Con-tatto. Pandemia e salute mentale

E’ passato più di un mese da quando a causa della diffusione del virus Covid-19 siamo rinchiusi. La soluzione individuata per diluire il contagio, ripartire le infezioni in un arco temporale più lungo per evitare picchi di infetti e mortalità, è stata quella di metterci in quarantena per il nostro bene e per quello altrui. Ci è stato chiesto di chiuderci in casa, di evitare spostamenti inutili e di fermarci, salvo per andare a lavorare, in farmacia e al supermercato, in caso contrario si rischiano sanzioni e provvedimenti penali: compito di controllare il rispetto dei provvedimenti governativi è delle forze dell’ordine. Avvenuto all’improvviso, questo confinamento sta alimentando da un lato una sensazione di paura – del virus, di uscire, dell’altro potenzialmente portatore di morte, di un nemico invisibile – dall’altro una sorta di adattamento, di abitudine e rassegnazione.

Arrivati a questo punto ci si chiede «quanto durerà ancora?», «fino a quando dovremmo evitare il contatto?», «per quanto ancora si dovrà rimanere isolati e lasciarci consolare da saluti, abbracci e baci virtuali?», «per quanto ancora potremmo riuscire a non incontrarci, riunirci, cooperare e parlare vis a vis?» e «se non ci ammaleremo, come usciremo da questa vicenda?». La risposta temporale continua a non essere del tutto sicura. 

In questa incredibile esperienza che stiamo vivendo, accompagnata già da oltre 20.000 morti, si può fare una suddivisione tra chi vive una reclusione volontaria, ossia che sceglie con convinzione di obbedire alle disposizioni dettate dai vari decreti governativi, e i «pazzi, rei e dannati» storicamente reclusi dal sistema. Da un lato quindi, la società dei giusti e responsabili e dall’altra chi non ha scelta, chi per motivi di follia o di reati si trovava già ai margini.

Il Servizio sanitario è al collasso e probabilmente la situazione peggiorerà ulteriormente quando graveranno su di esso la salute dei suoi operatori, gli operai che non hanno mai smesso di lavorare, i soggetti appartenenti alle fasce più fragili e ciò che questo evento pandemico lascerà in ognuno di noi. Iniziamo a sentirci tutti e tutte in trappola dentro la così detta categoria debole. Ciò che stiamo vivendo segnerà profondamente le nostre coscienze e le nostre vite sul pianeta, ma in particolare le invisibili tracce dell’isolamento e l’assenza di contatto fisico avranno un impatto imponderabile. 

L’isolamento tende e tenderà ad acutizzare la depressione nei soggetti affetti e a indurla in quelli vulnerabili, a favorire ansia e stress. Gli effetti dell’isolamento e la coabitazione forzata fanno pensare alle sindromi che caratterizzano i detenuti come i sintomi da stress post-traumatico e difficoltà relazionali. Luciana Silvestris parlando di detenuti scrive: 

«il disagio psichico è legato anche alle conseguenze della privazione della libertà […] e quindi la necessaria ristrutturazione della rappresentazione di sé stesso e degli altri compiuta dall’istituzione totale. Tutto ciò invita prioritariamente a lavorare sui propri processi di identificazione o di proiezione […] e riformulare il concetto di normalità» (in Umberta Telfener, Apprendere i contesti, Raffaello Cortina editore, 2011). 

Julianne Holt-Lunstad, ricercatrice presso la Brigham Young University in un’analisi del 2015, afferma che un isolamento sociale cronico potrebbe aumentare il rischio di mortalità del 29% in determinati soggetti. Non possiamo sottovalutare che come scrive Chris Segrin (2020) 

«ci sono diversi tipi di risposte individuali all’isolamento sociale e allo stress, ed è importante ricordare che non tutti affrontano questa situazione con lo stesso livello di salute mentale. Le persone che già soffrono di problemi come ansia sociale, depressione, solitudine, abuso di sostanze o patologie croniche sono ovviamente molto più vulnerabili». 

Il contatto fisico mette in gioco delle energie e delle risposte biologiche che portano notevoli benefici per la salute, sia emotivo-relazionali che organici. Alcuni giorni senza contatto fisico possono avere un’influenza negativa sul nostro stato di benessere, molto più di quello che possiamo immaginare. A livello organico il con-tatto (toccare qualcun altro) ha effetti straordinari. Da un lato aumenta la produzione di serotonina e di ossitocina, che sono ormoni strettamente collegati alla salute psichica capaci di ridurre ansia e promuovere un senso generale di benessere, dall’altro riduce la produzione del cortisolo anche detto «ormone dello stress» e questo ha un forte impatto sulla pressione sanguigna e la frequenza cardiaca. 

Paul Zak, neuro-economista, afferma che «il semplice atto di abbracciare è un modo efficace non solo per creare un legame con gli altri, ma anche per rafforzare il nostro stato fisico ed emotivo e la nostra salute, in generale l’aumento del livello di ossitocina può avere effetti benefici sulla salute del cuore e di altri organi», Zack scrive di come «l’ossitocina sia responsabile della fiducia, dell’empatia e di altri sentimenti che aiutano a costruire una società stabile». Si è a conoscenza, inoltre, che la pelle contiene una rete di piccoli centri di pressione ovoidali, detti «corpuscoli di Pacini», in grado di rilevare il tatto e in collegamento con il cervello attraverso il nervo vago. Il nervo vago si snoda attraverso il corpo ed è collegato a sua volta a diversi organi, compreso il cuore che è connesso ai recettori dell’ossitocina. Un adeguato, anche minimo contatto fisico giornaliero, sia che si tratti di un abbraccio che di una stretta di mano o una pacca sulla spalla, induce reazioni biochimiche e fisiologiche nel corpo, in grado di migliorare notevolmente la salute. Evidenze scientifiche stabiliscono un minor rischio di malattie cardiache, una riduzione dello stress, una diminuzione della stanchezza, un rafforzamento del sistema immunitario, una diminuzione delle infezioni e un minor rischio di depressione. Ovviamente attraverso il contatto fisico, l’umore, l’autostima e le relazioni sono migliori. 

Come già sosteneva Pierre Parlebas, «per ogni situazione motoria proposta, corrisponde una risposta emotiva singolare e indissociabile per ogni individuo interessato dalla stessa». E ancora Nicholas Christakis, sociologo presso l’Università di Yale, in un’intervista afferma:

«la pandemia da Coronavirus che si sta diffondendo su scala globale ci obbliga a sopprimere i nostri impulsi evolutivi legati alla connessione con i nostri simili, dal vedere gli amici al toccarci a vicenda […]. Le pandemie sono particolarmente impegnative per il genere umano, perché pregiudicano la nostra capacità di cooperazione e la nostra tendenza a socializzare». 

Nelle neuroscienze con embodied cognition viene descritto il ruolo attivo del corpo nel guidare i processi cognitivi delle persone, facendo una distinzione tra i processi che si attivano in presenza di uno stimolo e quelli, invece, che si creano anche in assenza di stimoli. L’approccio dell’embodied cognition supporta l’idea che la mente deve essere analizzata nel contesto delle sue relazioni con un corpo fisico, se ciò venisse meno in un lasso di tempo prolungato che cosa accadrebbe?

Posti ai margini

Posti nel senso di luoghi che occupano un determinato spazio e posti nel senso di postare, di disporre ai margini. Qual è questo margine? Il margine (anche qui vi è una duplicità) della società, della comunità ma anche della città nido della vita sociale e delle relazioni. Certamente stare chiusi nella propria abitazione non è come stare in una cella o in una comunità, ma questa esperienza di confinamento per chi non si è mai preoccupato di restrizioni è un buon banco di prova.

In quest’ottica a rischio è la nostra salute mentale. Viene quindi da chiedersi come stanno affrontando questo momento le istituzioni che solitamente lavorano con le persone a rischio e/o con qualche tipo di disagio, dove isolamento e contatto fisico sono concetti di quotidiana amministrazione, come carcere e servizi di salute mentale.

Storicamente, questo campo ha visto succedersi diverse lotte, per quanto riguarda la contenzione delle persone affette da patologie o con comportamenti non consoni alla maggioranza della società dei «normali», con la costruzione dei manicomi pensati e strutturati in modo simile alle carceri e poi trasformati nel tempo, frammentati in strutture residenziali psichiatriche extraospedaliere. Franco Basaglia diceva

«noi vogliamo essere psichiatri, ma vogliamo essere soprattutto delle persone impegnate, dei militanti. O meglio vogliamo cambiare il mondo attraverso il nostro specifico, attraverso la miseria dei nostri pazienti che sono parte della miseria del mondo. Quando noi diciamo no al manicomio diciamo no alla miseria del mondo».

Basaglia insegna che la povertà c’entra con la psichiatria perché dove c’è povertà c’è sofferenza psichica.

Ctr (Comunità Terapeutica Riabilitativa)

A proposito di distanziamento sociale, isolamento, regole e assenza di contatto fisico, sono interessanti alcune testimonianze di operatori/educatori di cooperative sociali che lavorano in alcune Ctr (1 e 2) dell’area territoriale in cui vivo. Attraverso brevi comunicazioni whatsapp hanno raccontato la loro esperienza di lavoro in questo periodo pandemico. Cosa accade all’interno di una comunità ai tempi del Coronavirus?

Primo mese di quarantena 10 marzo- 3 aprile 2020

M. racconta: «i residenti sono isolati, più isolati del normale, le interazioni tra loro e noi sono bassissime, tutte le attività sono state interrotte. In questa residenza ognuno ha il proprio appartamentino, quindi si vive gran parte della giornata chiusi all’interno del proprio spazio, evitando di utilizzare i luoghi comuni come la sala da pranzo, la sala tv… Le uscite per gli acquisti vengono effettuate solo dagli operatori, siamo molto più tolleranti di prima rispetto a diete e consumi di sigarette». 

C. lavora in una Ctr2 privata, che si differenzia dalla Ctr1 in quanto gli ospiti possono avere precedenti penali anche gravi. Ci racconta che effettuano turni per mangiare e hanno modificato alcune parti dell’arredamento per seguire le indicazioni rispetto alla distanza minima di un metro durante i pasti principali. Talvolta però gli spazi sono stretti e non vi è nessuna sicurezza. C. sostiene che è spiacevole «quando l’operatore si tira indietro e non ci si può dare neanche la mano perché il contatto fisico è ridotto al minimo anche se alcuni utenti lo richiedono, viene meno quel supporto necessario a chi non comunica altrimenti, si vede che viene vissuto male se non si comprende cosa sta succedendo esattamente all’esterno». 

S. ci ripete più o meno gli stessi concetti aggiungendo che l’untore per gli utenti può essere solo l’operatore che è l’unico legame con l’esterno della comunità, essendo l’operatore possibile veicolo di contagio, è sempre «mascherato» e «disinfettato». In alcuni casi i professionisti come lo o la psichiatra, avendo la libertà di scegliere se lavorare o meno, sono in auto-quarantena. Questo non facilita certo il lavoro degli operatori che sono tesi, stressati e probabilmente a rischio burn-out. Gli operatori vivono una sorta di abbandono. 

M. conclude dicendo che «le risorse a disposizione degli utenti sono maggiori di quelle che noi possiamo immaginare e di quelle che noi probabilmente possiamo mettere in campo in quarantena… in alcuni casi, infatti, la convivenza, deprivazioni e assenza di libertà sono situazioni che loro conosco meglio di noi». Altro cambiamento avvenuto è la riduzione (quasi a zero) delle visite mediche sia del medico di base sia psichiatriche e psicoterapeutiche, fatta eccezione per le emergenze.

In queste tre situazioni descritte dagli operatori non si accenna a crisi o Tso (Trattamento sanitario obbligatorio), anzi sembra che l’utenza regga le nuove indicazioni. Ci sono però storie differenti, livelli di coscienza e dolore diversi che variano da persona a persona e se la pandemia e le sue leggi si protrarranno, le conseguenze potranno essere potenzialmente imprevedibili.

Secondo mese di quarantena dal 3 aprile 2020

Dopo un primo momento di accomodamento, abbiamo ricontattato gli operatori. 

S. dice «nell’ultimo periodo ciò che è cambiato è che abbiamo fatto un corso sulla sicurezza rispetto alla diffusione del Covid-19, dal quale è emersa la proposta divenuta norma, dell’allestimento di una stanza grigia all’interno della struttura. Stanza utile a fungere da filtro tra l’esterno e l’interno della comunità. Nel nostro caso comunque gli utenti si sentono protetti, sono pochi (sette) e si conoscono. Quelli che sono aumentati a quanto dicono alcuni colleghi di altre Ctr, sono i Tsv, i trattamenti sanitari volontari… ma noi qui siamo ancora abbastanza tranquilli».

M. racconta che «dentro le comunità è stata prevista una stanza grigia in cui le persone che rientrano dall’ospedale o da contesti a rischio si devono soffermare per 15 giorni, senza poter uscire. Qui da noi ci sono stati tre casi di residenti costretti alla stanza grigia. Comunque la nostra situazione è rara, abbiamo spazi di 40mq a persona. C’è stata, invece un po’ di confusione sulla gestione dei tamponi, una situazione paradossale che da un lato vede una comunicazione ufficiale che afferma l’obbligatorietà dei tamponi, dall’altra poi praticamente non li vogliono fare, abbiamo lottato un giorno intero per ottenere un tampone per un residente… una cosa positiva è che i residenti sentono e vedono i familiari attraverso le videochiamate gestite con noi operatori». 

M. aggiunge che discutendo la situazione con altri colleghi, emerge che il reparto Spdc (servizio psichiatrico diagnosi e cura) ha moltiplicato gli accessi e addirittura gli operatori e i medici si ritrovano costretti a dimettere i pazienti abbastanza rapidamente. Solo che nel caso di una donna è accaduto che essere dimessa in fretta ha significato rientrare in comunità e togliersi la vita. Il malumore diffuso è quello che fa esclamare M. con un «non se ne può più!!!». 

C. mentre racconta si trova in macchina e sta andando in comunità a sottoporsi al tampone che verrà fatto sia agli operatori che agli utenti, perché pare esserci un caso nella sua struttura, non di Covid-19 ma di febbre. «L’utente è stato messo in questa stanza grigia che abbiamo dovuto improvvisare nella nostra infermeria, già inadeguata, e spostare l’infermeria nel nostro ufficio che è di pochi metri, dove ora si concentrano gli utenti che devono prendere la terapia, noi operatori che scriviamo le consegne e magari qualcuno che telefona… è un incubo! In tutto questo, quando entriamo a lavoro dobbiamo fare una sorta di triage che consiste nella misurazione della febbre, disinfezione mani, mascherina e tutto questo avviene indovina dove? In cucina!!!… un altro luogo inadeguato. Il cambio turno praticamente avviene in cucina mentre si fa il caffè!». Dalle parole e dal tono di C. si capisce l’incredulità sia del trattamento dei pazienti psichiatrici messi in queste stanze grigie, sia la gestione del loro lavoro. L’esempio di C. della persona con la febbre è emblematico rispetto al trattamento di un paziente psichiatrico in questo periodo che si trova a stare male (anche) fisicamente. Con un tentato suicidio un anno prima, in questi giorni di febbre è stato messo in isolamento nella suddetta stanza e l’unica relazione che ha, su disposizione dello psichiatra, è con l’infermiere che, vestito completamente per non favorire il contagio, è l’unico a poter entrare. «Ma se io faccio la notte? – ci dice C. – Come faccio a non entrare? Se questa persona si sentisse male? Qualunque cosa accada dovrò andare a fare dei controlli… allora ci hanno detto che di giorno assolutamente non ci possiamo avvicinare alla stanza grigia. Ma di notte possiamo fare i “supereroi” e intervenire solo se l’utente suona il campanello […]». Il racconto continua con evidenti incongruenze tra il turno diurno e notturno, che sottolineano situazioni paradossali e stanchezze pregresse e C. conclude che «nella mia situazione, quello che sta emergendo è una delegittimazione del nostro lavoro, l’unico canale che è rimasto attivo di comunicazione tra medico e gruppo di lavoro, è quello prettamente medico-infermieristico. Chiaro è che il medico psichiatra ora è interessato e preoccupato solo ai sintomi e non più alla vita e allo stato psicologico delle persone, pensa che in un mese e mezzo […] non è mai entrato nella struttura!!! La situazione è imbarazzante, lo stato mentale di queste persone sembra non interessare più». 

In ogni caso uno degli obiettivi delle équipe rimane quello di cercare, nel miglior modo possibile e coscienzioso, di abbattere tutte le potenziali distanze che rimarcano ulteriormente oltre che la distanza fisica anche quella emotiva.

Infine

L’assenza di contatto fisico è necessaria per prevenire il contagio e il diffondersi delle infezioni, ma può provocare effetti inaspettati sulla psicologia degli esseri umani e di conseguenza sulla vita quotidiana, vista la nostra innata natura sociale. Più questa situazione si dilunga più dovremmo essere pronti a prenderci cura di tutte quelle persone che saranno segnate significativamente da questa esperienza. 

Il Coronavirus suggerisce di ripensare totalmente il nostro approccio alla vita: una sfida politica, economica e psico-socio-culturale da affrontare con idee e soluzioni nuove. Tale punto di rottura fa riflettere sulla sopravvivenza-esistenza, sulla resilienza e questo dovrebbe spronare alla ricerca di soluzioni per le crisi create dal capitalismo e dai cambiamenti sistemici interconessi. È quindi un’opportunità per ripensare e ricostruire molti significati tra i quali quello di salute, salute mentale e sanità pubblica in un’ottica sistemica di sviluppo, inteso come evoluzione egualitaria delle parti. Riconfrontarci e riorganizzarci, scoprire nuove forme di socialità, di solidarietà, di aggregazione e un ricongiungimento con l’ambiente che ci ospita, devono essere le priorità.

Non tutti però reagiremo alla stessa maniera. Al «ritorno alla libertà» ci sarà chi non avrà voglia di fare nulla. In questa esperienza stiamo guardando in faccia la nostra fragilità, la stiamo conoscendo e ci costringe a chiederci che impatto avrà sul nostro futuro. E se come diceva Basaglia «la libertà è terapeutica», è pure vero che il timore dell’isolamento e del contatto sociale sono fenomeni che non scompariranno molto facilmente e avranno ripercussioni sulla salute globale degli esseri viventi.

Non sono da sottovalutare però le risorse, la capacità di adattamento e di mettersi in rete delle persone. Nelle situazioni ad alto impatto emotivo negativo come questa ci si accorge che non solo il distanziamento più che sociale è fisico ma che si cerca di colmare lo spazio che ci separa. Sono infatti già attive azioni di solidarietà: supporti psicologici, servizi gratuiti raggiungibili online o via telefono come la consegna della spesa e/o dei medicinali, generazione di strumenti creativi come nuove piattaforme e radio che divulgano informazioni, luoghi di incontro virtuale, azioni solidali nate dal basso nei quartieri di varie città per sostenere chi ha necessità. Esigenze, oltre che economiche, psico-sociali tradotte in vicinanza emotiva e affetto. Questi dispositivi condivisi sono solo alcuni dei segnali positivi di una parte di collettività che condivide ciò che possiede e che sente la responsabilità di ciò che potrà cambiare senza arrendersi.

Elisa Melonari

Psicologa e attivista, lavora e conduce ricerche nell’ambito della salute mentale e dell’agricoltura sociale.

20/4/2020 https://jacobinitalia.it

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