Narrare il proletariato fa bene al proletariato: ‘Chav’ e altri scritti. Un invito alla lettura
In questi ultimi anni molti e autorevoli osservatori provenienti da diverse aree disciplinari hanno sostenuto che i cambiamenti intervenuti all’interno della formazione sociale hanno ricevuto attenzioni dal lato scientifico (sociologico, economico, psicologico ecc.), ma quasi nessuna dal lato artistico letterario. Avremmo in qualche modo a disposizione una messe di informazioni e di teorie critiche relative a quella che Dardot e Laval hanno chiamato la nuova ragione del mondo, mentre le soggettività del lavoro, il nuovo proletariato che questa distorta razionalizzazione subiscono e finiscono persino per alimentare non riuscirebbero a diventare materia narrativa viva e pulsante. Difficile, per coloro che pongono questo rilievo, indicare punti esplicativi convincenti. Spesso ci si limita ad evocare altra temperie culturale e sociale vissuta dal nostro Paese, quella dove le trasformazioni sociali e di classe furono raccontate, anche perché vissute in corpore vili, dalla prosa cupa eppur poetica di un Mastronardi, o per altro verso dall’ironia tagliente e disperata di un Bianciardi. Oggi tutt’al più lo sguardo letterario sarebbe interessato a prodotti di genere e di nicchia, tesi a indagare ad esempio gli aspetti criminali del sistema capitalistico. Qui, si, un interesse c’è, si muove tra scrittura e fiction televisiva e incontra un evidente successo commerciale e di pubblico.
Ma è proprio così? È proprio vero che non esiste qui ed ora un interesse, un’attenzione, una sensibilità per far emergere attraverso l’opera letteraria (il romanzo in primis) le sfaccettate caratteristiche del soggetto del lavoro? Quello che ha perso, quello dolente e precario, quello meticcio, quello atomizzato e anestetizzato, quello che dispera e che pure lotta magari in forme nuove?
A questa domanda si può rispondere negativamente solo se si è disponibili a iniziare un itinerario letterario non sempre agile e lineare, nel senso che non tutti gli scrittori che hanno pubblicato libri in argomento possono godere di una distribuzione adeguata. I loro testi vanno un poco cercati e le loro fortune sono per molti versi appese al passaparola o alla sensibilità di librai indipendenti. Sul tavolo davanti a me c’è la messe raccolta in più di due anni.
Si può cominciare da un’uscita di questi ultimi giorni, un libro bloccato per molte settimane dall’emergenza Covid e finalmente sugli scaffali per i tipi di Alegre: Chav solidarietà coatta di D. Hunter. Con questo testo si arricchisce la collana “WorkingClass” curata da Alberto Prunetti, che ne è anche il traduttore. Lo stesso Prunetti, tra l’altro, è a sua volta sorvegliato autore di romanzi che indagano la nuova condizione operaia. Tra le sue opere più recenti è sicuramente degna di nota “108 metri the working class hero”, una vicenda di precariato, di ‘espatrio proletario’ in Inghilterra in cerca di fortuna e di un ritorno in una Piombino che prova a non abbandonarsi definitivamente alla condizione di rust belt nostrana; una umanità colpita, provata, ma non arresa, indisponibile al vittimismo. Anche il lavoro di Hunter è ambientato (totalmente in questo caso) oltremanica ed è difficilmente catalogabile come un vero e proprio romanzo, semmai siamo di fronte a un ibrido narrativo dove si susseguono episodi, aneddoti di vita personale e riflessioni più saggistiche. Il protagonista, un coatto, un chav appunto, ha attirato subito l’attenzione del curatore/traduttore Prunetti perché anche nelle condizioni più terribili non si piange mai addosso; è un fighter insomma. Per leggere questo libro occorre velocemente abbandonare l’immaginario della tuta blu, maschio, bianco, magari minatore del nord dell’Inghilterra. Hunter è un sottoproletario, fa riferimento alla comunità LGBTQ+ e non ha un’etica del lavoro tradizionale. Nella sua figura non risplendono nemanco le potenzialità che un Pasolini attribuiva a una certa società non ancora corrotta dal cancro del capitalismo/consumismo. Egli invece possiede doti e nuove capacità da mettere in campo e a disposizione di molti, dei più poveri e più in generale dell’intera nuova classe operaia. È un uomo che innanzitutto non nasconde le sue contraddizioni, ma allo stesso tempo mette in guardia tutti coloro i quali, sinistra in primis, intendono parlare ‘a nome e per conto’ di altri oppressi e sfruttati che rimangono inesorabilmente fuori campo, oggetti e non soggetti. È un uomo che tra la sua gente, gli ultimi degli ultimi, trova la solidarietà che pare essere risorsa sempre più rara all’epoca della trasformazione della forza lavoro in capitale umano. È un uomo che, forte in qualche modo anche del portato femminista, vuole raccontare una storia a partire dal proprio corpo (abusato e maltrattato), da se stesso e non solo dal lavoro che si fa o dalle questioni di reddito. La sua maturazione politica arriva in fondo tardiva e attraverso un percorso personale e non collettivo (anche qui le storie di molti/e si potranno specchiare…): qualcuno gli passa da leggere Gramsci, Angela Davis e a quel punto iniziano nuovi percorsi di coscientizzazione e di attivismo in molti movimenti, senza in realtà trovare un approdo definitivo. Alla fine quel che conta è il mettersi pienamente in gioco senza riserve e precauzioni, sapendo che le critiche anche più stringenti verranno fatte a soggettività di cui si fa parte e da cui sarebbe ipocrita e supponente chiamarsi fuori. Sta qui, in fondo, una delle riflessioni più utili che il libro dona a una sinistra per troppo tempo incapace di “internalizzare” la critica come elemento non deflagrante.
Chi è approdato da tempo a un editore “grande” (e risente meno delle dinamiche sopra descritte) è Giorgio Falco, che con il suo Ipotesi per una sconfitta (Einaudi Stile Libero Big), ci restituisce il corpo a corpo di una persona insubordinata con il rosario infinito dei lavori insulsi a cui si deve applicare, mentre contemporaneamente tenta un apprendistato di scrittore. Scalando la pila trovo “Meccanoscritto” messo a punto da MetalMente con Wu Ming 2 e Ivan Brentani (Edizioni Alegre). Qui la genealogia da Luciano Bianciardi è richiamata addirittura con un suo racconto inserito nel libro. Per altro verso si tratta di un tentativo (riuscito) di “trapiantare” l’ormai noto metodo della narrazione collettiva all’interno di luoghi di lavoro. È quello che succede con MetalMente, un collettivo aperto di lavoratori metalmeccanici che a poco a poco ritengono possibile, anzi importante e vivificante raccontare a tutti il mondo del lavoro. Lo fanno con successo, senza filtri, con il gusto e la dignità di un comune ritrovato e detto. È uscito per i tipi di Terrarossaedizioni il romanzo di Cristò:“Restiamo così quando ve ne andate”. Qui ci inerpichiamo sui tornanti di una generazione che vive il desiderio come un puro conato perennemente irrealizzabile o, peggio, soffocato da chi finisce per organizzare subdolamente anche gli spazi “liberi” tra lavori insulsi. In questa situazione gli ambienti di vita diventano a poco a poco un elemento decisivo nel disegnare le proprie geografie distopiche, oppure per definire un’ipotesi di approdo. Venendo a lavori più recenti, ecco arrivare tra le mani “Allegri che tra poco si muore” di Luigi Capone (Edizioni Artestampa). Il romanzo di questo giovane scrittore di Avellino ci porta tra precari, instabili, giovani che hanno velocemente passato l’età delle passioni per diventare disillusi, magari dentro un irrisolto pendolo nord/sud. Per questi relitti umani sembra esserci solo il tragico adagio: no future. Unica boa (non di salvataggio, ma di riposo in transito) sono i bar, dove si cerca di razionalizzare l’irrazionalizzabile, dove si brama un poco di anestesia o si fan progetti irrealizzabili.
Le due ultime fatiche in forma di libro sono di Giovanni Iozzoli. Questo autore, poco più che cinquantenne, è di origine campana ed è stato tra i fondatori di “Officina 99” a Napoli. Vive e lavora a Modena ormai da moltissimi anni ed ha già al suo attivo alcuni romanzi. La sua è una prosa molto efficace, asciutta, che sembra a volte restituire pensieri difficili, dolorosi, con la precisione e la mancanza di retorica di chi è in presa diretta con persone, relazioni, ambienti. Anche lo sporadico utilizzo del dialetto, la frase icastica, la battuta servono ad economizzare la descrizione di sentimenti profondi, veri giudizi. Del marzo 2018 è “Di notte nella provincia occidentale” (Edizioni Artestampa). Siamo nel nord Italia dove, dentro un contesto economico e sociale minato da mali spesso più profondi di quelli che si possono riscontrare “a occhio nudo”, si incontrano a causa di vicende legate ai loro figli i due protagonisti principali: Pasquale e Mustafà. Come risulta del tutto evidente fin dai loro nomi, loro non sono figli di quella terra. Ognuno sta attraversando difficoltà e sta portando il basto della propria fatica quotidiana. Pasquale, operaio specializzato, cassintegrato, comunista. Mustafà, ex lavoratore dipendente, ora una vita nel negozio di kebab. Sarà il dolore ad essere paradossalmente l’elemento legante tra queste due vite, aprendo degli spazi di riflessione su fantasmi aleggianti ormai in tutta Europa (e non solo…) e condizione materiale delle persone.
Di fine 2018 è l’ultimo romanzo (o racconto lungo) di Iozzoli: L’Alfasuin (Sensibili alle Foglie Soc. Coop.). Anche in questo caso l’intreccio è ambientato nella padania triste, versione distretto della lavorazione suina. In fondo al libro, alla nota dell’autore si può leggere: “mi sono permesso qualche forzatura storica e cronologica, intrecciando nel tempo e nello spazio del medesimo racconto , contesti e personaggi che in realtà hanno avuto sviluppi autonomi”. Al di là del fatto che ci sono scrittori, come ad esempio James Ellroy, che rivendicano libertà assoluta anche di fronte alla storia, occorre dire che in questo caso le “manipolazioni” dichiarate esplicitamente da Iozzoli non fanno che confermare correttezza e allo stesso tempo ricerca dell’efficacia da parte del nostro. Come ci ha insegnato il Valerio Evangelisti scrittore di romanzi storici (penso per esempio all’ultima trilogia Il Sol dell’Avvenire), si può arrivare a una sorta di sottolineatura, quasi una forzatura degli eventi storici non con intenti revisionistici, bensì per dire qualcosa di urgente all’oggi. Nel caso in questione si tratta in realtà di ottenere questo attraverso il lavoro sul presente come storia.
La narrazione si snoda intorno a tre momenti topici legati tra di loro dalle vicende dei protagonisti. Si parte, come dicevo più sopra, da una ambientazione padana dove si trova collocata la “premiata ditta” di lavorazione di carni suine Alfasuin. Non è più naturalmente il tempo dell’agiografia e della retorica (in gran parte sostenuta anche dalla letteratura sociologica ed economica a partire dalla metà degli anni ’80) connessa all’imprenditorialità familiare e al distretto industriale. Le illusioni della versione italiana della filosofia di Piore e Sabel, quella della seconda via dello sviluppo industriale, sono finite da tempo lasciando sul terreno spazio spazzatura e spazzatura esistenziale (vedasi il reportage di Marco Revelli: Non ti riconosco, Einaudi). Il patriarca/padrone dell’Alfasuin ha ceduto il passo ai pragmatici figli che non esitano a seguire l’onda che vuole la costruzione di una vera e propria apartheid in fabbrica: da una parte alcuni lavoratori “garantiti”, dall’altra i dipendenti della cooperativa che devono tacere, pedalare, essere disponibili a qualsiasi tipo di flessibilità a partire da quella mansionale. Qui si vede bene l’esito finale di una politica del lavoro che, come ben ha ricordato Marta Fana, ha imposto da più di due decenni (con modalità bipartisan) una controriforma in media ogni due anni. Se il centro della cooperazione era la solidarietà, dopo i “trattamenti” D’Alema e Biagi essa è diventata una specie di vecchia decalcomania francese sul braccio di un bambino, lavata via senza troppi problemi con un poco d’acqua calda. Oggi quel che serve è controllo, gerarchizzazione, sfruttamento assoluto e disciplina e nella fabbrica. Questa odiosa miscellanea è garantita da lavoratori spesso migranti, inquadrati ferreamente da capi/caporali disposti a interventi senza scrupoli pur di mantenere il proprio appalto. In Alfasuin lo sfruttamento bestiale e la pace sociale la garantiscono due fratelli, che hanno lambito fenomeni malavitosi e che cercano una sorta di riscatto personale sulla pelle altrui. Il mondo che bazzicano e che lavorano a tenere in piedi, però, è pieno zeppo di pescecani, di personaggi loschi pronti a tutto pur di far soldi e guadagnare influenza. Sarà proprio uno di questi, un “professionista”, un colletto bianco degno di una apparizione in Gomorra a mettere definitivamente ai margini il più giovane dei fratelli, approfittando della malattia e morte del capofamiglia e boss della cooperativa. Magistrale la descrizione che Iozzoli fa del tentativo di uscita di scena del fratello superstite, che nel tentativo di recuperare dignità di fronte a se stesso e alla donna che l’ha pure abbandonato, prova la via nel suicidio rituale giapponese con la spada. Nel vuoto totale della sua vita, nella disperazione che gli deriva dall’azzeramento dell’autostima si affida a un articolo letto per caso su un giornale. È un pezzo che parla di onore, di un tale scrittore Mishima… È quanto basta per infilarsi in una soluzione finale (che fallirà), grottesca quanto amarissima.
Dalla fabbrica, dove i prosciutti si compongono con ritagli pressati di vario genere, passa e lavora anche Abadallah. È migrante egiziano che trascorre le giornate a disossare; una pratica faticosissima e anche pericolosa. Intorno a lui Iozzoli fa vivere un mondo di esperienze in grado di restituirci finalmente in modo preciso la condizione di chi ha deciso di abbandonare il proprio paese di origine. Non siamo dunque presi nella tenaglia mortale che vuole da una parte i migranti come solo caso umano o, dall’altra, bersaglio preferito dei dispositivi tesi a costruire capri espiatori ottimali per conflitti orizzontali tra poveri. Le ruminazioni mentali, le aporie esistenziali, le disperazioni e gli slanci di Abdallah ci parlano invece di un uomo (e di tanti uomini e donne), che vive le sue contraddizioni, ricerca soluzioni, prova a vivere nonostante tutto e a lottare. Il suo non è un progetto che lo soddisfa, visto che ha dovuto recedere sul terreno di tenere unita la famiglia in Italia, ma esattamente perché questa cosa non è stata possibile a seguito delle ristrettezze e dello sfruttamento imposto, egli opta per il corpo a corpo con i problemi. Cerca chi, in un contesto così difficile, possa capirlo e stare al suo fianco e paga duramente il suo attivismo sindacale con l’allontanamento dalla fabbrica sino ad un finale tragico. L’organizzazione a difesa dei lavoratori e delle lavoratrici è cosa alquanto difficile a fronte delle molteplici modificazioni qualitative del soggetto del lavoro, delle relazioni industriali, sindacali. Eppure bisognerebbe prestare più attenzione a tutte quelle situazioni in cui sembrano svilupparsi pratiche di resistenza intelligenti e innovative. Se penso alla parabola di Abdallah, al suo sacrificio e dedizione, mi vengono alla mente altri episodi assolutamente positivi come quelli raccontati dalla viva voce di Loris Campetti nel suo “tour” di presentazione di Ma come fanno gli operai (Manni editore). Anche lui ha potuto toccare con mano come in una fabbrica della filiera alimentare lavoratori stranieri di etnie diverse (e spesso in contrasto fra loro per diversi motivi) hanno saputo costruire una vertenza comune, duratura ed efficace sia per risultati ottenuti che per pratiche solidaristiche.
Certo gli esempi positivi non descrivono automaticamente una via in discesa. Servono persone, compagne e compagni in grado di affrontare le situazioni con l’equilibrio che impone una paziente ritessitura. Nello scritto di Giovanni Iozzoli questo compagno c’è e si chiama Gino Lombrosini. È lui il protagonista che imprime sostanza all’andito finale del libro. Gino è un sindacalista la cui età dovrebbe dichiarare una sola cosa: pensione. E invece no, nonostante la moglie lo richiami bonariamente verso casa, lui dice: “ma tutte quelle lotte, quegli scioperi, per quarant’anni, che cazzo li abbiamo fatti a fare? Va bene, la mia ditta non c’è più, e i miei colleghi son tutti dei vecchi stronzi barbagianni rimbambiti, e non abbiamo fatto una grande riuscita, noi della nostra generazione. Ma proprio per questo non ci sto a fare il pensionato di merda”. Per Gino Lombrosini la politica – meglio, il sindacato – è una passione durevole. Egli sa però che questo durare nel tempo non può essere interpretato come puro e sterile volontarismo. Gino è un gramsciano vero, sa che bisogna adeguatamente studiare, organizzarsi e agitarsi. E difatti lui studia come un matto contratti, richieste, modelli organizzativi, strategie del capitale: “col tempo il movimento merci diventa più centrale della produzione e se prendiamo in mano la logistica condizioniamo tutto il resto. E questo è Marx cari barbagianni…”. E si agita con metodo, capendo che serve un’attività di lungo periodo di ri-organizzazione, di ri-sindacalizzazione e ri-politicizzazione che può vivere solo se si tenta la via itinerante, un’attività meno centralizzata e più attenta alle articolazioni territoriali, alle atomizzazioni, ai meticciati. In fondo il “Comitato di lotta”, quello che incontrerà anche Abdallah, altro non è che il significato per indicare questo significante in ebollizione. Un piccolo esempio parziale di ricostruzione non convenzionale, che senza esercitare scomuniche, lavora su un mondo frastagliato con all’interno delle sicure potenzialità.
Gino è bravo e la comunità che lo riconosce si fa vasta e persino pericolosa. Così la pensano padroni e persino istituzioni. Che difatti, qui si classicamente, preparano la nota “polpetta avvelenata” per il vecchio/giovane sindacalista. Ci saranno sviluppi eticamente e umanamente letali? Gino Lombrosini comprato dal padrone?
No i suoi ragazzi, i compagni e le compagne non ci stanno. Non ci credono e lo accolgono dentro un abbraccio che non lascia diritto di replica. Sta sicuramente qui l’ultima “derivata” del romanzo di Iozzoli, quella che fa più meditare. In fondo una delle più grandi sconfitte che il movimento operaio abbia dovuto scontare in questi anni è stata quella che ha segnato la distruzione della solidarietà tra persone, tra lavoratori, tra proletari, tra disoccupati. Su questo sono passati gettando sale e dobbiamo saperlo. Il recupero, la ricostruzione di un riconoscimento umanamente profondo tra oppressi è un lavoro decisivo se si vuole rimontare la china. A chi ci vuol consegnare l’illusione del surrogato, della simulazione social, o dell’impresa come modello di soggettivazione dobbiamo saper rispondere anche con una intelligenza emotiva, che è gran parte patrimonio femminile, ma che oggi deve poter rifiorire come potente antidoto per tutte/i.
Alberto Deambrogio
10/6/2020 https://transform-italia.it
Immagine: quadro di Munch
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!