non solo nella contrattazione delle condizioni di lavoro, ma anche nella cultura e nelle esperienze politiche della sinistra. E non soltanto perché i lavoratori della Renault erano algerini.
Le pagine dell’“Accordone” dedicate alla Regolamentazione delle linee e ai delegati, le abbiamo stampate come un Libretto rosso, cioè con la copertina rossa, quasi a ricordarci la Cina di allora, anche se in realtà non sapevamo ancora che cosa ci fosse al di là degli slogan della rivoluzione culturale.
E decidemmo tutti assieme, senza un attimo di incertezza, che i rappresentanti previsti dall’accordo, cioè i delegati, sarebbero stati eletti, in ogni squadra, su scheda bianca, senza nessuna indicazione del sindacato. Ogni squadra doveva scegliere l’operaio di cui si fidava di più, con la certezza, comunque, che avrebbe potuto revocarlo in qualsiasi momento.
Anche questa, a pensarci ora, una decisione un po’ forte e incosciente. Nessuno di noi aveva calcolato a quanti stavamo pestando i piedi, in termini di fatto e di principio, soprattutto fuori della fabbrica, nel sindacato e nei partiti.
Non avevamo comunque alternative credibili. Perché non vi erano iscritti cui fare riferimento, e non solo nella Fiom. Perché una decisione diversa avrebbe suscitato una reazione diffusa anche da parte di quanti avevano creduto alla nostra impostazione. E poi tutti vuol dire davvero tutti. A questa scelta ha aderito anche il Sida, cioè il sindacato giallo, aziendale. Il volantino che indice l’elezione, nelle varie officine della meccanica e della carrozzeria, dal 7 all’11 luglio, è firmato anche dal Sida assieme a Fim, Fiom e Uilm. E nel volantino ci siamo preoccupati di sollecitare i lavoratori a scegliere consapevolmente il delegato più preparato e affidabile.
Le elezioni le abbiamo fatte cominciare dal 7 luglio 1969, perché il 3 luglio, in occasione dello sciopero generale proclamato dalle tre confederazioni torinesi sui problemi della casa e dei servizi nella città, sono scoppiati, per un atteggiamento provocatorio della polizia, disordini a Corso Traiano che sono durati due giorni.
Si fanno dunque le elezioni. Si eleggono circa 200 delegati al posto dei 120 previsti. Avremmo compensato ore e permessi. Meno del 30% era iscritto a un sindacato.
Hanno cominciato a operare, applicando il “Libretto rosso”, immediatamente. Contavano i presenti, facevano il conto delle fermate tecniche, calcolavano la produzione massima possibile, i sostituti necessari ai bisogni fisiologici di tutti. E così via. E da subito hanno funzionato. Un risultato incredibile, un successo straordinario, che ha immediatamente rafforzato la credibilità dei delegati e che ha convinto anche componenti importanti degli studenti e dei gruppi a essere protagonisti nel futuro consiglio di fabbrica, dando fiducia al sindacato che aveva avuto la forza di compiere quella scelta. Vale per i Cub, che operavano sotto la guida di Vittorio Rieser, e vale per il manifesto, che da allora cominciò a raccontare più da vicino l’esperienza dei delegati.
Dirà poi Giovanni Agnelli, a ottobre durante il Salone dell’auto e in corrispondenza con la vertenza contrattuale, che l’applicazione dell’accordo costava ogni giorno alla Fiat come l’intera produzione dell’Alfa Romeo. Ovvero ogni giorno, senza l’accordo, la Fiat obbligava i suoi operai a fare in più l’intera produzione dell’Alfa Romeo.
Proprio in questa fase abbiamo deciso di eleggere i delegati in tutto lo stabilimento della Mirafiori, non solo nelle linee di montaggio: essi non erano certo ancora riconosciuti dalla Fiat, e non avevano diritto a ore di permesso, ma erano riconosciuti dal sindacato e rappresentavano uno strumento indispensabile per mantenere un rapporto capillare con tutti gli operai.
Non potevamo certo affrontare la futura battaglia per il rinnovo del contratto soltanto con i delegati delle linee di montaggio: dovevamo avere i delegati in tutte le officine e in tutti i reparti. Proprio perché non c’erano ore a disposizione e perché non avevano riconoscimenti dalla Fiat li avremmo riuniti il sabato pomeriggio, quando la fabbrica non lavora a pieno ritmo ed è quindi possibile per ciascuno di loro venire alla riunione.
In totale, tra i due turni, il turno normale e gli impiegati siamo arrivati a più di 700 delegati eletti: era nato il “Consiglione”.
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È impressionante il ricordo di ciò che quei delegati e quell’esperienza ci ha rovesciato addosso. Intanto la furia e l’entusiasmo collettivo di un così rapido mutamento di clima. Non erano dieci persone che avevano cambiato idea. Era un complesso di 60.000 dipendenti che si liberava da una cappa oppressiva durata anni, che aveva umiliato e costretto al silenzio e all’obbedienza cieca migliaia di persone. E ora soffiava un vento di riscossa e di riscatto pieno di storie, di umanità antica e nuova, di volontà di emergere, di contare, di capire, di studiare, di esistere.
Alcuni episodi mi ritornano in mente con nettezza: Rino Alfano, delegato del montaggio cambi, di Melfi, che poi sarà assessore al Lavoro nella giunta di Novelli, che salta sul tavolo in mensa e ci racconta le avventure di Carmine Crocco, brigante del materano, abilissimo cavallerizzo, che ha dato filo da torcere ai piemontesi, “…voi, voi, che occupavate quelle terre con 500.000 uomini come gli americani nel Vietnam”.
Oppure Caruso, delle grandi presse, da Bronte, che ci ha riportato i racconti di suo nonno sulla rivolta dei braccianti e dei contadini contro i feudatari locali, ivi compreso il suono delle teste schiacciate (“ciac!”) dai massi che gli spaccavano sopra. E poi la repressione dei garibaldini guidati da Nino Bixio, perché in quelle terre si faceva il marsala per gli inglesi che avevano aiutato la spedizione dei Mille.
E ancora quelli che venivano dalla Puglia, da Napoli o dalla Sardegna (tanti). Ma anche le storie dei piemontesi, non solo di Torino, con tradizione operaia già consolidata, così come i “barotti” del cuneese e dell’alessandrino, con le loro storie di vino, di caccia, di campagna e di cucina. Un’Italia sorprendente e diversa che esce da tutto questo. Più vera e vicina alla nostra esperienza. Davvero aveva ragione il movimento degli studenti a protestare contro le incrostazioni assurde accumulate negli anni.
E tutto questo, lo ripeto ancora, in un clima ancora tutto imbevuto dalle storie e dalle motivazioni della Resistenza. Dal ’69 oggi ci dividono cinquant’anni. Dalla Resistenza, allora ci dividevano 23-24 anni. Il più giovane dei dirigenti della Fiom, cioè Giovanni Destefanis, era tra i circa 900 operai che hanno deciso di rimanere all’interno della Mirafiori quando sono arrivati i Partigiani a saldare i cancelli della fabbrica alcuni giorni prima del ritiro delle truppe tedesche. E allora aveva 17 anni. Tutti gli altri o sono stati in montagna oppure hanno fatto i gappisti o la resistenza nella fabbrica. E poi successivamente sono stati dirigenti nei Consigli di Gestione.
Ivar Oddone, di cui ho già parlato, nostro punto di riferimento nella definizione di tutta la nostra impostazione contrattuale, ha fatto la Resistenza nelle montagne di Savona. Era in classe al liceo con Italo Calvino. A lui è ispirato il personaggio del commissario Kim ne Il sentiero dei nidi di ragno, uno dei più bei libri sulla Resistenza che io abbia mai letto. E allora aveva 20 anni.
Impressionante anche la mole enorme delle informazioni e delle conoscenze che ci sono arrivate attraverso i delegati sulla fabbrica, le condizioni di lavoro, sulle situazioni di rischio, sulle sostanze nocive e così via. Una massa di informazioni che poi è stata elaborata e – quando ne siamo stati capaci – trasformata in rivendicazioni, richieste precise, azione sindacale. Sicuramente avremmo avuto bisogno di strutture di appoggio e momenti di riflessione e di elaborazione più complessi e approfonditi. Ma è riflessione da fare in altro momento.
Di una cosa sono sicuro. Erano tutte persone intere con una storia alle spalle, con idee, convinzioni, opinioni, affetti, amicizie, famiglie. Il contrario dello stereotipo sbagliato dell’“operaio massa”, titolo che mi ha sempre mandato in bestia. Di operaio massa conoscevo solo Massa Roberto, delle grandi presse.
(Fine seconda parte, la terza e ultima parte in uscita il 2 gennaio 2020)
Paolo Franco
Paolo Franco, dal 1964 in Fiom nazionale e dal 1967 alla Fiom di Torino, è stato Responsabile Fiom alla 5° Lega Mirafiori dal 1968 al 1972, segretario della Fiom di Torino dal 1972 al 1977 e membro della Segreteria nazionale Fiom dal 1980 al 1988. L’autore, assieme a Cesare Cosi, Toni Ferigo, Gianni Marchetto, Piero Pessa, ha costruito un sito sulla storia della Mirafiori, dal 1939 ad oggi, suddivisa per decenni, con tutti gli accordi (anche quelli di officina), commentati, e poi foto, video, materiali diversi, testimonianze, bibliografia vastissima e molti libri integrali e molti altri materiali. Alla realizzazione tecnica del sito ha collaborato Cristina Povoledo. Il sito www.mirafiori-accordielotte.org è attualmente gestito da Ismel, centro studi unitario con sede a Torino.
27/12/2019 sbilanciamoci.info
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