Migranti, usciamo dalla confusione comunicativa

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Cerchiamo di fare chiarezza nella confusione che ci circonda, confusione in parte comprensibile vista la complessità della materia, e in parte indotta da un uso superficiale e strumentale delle parole nel vortice comunicativo contemporaneo.

Come chiamare le persone che si spostano da un posto all’altro? Ecco una rassegna delle parole più utilizzate e del loro significato.

Migrante

Tecnicamente indica una figura in transito, che sta ancora compiendo la sua migrazione. In molti casi però è difficile stabilire quando una persona sia giunta alla fine del proprio percorso migratorio. Molte persone che arrivano in Italia, ad esempio, sono dirette più a nord. Tecnicamente dunque sono migranti. Ma se per motivi vari si trovano a soggiornare in Italia mesi o anni? Rimangono sempre migranti? Non ci sono soglie stabilite, anche perché si tratta di condizioni soggettive.

Contestualmente è anche una categoria generica, che è diventata il modo di chiamare tutti coloro che si spostano da un posto all’altro, nel momento in cui non c’è occasione, tempo o volontà di introdurre delle distinzioni.

Si è detto ad esempio che il 2015 è stato l’anno dei migranti. Non è che tutti fossero perennemente in transito. Alcuni erano in realtà immigrati, altri rifugiati, altri richiedenti asilo, altri ancora sfollati o più genericamente profughi, ma non è che si possa ogni volta scrivere che “il 2015 è stato l’anno dei migranti, degli immigrati, dei rifugiati, dei richiedenti asilo, degli sfollati e dei profughi”.

Immigrato

Tecnicamente è un migrante che raggiunge il paese di destinazione e lì si stabilisce. Il criterio della residenza appare un buon modo per definire la categoria degli immigrati, anche se certo da una prospettiva analitica e non necessariamente biografica.

È bene precisare che seguendo questo criterio la categoria degli immigrati include anche quella dei rifugiati (dato che i rifugiati sono quasi per definizione persone che si stabilizzano nella società di arrivo). Se ci interessa tenerle distinte dobbiamo ricorrere alla dizione “migranti economici”, che spiegheremo dopo.

Ecco, secondo questo criterio, quanti sono gli immigrati in Italia e in Europa

Emigrato

Beh, è l’immigrato dalla prospettiva della società di partenza. In realtà è anche il migrante dalla prospettiva della società di partenza, visto che dal momento in cui una persona lascia la propria casa può essere definita come emigrato, e poco importa se si sia effettivamente stabilito o sia in transito.

In situazioni particolari però è difficile definire le persone come emigrate nonostante in senso letterale lo siano, pensiamo ad esempio ai milioni di siriani accampati in Libano, che è più consono chiamare profughi (sempre in attesa che Saskia Sassen ci dia una parola migliore).

Migrante economico

Questa categoria indica tutte quelle persone, migranti e immigrati, che si spostano per motivi economici. È stata molto utilizzata negli ultimi anni da vari paesi europei per giustificare politiche migratorie selettive, aperte verso potenziali rifugiati e chiuse verso, appunto, i migranti economici.

In realtà la distinzione tra rifugiato/richiedente asilo e migrante economico è molto più sottile di quanto si possa pensare, e dipende da criteri che spesso poco hanno a che fare con la mera applicazione della Convenzione di Ginevra (vedi alla voce rifugiato).

Qui un approfondimento sulla problematica distinzione tra rifugiati e migranti economici

Migrante irregolare

Colui che, per qualsiasi ragione, entra in un paese senza regolari documenti di viaggio. È una categoria che ne comprende molte altre, come i profughi (potenziali richiedenti asilo e rifugiati) che nella maggior parte dei casi giungono appunto in modo irregolare nei paesi di destinazione, non potendo ottenere dai propri paesi i documenti per viaggiare.

Coloro che si trattengono sul territorio di un paese straniero senza regolarizzare la propria posizione (ad esempio tramite richiesta di asilo oppure ottenimento di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro) rimangono migranti irregolari, chiamati anche clandestini, per lo più con connotazione dispregiativa.

Extracomunitario

È un termine che nasce e ha senso solo nei confini dell’Unione Europea, indicando qualsiasi persona che non sia cittadina di uno dei ventotto paesi membri. È un termine di per sé neutro, che però ha finito per assumere, almeno nel dibattito italiano, una connotazione negativa.

Rifugiato

Il rifugiato è una precisa categoria giuridica, e si riferisce a una persona a cui è stato riconosciuto, appunto, lo status di rifugiato. Si è cioè accertato, tramite un’apposita procedura, che la persona è stata costretta a lasciare il proprio paese a causa di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, e che per questo non può tornare nel proprio paese. Questa definizione deriva dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, a cui fanno riferimento le diverse disposizioni nazionali che hanno riconosciuto la convenzione.

È quindi tecnicamente scorretto definire rifugiati tutte le persone in fuga da paesi in guerra, come ad esempio i siriani dal 2011 in avanti.

Ecco quanti sono i rifugiati in Italia e in Europa

Richiedente asilo

Il richiedente asilo è colui che ha presentato domanda per ottenere l’asilo politico, e dunque lo status di rifugiato, in un paese estero. Si tratta, anche qui, di una categoria definita giuridicamente e temporalmente. Infatti il richiedente asilo diventa altro (rifugiato, o migrante economico, o migrante irregolare) nel momento in cui ottiene una risposta definitiva alla sua domanda di asilo.

Profugo

Si tratta di un termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre, persecuzioni o catastrofi naturali. È dunque la parola più adatta per definire esodi di massa come quello siriano, anche se implica una condizione di passività che spesso non coglie la dimensione attiva e strategica che molte persone che migrano mettono in realtà in campo.

Sfollato

In italiano indica genericamente una persona costretta ad abbandonare la propria abitazione per gravi motivi esterni, come ad esempio una catastrofe naturale o una guerra. Nel linguaggio delle migrazioni però viene utilizzato come traduzione dall’inglese internally displaced person, che sta ad indicare una persona che è costretta a lasciare la propria casa, ma rimane all’interno del proprio paese.

Quindi? Che parole è meglio usare?

È evidente che scegliere una parola piuttosto che un’altra è un’azione politica. Se è ormai assodato che parole come clandestino ed extracomunitario hanno assunto un carattere dispregiativo, la situazione è ambigua per la maggior parte dei termini. Negli ultimi anni, ad esempio, abbiamo assistito a un processo di significazione negativa del termine migrante economico, che designa ormai una categoria indesiderata.

Nel 2015 si è aperto un dibattito importante sui termini migrant e refugee, lanciato da un ormai famoso editoriale di Al Jazeera. Il network qatariota ha contestato la scelta, divenuta mainstream, di utilizzare il termine migrants per definire le persone in fuga da guerre e miseria, sottolineando come questa parola fosse ormai diventata uno strumento narrativo di cui i governi europei si stavano servendo per giustificare le loro linee di azione. Al Jazeera ha cominciato ad utilizzare il termine refugees, più adatto a rappresentare il carattere forzato dei flussi migratori contemporanei.

Non è un caso che le parole siano in inglese. La lingua inglese infatti non offre una via d’uscita, aprendo un vasto campo di ambiguità sulla parola refugee, che indicherebbe allo stesso tempo chi ottiene giuridicamente lo status di rifugiato e chi, più genericamente, si mette in viaggio perché costretto.

La lingua italiana offre una via d’uscita intermedia, che è la parola profugo, utilizzata appunto per definire chi lascia il proprio paese per cause di forza maggiore, distinta dal termine rifugiato, che definisce invece chi ottiene l’asilo politico.

Credo, in definitiva, che sarebbe opportuno usare la parola rifugiato in senso strettamente giuridico, e la parola immigrato per definire chi risiede stabilmente in un paese. La scelta tra profugo e migrante è assai più complessa, e nessuna delle due in effetti mi soddisfa completamente.

Chiamare migrante una persona equivale a sospenderla in una condizione di transito che sottrae dalla responsabilità di dare aiuti e diritti (tanto, è di passaggio). Alla parola profugo invece associo immagini di persone disperate e in estremo bisogno, capaci tuttalpiù di suscitare compassione.

Ma a me la compassione non piace. Mi piace la dignità, il pieno riconoscimento della persona, con tutti i suoi bisogni ma anche tutte le sue risorse.

Ed è vero, cara Saskia, che per questa roba qua non esiste ancora una parola, che non sia persona.

Fabio Colombo

3/3/2020 www.lenius.it

Immagine | Freedom House

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