NoTav: Dopo le condanne, la lotta continua. Reportage dalla Valsusa.

Processo No Tav, Prc: «Sentenza politica». Ferrero: «Condannate anche me»

A vederli in assemblea, così numerosi e partecipi, quasi non si direbbe che il giorno prima la procura di Torino abbia scritto la pagina più nera dell’intera storia giudiziaria del movimento NoTav. 47 condannati a pene complessive di 140 anni di carcere e circa 150.000 euro di somme dovute in provvisionali, risarcimenti e spese legali a favore delle parti civili: ai ministeri, alla società italo francese LTF, ai poliziotti feriti; ai sindacati di polizia che ora grazie a questo pesante precedente potranno, con un colpo di spugna, cancellare anni di infamie e veleni riversati sui morti di malapolizia e sulle loro famiglie. Per non parlare dei centinaia, migliaia di candelotti lacrimogeni con cui hanno gasato non solo i manifestanti no tav ma praticamente tutta la popolazione della Valle di Susa durante le manifestazioni diventate oggetto di indagine.

Pochi spiccioli del resto, poco più di seimila euro, una cifra simbolica dovuta probabilmente per danni di immagine o morali, si capirà leggendo le motivazioni. Un gruzzoletto niente male che i segretari e i portavoce sindacali potranno d’ora in poi sventolare come avvertimento in faccia a tutti gli antagonisti che vorranno riscaldare le piazze, ai querelati o a coloro che aspirano a diventarlo a mezzo stampa o semplicemente esprimendo una opinione contraria al una certa congenita rozzezza fascista.

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Uno dei segreti del movimento NoTav è proprio in quella sala cinematografica di Bussoleno, ieri gremita di valsusini di ogni età e provenienza. Ieri si celebrava la prima assemblea dopo la maxisentenza, dopo poco meno di ventiquattro ore di incredulità e rabbia, durante le quali nei bar, nelle osterie umide e fumose e nei comitati non si è parlato d’altro. Robuste dosi di barbera e cucina piemontese d’altura per riscaldarsi e riflettere febbrilmente sul significato del dispositivo letto dal giudice, analizzare a fondo ogni singola condanna, capire cosa sia successo, smaltire l’indignazione: la Valle è fatta così, si cura velocemente le ferite, anche le più profonde. E lo fa attraverso ogni possibile forma di condivisione e confronto, in una perfetta armonia tra individualismi, che non mancano, e collettività.

Gli avvocati, gli attivisti più caldi e quelli più moderati, i cittadini e gli amministratori si siedono insieme a studiare le contromisure, le mosse successive di quella che ormai è sempre più una guerra tra due parti della società in irriducibile conflitto ideologico e materiale.  La sentenza in tal senso è stata chiara, nella sua spietatezza; è un filo spinato tra due modi diversi di stare al mondo: giustizialismo da codice Rocco da una parte, in difesa di loschi interessi lobbistici; armonia e rispetto per l’ambiente, difesa dei beni comuni e della cosa pubblica, sentire collettivo, dall’altra.

La sentenza ha chiarito nero su bianco su quali posizioni si attestino i poteri in gioco nei lavori della Torino Lione. Posizioni sottoscritte dalle aule giudiziarie, senza alcun dubbio. Posizioni di poteri che vivono in simbiosi (o parassitismo) tra loro, orientati verso lo stesso obiettivo: schiacciare come mosche i NoTav, pescando nel mucchio, relativizzando e svuotando di senso i pilastri di qualsiasi processo, bazzecole come le “prove” o gli “indizi” o le “testimonianze attendibili”, glorificando a oltranza il Sacro Verbo delle forze dell’ordine, a partire dall’intuizione che la partita principale si gioca sul campo dell’ordine pubblico, distorcendo leggi e costituzione in nome della malapolizia più becera. Succede in Valle, succede e succederà ovunque, in un continuo crescendo.

I tanti giornalisti, scrittori e registi che arrivano da fuori a osservare questi “alieni” che fanno cose impensabili altrove come lottare uniti e senza cedimenti né scissioni interne, prendere decisioni collettive in assemblee che finiscono alle due di notte con nessuno dei partecipanti che pensi di alzarsi e andarsene, condividono sempre la stessa sensazione: in Val di Susa si scrive il futuro. Il futuro della partecipazione attiva alle questioni pubbliche, il futuro del conflitto sociale, le future strade del dissenso e della lotta senza mediazioni né deleghe, il futuro della resistenza all’oppressione politica, economica e istituzionale, quest’ultima perfetta triangolazione alla base dei miliardari interessi nati intorno all’Alta Velocità.

È incredibile come nel volgere di una manciata di ore il disorientamento e il senso di sconfitta iniziali, cose naturali quando un giudice per un’ora elenca solo condanne a carico dei tuoi amici, dei tuoi congiunti, dei tuoi figli, dei tuoi compagni, il sentimento muti in qualcosa che oscilla tra il disprezzo verso una sentenza chiaramente vendicativa e il vero e proprio ridimensionamento dell’accaduto. Non è una cosa da poco, è un processo psicologico condiviso collettivamente, funziona da antidoto alla disgregazione, ed è un altro ingrediente segreto di questo straordinario movimento di resistenza. I momenti di crisi così come i grandi momenti di esaltazione sono un dato psicologico di massa, per il movimento NoTav: “si parte e si torna insieme” è uno dei motti del movimento, si vince e si perde insieme, si condividono condanne e assoluzioni, si dividono spese legali e multe, si comprano collettivamente terreni per rendere quasi impossibili gli espropri. Insieme, giovani e anziani, padri e figli, si risponde alle cariche della polizia. Insieme, e solo insieme si può rendere impossibile la vita a chi progetta di chiudere il cerchio della devastazione di una valle già irreversibilmente sfregiata, caricando costi incalcolabili non solo sulla comunità locale ma sull’intera nazione.

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Solo un percorso di lotta inteso in tal senso può arginare l’avanzata della criminalità e degli interessi più o meno illeciti che periodicamente si affacciano intorno al cantiere, nonostante la stessa procura di Torino si sia affannata a precisare che “il rischio ‘ndrangheta nei cantieri dalla Torino Lione è assai lontano”, che suona più o meno come la famosa boutade di Maroni, il quale sostenne in tv da Fazio che “la mafia al nord non esiste”. L’operazione San Michele in Val di Susa, lo abbiamo visto in autunno, racconta tutta un’altra storia.

Sbaglia chi pensa che si tratti di una lotta territoriale, mirata a tutelare due vigne, due pascoli e una malga da trasformare in agriturismo. Sbaglia chi pensa che l’intera vicenda abbia a che fare solo con un treno e degli scavi nelle montagne. La posta in gioco è molto più alta. Questa lotta ha a che fare con la difesa di beni collettivi, messi a repentaglio da interessi privati, da politici e imprenditori che fanno gruppo sulla base di antiche amicizie e alleanze, comprovate e conosciute. Un filo rosso di interessi rapaci che parte dal PD piemontese e arriva fino alle cooperative rosse, e che non disdegna di concedere briciole a qualche imprenditore locale purché sbrighi il lavoro sporco. Con un formidabile ombrello a coprire il tutto: gli accordi tra i Ministeri dei Trasporti di Italia e Francia, periodicamente rinnovati e comunque sempre utili ad attingere alle casse statali ed europee, gonfiando preventivi e propagandando un futuro di sviluppo e prosperità per l’Europa intera. Un futuro che esiste solo nelle teste di chi questa linea la progetta e la difende dall’alto di inattaccabili posizioni istituzionali.

Contro questo e molto altro i NoTav lottano da 25 anni, pagando prezzi salatissimi sul piano prima di tutto personale. L’aspetto più complesso di quanto accade in Valsusa è proprio questo: riguarda quei momenti nei quali la lotta in difesa dei beni collettivi trasfigura in lotta per la difesa dei diritti personali. I due aspetti si confondono continuamente, ogni volta in cui il potere giudiziario esercita la propria forza oppressiva. Deve destare allarme che l’unica vera enclave italiana in lotta subisca colpi così duri nell’indifferenza e nel disprezzo, se non nella aperta ostilità del resto di Italia, dell’opinione pubblica e persino di talune aree “antagoniste”. Colpi durissimi che restringono progressivamente la liberta’ di pensiero, di opinione e il diritto al dissenso.  Perché l’equazione è ovvia, lo è per i valsusini come per chiunque altro: se eccedi i confini della protesta “legittima” e “democratica” vai a processo e ti fai male. La differenza è che in Valsusa lo stato d’eccezione fa meno paura che altrove, ma va chiaramente dilagando a pieno regime ovunque si configuri un contesto di lotta. L’allarme dell’autoritarismo suona con insistenza da troppo tempo, ma pochi sembrano accorgersene.

Si è detto della capacità dei NoTav di dare alle cose la giusta importanza, di ridimensionarle. Così dopo aver smaltito lo shock per la maxisentenza di condanna si passa alle risate tra compagni, stilando magari la classifica di chi ha preso più anni e di chi deve pagare più soldi. È l’occasione per ricollocare i pm Rinaudo e Padalino, veri artefici del capolavoro inquisitorio, al giusto posto nell’immaginario collettivo: non più due pm con l’elmetto, ma due pm qualunque, e nemmeno dei più blasonati della procura di Torino a quanto risulta, che hanno speso tempo e risorse “intellettive” a combattere un nemico invincibile, che si fa beffe di una condanna sì pesante, ma dai significati tutto sommato banali, prevedibili. C’era da aspettarsela una bordata di stato, pensata per punire due giornate di lotta fondamentali per la vita del movimento, i giorni della Maddalena. C’era da aspettarsela questa mazzata, riflette l’assemblea, ma l’obbligo è non piangersi addosso, guardare oltre: al prossimo corteo per esempio, previsto per il 21. I NoTav votano per dove farla: Torino o Val di Susa. Vince Torino, si sfilerà sotto i palazzi del potere Fassiniano e Chiampariniano, si sfioreranno i corridoi di quel PD torbido e tricefalo che in Piemonte lavora a pieno regime.

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I NoTav convivono da sempre con questa soffocante oppressione. Sono ormai passate due generazioni, e ci sono giovani minorenni che hanno respirato lotta sin dalla nascita. I NoTav la tollerano e la metabolizzano, la trasformano in rabbia e poi nuovamente in lotta. Chi invece osservi da fuori o partecipi da dentro ai vari livelli del conflitto sociale, chi abbia a cuore le sorti delle lotte in corso non solo in Valsusa ma su tutto il territorio nazionale, dovrebbe temere una restrizione dei diritti di tale portata, più sfacciata in Valle che altrove. Dovrebbe temere per esempio il fatto che Erri de Luca, piaccia o meno ciò che pensa o scrive, si ritrovi a processo per aver espresso un concetto sacrosanto, come il diritto al sabotaggio quale metodo di lotta. Dovrebbe temere le abissali differenze di trattamento sanzionatorio tra chi brucia un compressore e chi uccide, calpestandolo e manganellandolo, un ragazzino ferrarese di 18 anni: terrorismo per i primi con un anno di carcere preventivo, eccesso colposo in omicidio colposo per i secondi, poliziotti ancora in servizio. Dovrebbe temere la militarizzazione permanente del territorio, messa in piedi per proteggere un cantiere dalle legittime proteste di chi non lo vuole. Dovrebbe temere il trattamento riservato ai tecnici indipendenti messi da parte perché da anni dicono che il progetto Torino Lione (è successo anche per le altre linee AV) è sballato, mentre i tecnici compiacenti assumono incarichi statali, come la direzione di un Osservatorio. Dovrebbe temere la disinvoltura con cui la procura di Torino ignori sistematicamente l’uso della violenza poliziesca ogni volta che se ne presenti l’occasione.

Ogni diritto negato o acquisito in quella piccola striscia di terra al confine con la Francia, che pochi avvoltoi vorrebbero trasformare in megacorridoio europeo, anticipa i diritti che verranno negati o acquisiti ovunque. Se è vero che la Valle è stato ed è un laboratorio sociale e politico, ciò vale anche per giudici, poliziotti, magistrati, questori e sgherri di stato assortiti. Soprattutto quelli particolarmente creativi, se non spregiudicati.

(Foto di Adriano Chiarelli)

Adriano Chiarelli

30/1/2015 da Contropiano

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