Gli allevatori della pandemia
Nel diluvio di parole nuove che ha investito il circo mediatico, a questo decisivo passaggio del discorso di questi mesi, si dedica al massimo qualche distratto inciso. Anche se il virus dell’influenza suina non è un coronavirus, il meccanismo attraverso cui riesce a trasformarsi in un’epidemia è simile a quello di altre malattie zoonotiche, cioè provenienti dagli animali. I virus possono saltare da una specie all’altra e – sebbene possano avere origine in specie selvatiche di uccelli, pipistrelli, ecc. – è la distruzione degli habitat naturali ciò che li spinge fuori dalle loro aree, dove i ceppi infettivi erano sotto controllo all’interno della loro popolazione. Il numero enorme di animali da allevamento confinati, ammassati e immuno-depressi, poi, fa sì che il virus muti rapidamente. In alcuni paesi, inoltre, le industrie agroalimentari traggono addirittura vantaggio dalle epidemie, in quanto sono considerate dai governi come “essenziali” per la sopravvivenza, una menzogna perché non è l’agroindustria ma la produzione contadina, familiare e su piccola scala, anche urbana, quella che alimenta il 70 per cento dell’umanità.
La dichiarazione di pandemia per il Covid-19 ha messo tutto sottosopra. Ma non abbastanza da far sì che i governi si interroghino sulle vere cause che hanno dato origine a questo virus e sul fatto che, mentre in teoria si lavora per contenerlo, altri virus e pandemie si stanno già formando. Ci sono tre cause concomitanti e complementari che hanno prodotto tutti i virus infettivi che si sono diffusi a livello globale negli ultimi decenni, come l’influenza aviaria, l’influenza suina, i ceppi infettivi di coronavirus e altri. La causa principale è l’allevamento industriale e massiccio di animali, soprattutto polli, tacchini, maiali e mucche. A ciò si aggiunge il contesto generale dell’agricoltura industriale e chimica, in cui il 75 per cento dei terreni agricoli mondiali è utilizzato per l’allevamento di massa di animali, principalmente per la coltivazione di foraggio. La terza causa è la crescita incontrollata delle aree urbane e delle industrie che le alimentano e che di esse vivono.
Tutte e tre insieme sono la causa della deforestazione e della distruzione degli habitat naturali del pianeta, che comporta anche la deportazione delle comunità indigene e contadine da quelle zone. Secondo la FAO, in tutto il mondo, l’espansione della frontiera agricola è responsabile del 70 per cento della deforestazione, ma in paesi come il Brasile, l’espansione della frontiera agricola è responsabile addirittura dell’80 per cento della deforestazione. In Messico nel 2009 abbiamo visto come è nata l’influenza suina, a cui hanno dato l’asettico nome di Influenza A-H1N1, per dissociarla dalla sua origine suina. Ha avuto origine in una fabbrica di maiali chiamata Carroll Farms, a Veracruz, allora in comproprietà con Smithfield, il più grande produttore di carne al mondo. Smithfield è stata acquistata nel 2013 da una filiale della corporation cinese WH Group, attualmente il maggior produttore di carne suina al mondo, al primo posto in questo settore in Cina, negli Stati Uniti e in diversi paesi europei.
Anche se il virus dell’influenza suina non è un coronavirus, il meccanismo attraverso cui riesce a trasformarsi in un’epidemia/pandemia è simile a quello di altre malattie zoonotiche (cioè provenienti dagli animali). Un numero enorme di animali da allevamento confinati, ammassati e immuno-depressi fa sì che il virus muti rapidamente. A questi animali vengono somministrati continuamente antibiotici e antivirali; inoltre, dalla nascita alla macellazione vengono esposti a vari pesticidi disseminati nell’ambiente e presenti nel loro cibo. Sia per farli ingrassare più velocemente, sia per cercare di evitare che si ammalino, vivendo in condizioni assolutamente malsane per qualsiasi essere vivente.
Come spiega Rob Wallace, biologo evoluzionista e filogeografo dell’Istituto di Studi Globali dell’Università del Minnesota, che ha studiato per più di 25 anni il tema delle epidemie nell’ultimo secolo, i centri di riproduzione animale sono il luogo perfetto per la mutazione e la riproduzione dei virus. I virus possono saltare da una specie all’altra, e sebbene possano avere origine in specie selvatiche di uccelli, pipistrelli, ecc., è la distruzione degli habitat naturali ciò che li spinge fuori dalle loro aree, dove i ceppi infettivi erano sotto controllo all’interno della loro popolazione. Da lì si spostano nelle zone rurali e poi nelle città. Ma è negli immensi allevamenti zootecnici che vi sono le maggiori possibilità che si verifichi la mutazione che poi colpirà l’uomo, a causa della continua interazione tra migliaia o milioni di animali, della presenza di molti diversi ceppi di virus e del contatto con gli esseri umani che entrano ed escono dai capannoni.
La crescente interconnessione dei trasporti globali, sia di persone che di merci – compresi gli animali – fa sì che i virus mutanti si spostino rapidamente in molti punti del pianeta. Un aspetto complementare: come ha dimostrato GRAIN, il sistema agro-industriale alimentare è responsabile di circa la metà dei gas serra che producono il cambiamento climatico, un cambiamento che provoca anche la migrazione delle specie, tra cui le zanzare, che possono anche trasmettere alcuni virus. L’allevamento intensivo di animali, in particolare, è responsabile della maggior parte di queste emissioni (GRAIN, 2017).
Naturalmente, anche se sappiamo cosa l’ha prodotto, ciò non cambia il fatto che questo virus esiste e ha delle conseguenze ora, ed è importante prenderci cura di noi stessi e soprattutto di coloro che sono più vulnerabili a causa di vari fattori. Ciò nonostante, non è superfluo ricordare che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 72 per cento dei decessi in tutto il mondo sono dovuti a malattie non trasmissibili, molte delle quali sono direttamente legate al sistema alimentare agro-industriale, come le malattie cardiache, l’ipertensione, il diabete, l’obesità, i tumori dell’apparato digerente, la malnutrizione. Ma la focalizzazione sulle strategie per affrontare l’emergenza e la ricerca di presunti vaccini, che implicano che la pandemia possa essere controllata con mezzi tecnici, nascondono le cause e promuovono il perpetuarsi del problema, perché altre epidemie o pandemie arriveranno finché le cause rimarranno intatte.
In alcuni paesi, le industrie agroalimentari, i principali produttori di virus, traggono addirittura vantaggio dalle epidemie, in quanto sono considerate dai governi come “industrie di base” per la sopravvivenza. Si tratta di una menzogna ingannatrice, poiché è la produzione contadina, indigena e su piccola scala, anche urbana, quella che alimenta il 70 per cento dell’umanità. Le agroindustrie ci danno cibo spazzatura, pieno di prodotti agro-tossici, che ci rende malati e vulnerabili di fronte alle pandemie, mentre non cessano di accaparrarsi le terre dei contadini e le aree naturali, come segnala ETC [Gruppo d’Azione sull’Erosione, la Tecnologia e la Concentrazione, con sede in Canada, ndt] (ETC, Chi ci nutrirà?, 2017).
Nel corso dell’emergenza, per alcuni, sia imprese che banche, emergono altri affari succosi. Alcuni, come le aziende farmaceutiche, i produttori di presidi per la tutela della salute, le società di vendita online e di produzione di intrattenimento, si arricchiscono considerevolmente con la dichiarazione di pandemia. Altre aziende hanno perdite – che spostano sui lavoratori e sulla società in molti modi, anche con l’aumento dei prezzi – ma saranno le prime a beneficiare dei sussidi governativi, perché con la scusa che “l’economia” deve essere salvata, la maggior parte dei governi non esita a favorirle rispetto ai sistemi sanitari pubblici, devastati dal neoliberismo oppure rispetto ai milioni di persone che soffrono per la pandemia non solo a causa del virus, ma perché non hanno una casa, o acqua, o cibo, o hanno perso il lavoro, o lavorano a cottimo e senza alcuna sicurezza sociale, non hanno accesso alla diagnostica, o ai medici, o sono in carovane di migranti, o in qualche campo profughi, o stipati in strutture per rifugiati, o per strada.
In questo contesto, emergono anche forme di solidarietà dal basso. Oltre a queste forme di solidarietà, è necessaria una messa in discussione in profondità dell’intero sistema agro-industriale alimentare, e la valorizzazione profonda e solidale di tutti coloro che, dai loro campi coltivati in comune, dai loro orti e dalle loro comunità, ci nutrono e prevengono le epidemie.
Fonte:“Los hacendados de la pandemia”
Traduzione a cura di camminardomandando
Silvia Ribeiro
29/4/2020 https://comune-info.net
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