Europa, Nato, belligeranza permanente, caos climatico.
Dopo la fine della guerra fredda (momento storico davvero propizio per una concreta politica di disarmo) gli Stati uniti hanno invece rilanciato la loro struttura militare planetaria e la loro leadership nella Nato.
Questa struttura militare globale è stata immediatamente imposta come piattaforma di proiezione, standard organizzativo e standard industriale dove la capacità di “proiezione” è corrisposta ad uno stato di guerra permanente, lo standard operativo è corrisposto alla richiesta ed ottenuta professionalizzazione delle ff.aa alleate e lo “standard industriale” ha comportato lo sviluppo della tecnologia di punta, il rilancio della corsa agli armamenti e il salvataggio dei fatturati del comparto messi in crisi dalla sopraggiunta fine della guerra fredda.
Oggi circa l’80% del mercato globale di armi e sistemi d’arma è monopolizzato dalle industrie occidentali (54,4% Usa e 25,5% Europa)[1]: risulta quindi abbastanza chiaro su chi ancora poggi la responsabilità per la corsa agli armamenti e per la belligeranza permanente. Se il mercato globale dei sistemi d’arma è ancora dominato da società statunitensi ed europee, tra le prime dieci aziende del settore ben tre sono europee: Airbus group (franco-tedesca), Bae Systems (inglese) e Leonardo (italiana).
La Nato e le sue guerre (compresa quella fredda 2.0) così come la più recente Pesco sono fondamentali per far crescere i fatturati del comparto su entrambe le sponde dell’Atlantico e anche l’ipotesi remotissima di un esercito europeo sarebbe inevitabilmente legata al mantenimento e sviluppo delle capacità industriali che garantiscono proiettabilità, a loro volta legate ad un profilo belligerante e neocolonialista.
La Pesco (Permanent structured cooperation) è un programma dell’Unione europea messo in campo recentemente per promuovere e finanziare progetti in ambito militare all’interno dei paesi comunitari. Ne ho ampiamente scritto sul sito del partito. In buona sostanza si tratta di nient’altro se non di un ulteriore assist finanziario all’industria militare. Agli Usa ovviamente questa operazione non è piaciuta perché è chiaramente volta a sostenere e favorire esclusivamente l’industria made in Europe.
La Pesco è già diventata il campo di battaglia su cui i Paesi europei con spiccate capacità industriali militari si contendono i finanziamenti e dove l’asse franco-tedesco tenta di porsi come nucleo trainante/cooptante.
La Nato continua ad essere un riferimento strategico ma molto strumentale e sempre meno sentito poiché è chiaro che dietro le quinte di una comune accondiscendenza esibita pubblicamente si stanno consumando fratture strategiche di rilievo. Inevitabili se consideriamo le oggettive e frequenti divergenze d’interesse tra il neocolonialismo statunitense e quello europeo a trazione franco-tedesca.
La Germania, approfittando di un un programma Nato denominato Framework Nations Concept, ha inglobato nelle proprie forze armate una brigata meccanizzata rumena, una brigata di fanteria ceca e due brigate di fanteria olandesi ma quasi contemporaneamente ha fatto sapere che non intende ospitare i missili nucleari a medio corto raggio che gli Usa intendono dislocare in Europa in funzione anti russa dopo l’uscita unilaterale dal trattato INF.
La Germania partecipa con i suoi Tornado, come l’Italia, agli addestramenti Nato per il bombardamento nucleare ma contemporaneamente è il punto d’arrivo del Northstream, il gasdotto che porta il gas russo in Europa soddisfacendo un terzo della domanda del continente (realtà questa fortemente avversata per ovvie ragioni dagli Stati uniti).
Dall’altra parte abbiamo la Francia che per bocca di Macron ha definito la Nato un’organizzazione con encefalogramma piatto salvo poi fare riferimento alla stessa Nato per giustificare il suo pesantissimo programma di riarmo che arriverà al 2% del Pil entro il 2025.
Se noi mettiamo insieme questi segnali con il recente trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania allora comprendiamo cosa stia succedendo nel nostro quadrante. Per questi due Paesi la Nato si configura come un ingombrante impiccio ma anche, nel frattempo, come un riferimento strumentale per le opportunità organizzative e addestrative che continua a garantire.
Con Aquisgrana Francia e Germania mandano agli Stati uniti un messaggio piuttosto chiaro: stiamo nella Nato ma intendiamo sviluppare autonome capacità militari sia tecnologiche che di proiezione oltre confine e non siamo più disposti ad accettare l’unilateralismo degli interessi strategici statunitensi.
La Germania si sta quindi delicatamente defilando dalla “protezione” nucleare a stelle e strisce ed è quasi ovvio che il nuovo ombrello, dopo Aquisgrana, sarà la Force de Frappe francese magari con future integrazioni, collaborazioni e sostegni finanziari da parte tedesca.
Da parte sua la Francia, oltre alla Bomba, alla sua straripante industria “della difesa” e al potere di veto all’Onu, dispone di basi, avamposti e pezzi di “territorio nazionale” in diversi continenti ed oceani con conseguenti spiccate capacità di proiezione della forza militare.
Macron ha ereditato da Hollande il rilancio del protagonismo francese nel continente africano. Parigi intende infatti consolidare la presenza militare in Africa dalla Costa Atlantica fino all’Oceano Indiano, dal Senegal a Gibuti, passando per il Sahel e quindi ricongiungersi con altre basi e avamposti già presenti nei due oceani.
Questa visione strategica espansionista, aggressiva e molto ambiziosa richiede un concorso negli “oneri per la sicurezza” che la Germania offre già da anni.
La capacità di proiezione globale (condivisa come piattaforma con gli alleati) offre all’industria bellica francese prospettive senza fine.
Il ruolo di capofila richiede però alla Francia (e a tutti i francesi) un forte aumento della spesa militare: con la nuova Legge di Programmazione Militare Macron ha stanziato la somma di 295 miliardi di euro, ben 105 miliardi in più rispetto al quinquennio precedente e superando annualmente lo stesso budget russo.
L’8 febbraio dello scorso anno, nel presentare la LPM il ministro della difesa Parly ha giustificato questo forte aumento definendolo “…necessario per mantenere l’influenza globale della Francia ed intervenire in ogni luogo del globo in cui vengano minacciati gli interessi della Nazione e la stabilità internazionale…”.
Il piano ha l’ambizione di garantire “l’autonomia strategica” nazionale ed “europea”.
Il banchetto nuziale è decisamente ricco se aggiungiamo a tutto ciò la partita del così detto Franco africano CFA, oggi convertito in euro, ma la cui finanza generata/estorta ai paesi sub sahariani passa attraverso le banche francesi.
Rispetto all’Europa il messaggio di Aquisgrana è altrettanto chiaro: o con noi o con gli Stati uniti. Con Aquisgrana è stato formalizzato, nero su bianco, un fatto storicamente assodato: Francia e Germania sono l’Europa o comunque si sentono l’Europa. Il resto sono Paesi satellite che potranno decidere se aggregarsi alla cordata in via esclusiva o giocando su due staffe con la sponda statunitense (Paesi di Visegrad e Italia, ad esempio…).
Parlo di Paesi, di stati perché sono ancora questi la realtà materiale delle relazioni internazionali. E poco conta se dagli anni novanta si sia astrattamente creduto ad una presunta “fine degli stati” a fronte dei fenomeni di globalizzazione e finanziarizzazione. Nella grande maggioranza dei casi, gli stati stanno semplicemente dismettendo la loro funzione regolatrice per concentrarsi sulla funzione repressiva interna e di proiezione militare verso l’esterno in piena sintonia con la natura stessa del capitalismo storicamente inteso.
Lo schema neocolonialista, in sintesi, rappresenta la versione aggiornata e perfezionata del colonialismo e dell’imperialismo novecenteschi: multinazionali di bandiera e grandi banche > ricerca scientifica e tecnologica > professionalizzazione delle forze armate > controllo dei mercati, della forza lavoro e delle materie prime.
Si è di fatto passati a piè pari dalla “civilizzazione” della Belle epoque alla “democratizzazione” post ’89 e la Francia, in questo senso, è stata grande maestra.
Tutto ciò appare come un vicolo cieco, in un mondo multipolare “controllato” da superpotenze, medie potenze, piccole potenze sulla pelle della maggior parte degli esseri umani e dello stesso pianeta che ci ospita.
Eppure le variabili in gioco sono molteplici a cominciare dalla stessa composizione del capitalismo che non è un monolite ma è attraversato spesso da interessi divergenti anche all’interno dei singoli “sistemi-Paese”. Ci sono frazioni di capitale, generalmente grande capitale, interessate alla belligeranza permanente e all’estrattivismo predatorio mentre ci sono frazioni di capitale, evidentemente meno rappresentate politicamente, ma oggettivamente interessate alla stabilità delle relazioni internazionali e alla conversione energetica.
Se si parla di “Europa” ma soprattutto di un’altra Europa risulta allora necessario entrare nel merito di queste relazioni materiali, facendo i conti con le interdipendenze globali per cominciare ad occuparsi seriamente di politica estera e militare.
Riferirsi genericamente ad un esercito europeo nel contesto che ho appena tracciato, come presunto contrappeso alla tracotanza statunitense non ha alcun senso. Il dibattito sul “che fare” in questo campo dovrebbe ripartire da Aquisgrana, dalle nuove vecchie faglie di scontro globale e dalla chiara intenzione dei governi francese e tedesco di fare, in questo contesto, da capofila di un rinnovato assetto belligerante e neocolonialista continentale.
Uscire dalla NATO e dalla melma del neocolonialismo di marca “europea” è una prospettiva incredibilmente tortuosa ma che dovrebbe essere posta come base comune per qualsiasi futuro condiviso e condivisibile di una qualsiasi “altra” Europa.
E qui veniamo al nostro Paese.
Noi siamo tornati ad essere un paese belligerante dal 1991 ossia da 29 anni. Siamo il quinto avamposto militare degli Stati uniti nel mondo, abbiamo partecipato a tutte le aggressioni ed occupazioni Nato e siamo noni, per fatturato, nella top ten mondiale dell’industria militare.
Abbiamo perciò già accumulato enormi responsabilità di guerra dirette ed indirette.
Il Concetto strategico dell’Alleanza atlantica emerso dal vertice di Roma del 1991, ha ridefinito le nuove funzioni delle forze armate e dell’intera politica di difesa. Per la prima volta nella storia repubblicana, la capacità di proiezione della forza ha assunto una centralità assoluta. Le forze armate ed il comparto industriale di riferimento sono ufficialmente divenuti uno strumento che il governo utilizza in politica estera. La stessa politica estera è diventata un trasversale ostaggio/fantonccio di Washington e, se avanza un po’ di spazio, di poche multinazionali di bandiera.
La chiave di volta tecnica e giuridica di questo nuovo profilo apertamente bellicista è stata la professionalizzazione delle forze armate.
Solo con un esercito professionale su base volontaria si poteva “proiettare forza” oltre confine (con gli standard Nato/statunitensi), in ogni angolo del pianeta, senza dichiarare ufficialmente guerra.
Solo con un esercito da trasformare in un moderno corpo di spedizione hi-tech si potevano salvare e rilanciare i fatturati dell’industria di riferimento in crisi nera dopo l’89.
Industria che oggi è considerata strategica non tanto per il suo contributo al Pil (che vale lo zero virgola…) ma perché la politica estera si fa anche col traffico d’armi oltreché con la “proiezione di forza”. Il trasferimento di tecnologia militare, in special modo quella più avanzata, è spesso il veicolo di accordi legati alle forniture energetiche come gas o petrolio o anche ad altri business delle multinazionali di bandiera.
Questo è in estrema sintesi il circuito chiuso della nostra belligeranza: Nato e basi straniere, forze armate professionali, industria militare.
Per farla breve: gli interessi dell’industria militare e la servile aderenza alla Nato spingono il Paese a partecipare attivamente alla corsa agli armamenti e a mantenere un corpo di spedizione perennemente all’estero, costosissimo consumatore di alta tecnologia, che possa fare da vetrina dimostrativa ambulante delle capacità militari e tecnologiche tricolori.
E’ appena il caso di tenere a mente il fatto che per seguire il delirio della guerra fredda 2.0 il nostro paese ha perso miliardi di commesse nei settori manifatturiero e agroalimentare verso la Russia. Per non parlare dell’Iran.
Lasciando da parte la questione etica, per noi preponderante, è pur vero che come paese spendiamo oggi una cifra che raggiunge i 70-80 milioni di euro al giorno per la guerra e la destabilizzazione internazionale col brillante risultato di deprimere la nostra stessa economia. Altro che difesa in armi degli interessi nazionali. E’ questo un punto debole, una contraddizione tra le tante, nella millanteria della narrazione ufficiale che noi comunisti dovremmo avere l’intelligenza di agire.
Il problema è che questo tema è attualmente blindato. Nessuna forza politica si occupa di entrare nel merito con competenza e con un approccio organico propositivo che non si riduca ad una generica richiesta di risparmio sulla spesa militare.
Sul versante sindacale Fiom Fim Uilm hanno sul tema una posizione allucinante, che definirei senza mezzi termini corporativa.
Sii sono tutti spellati le mani in applausi perché finalmente il governo di turno ha preso una decisione che loro stessi (e gli industriali) richiedevano da anni ossia l’assunzione dell’approccio “government to government” cioè la trasformazione del ministero della Difesa in autorità esclusiva preposta a stipulare direttamente contratti per la fornitura di tecnologia militare con paesi terzi per conto dell’industria. Il modello di riferimento, in questo senso è proprio la Francia dove Macron ha recentemente integrato con 750 impiegati e quadri la divisione vendite della Direction Générale de l’Armement.
La Fiom in particolare richiede da anni, oltre all’ottenuto maggiore protagonismo dei governi nel sostegno del “prodotto” (così lo definiscono) una ricapitalizzazione di Leonardo con la cassa depositi e prestiti dopo che il management da Moretti a Profumo ha venduto tutti gli asset civili strategici come Ansaldo energia e Ansaldo trasporti per puntare tutto sull’hitech militare.
Rifondazione deve assumere un approccio e un lavoro politico organico su questo tema. Fare un passo oltre la contestazione per entrare nel merito e avanzare proposte concrete che non si limitino ad una generica richiesta di riduzione della spesa militare ma possano stimolare il dibattito verso una riforma strutturale del comparto che accompagni coerentemente la sacrosanta battaglia per uscire dalla Nato.
In questo senso, e chiudo, ho preparato una sorta di documento istruttorio che ho chiamato “Una nuova politica di Difesa” dove si recupera il ponderato voto contrario di Rifondazione alla contro-riforma in senso professionale delle forze armate.
Alla luce di questi 28 anni di guerre “professionali” ed “umanitarie” ma soprattutto di fronte a quello che dovrebbe essere considerato il vero nemico di un paese fragile come il nostro ossia il caos climatico montante, il documento propone un ragionamento organico ed allargato sul così detto “comparto Difesa”. Una proposta di linea articolata che al momento nessuna forza politica ha ancora messo in campo. Una proposta che potrebbe avere anche il vantaggio di attrarre su di essa un consenso che supera di molto il sempre più ristretto e autoreferenziale bacino del “pacifismo”.
Approfondimenti.
Pesco:
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=32107
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=32183
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=32374
Leonardo/Finmeccanica:
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=33421
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=40766
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=40140
Europa/Aquisgrana:
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=38813
Usa/nucleare:
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=32682
Caos climatico/Difesa:
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=36290
[1] Dati del 2014 raccolti dal Sipri: http://www.sipri.org/research/armaments/production/recent-trends-in-arms-industry
Gregorio Piccin
Responsabile pace PRC-S.E.
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