I CARUSI DEL XXI SECOLO. IL LAVORO MINORILE IN ITALIA
Il 9 luglio 2014 Massimo De Felice, Presidente dell’INAIL, legge in Parlamento – come atto dovuto – la relazione annuale relativa all’andamento della vita dell’Istituto nell’esercizio finanziario 2013. Vengono presentati tre aspetti: i dati sugli infortuni e le malattie professionali (open data), la sintesi di bilancio e le prospettive. Quanto a queste ultime, si precisa che la nuova vocazione dell’INAIL non è più solo assicurativa, ma dedicata all’evoluzione verso la consulenza e la prevenzione del controllo sulle aziende (87% in posizione irregolare), con una prospettiva di “premialità” per quelle virtuose, o per quelle che decidono di ordinare la propria posizione. Il Presidente, mentre snocciola dati su morti, inabili, danneggiati biologicamente, ricorda che la configurazione in autority per la sicurezza comporterà un miglior coordinamento sui territori, la digitalizzazione completa, il contrasto “all’arcaismo delle carriere” e alla pluralità dei contratti di lavoro stipulati. Viene citata anche Taranto, relativamente ad un piano per la “formazione alla sicurezza per lavoratori” ad alto rischio.
La Corte dei Conti, con propria determinazione, assume la Relazione dell’INAIL, analizza i dati contabili, la situazione patrimoniale, sottolinea il fenomeno del lavoro nero al 7,27% insieme a quello su citato relativo alle aziende fuori norma, annota la diminuzione delle denunce, considera buona la situazione economico-patrimoniale dell’ente.
Il 10 luglio, Il Sole 24 Ore rende noto che i dati delle tabelle allegate alla Relazione sono errati per eccesso: gli incidenti sono molti di meno, sottratte le denunce riguardanti il “lavoro in itinere”, cioè svolto fuori dal luogo fisico di espletamento delle mansioni ordinarie, anche se collegate ad esso (il lavoratore si infortuna mentre effettua delle consegne, ad esempio?).
Insomma, tutto sembra sotto controllo, sia per il mondo imprenditoriale, sia per chi deve vigilare. Almeno fino a quando non si affrontano gli allegati alla Relazione, ovvero le tabelle con i dati specifici sulla tipologia delle denunce.
Alla tavola B1.5, “infortuni per classe di età e anno di accadimento”, la prima riga recita: (lavoratori) fino a 14 anni – 2009/n.59.863 (incremento costante negli anni successivi) – 2013/n. 63.828 – denunciati 3 decessi, accertati 0. Nelle righe successive, i dati relativi ai lavoratori dai 15 ai 18 anni risultano stabili negli anni considerati, fino alla cifra di 34.390 per il 2013. Quelli relativi alla classe di menomazione registrano 791 casi fino a 14 anni. I tipi i menomazione sono messi in tabella per entità di danno, molti incidenti vengono registrati come privi di conseguenze (non sono nemmeno ipotizzate quelle psicologiche per i bambini!).
Il carattere grassetto ci serve ad evidenziare che in Italia l’obbligo scolastico e formativo dura fin al 16° anno, sotto questa età l’impiego di lavoro è un reato.
Poiché i dati ci scandalizzano, andiamo in cerca di altre informazioni, ordinando quel che troviamo secondo la cronologia di pubblicazione. L’ISPELS, Istituto Superiore per la Prevenzione, assorbito dall’INAIL nel 2010 per via delle succitate nuove funzioni di quest’ultimo, pubblica nel 2003 un volume impressionante, “Proteggi il nostro futuro”. In 175 pagine descrive il lavoro minorile in Albania, Romania, Turchia, India rurale e Italia, collegando la presenza del fenomeno ai dati del PIL e, dunque, alle condizioni socio-economiche dei paesi analizzati. Nel 2008, lo stesso Istituto fornisce una definizione di lavoro minorile che distingue i lavori svolti in ambiti famigliari, comunque protetti, che non pregiudicano la salute infantile, e quelli pericolosi. Questi ultimi, nel mondo, sono calcolati nella cifra di 126 milioni di soggetti (dati confermati dalla International Labour Organization, organizzazione accreditata dall’ONU, fondata a Philadelphia, nel1944). La tabella allegata, riguardante i dati italiani, dal 2000 al 2006, raccolti con diversa metodologia (questionari, interviste, rilevazioni statistiche), dall’ISTAT, dalla CGIL e dalla onlus Save the Children (in collaborazione con l’associazione Bruno Trentin–IRES), descrive il fenomeno per tipologia di lavoro svolto dai 7 ai 14 anni. Le imprese famigliari, che svolgono attività impegnative e rischiose, vedono impiegati circa 145.000 minori, quelle commerciali e artigianali, circa 420.000, di cui 1/6 stranieri.
Sempre Save the Children, nel 2013, aggiorna i dati italiani (senza cambiamenti apprezzabili) mediante una metodologia di ricerca quantitativa (campionamento statistico su 2005 soggetti) e qualitativa (interviste in profondità). Nel giugno 2014 pubblica un nuovo rapporto, “Lavori ingiusti”, in cui segnala l’esistenza di 260.000 ragazzini al lavoro: 66% prima del 16° anno, 40% prima del 13°, 11% prima dell’11°. I minori sono impiegati per lo più in campagna e nelle attività commerciali. Alcune drammatiche interviste ai bambini e ai ragazzi le troviamo sulla pagina di La Repubblica.it. del 12 giugno 2014. Questi minori raccontano che non sono andati a scuola, o l’hanno lasciata, per aiutare le famiglie o per provvedere a se stessi. Molti di loro finiscono, prima di trovare un lavoro “normale”, nelle maglie della criminalità organizzata. Non è un caso che una delle zone a più alto rischio sia la provincia di Vibo Valentia, in Calabria.
Come si vede, la realtà del lavoro minorile è un fenomeno molto indagato a livello nazionale e internazionale, eppure i dati ad esso relativi devono essere cercati, la loro lettura rimane un’attività di nicchia. Non ci risulta che i parlamentari abbiamo dato un’occhiata alle tabelle dell’INAIL, sempre se hanno ascoltato la lettura della Relazione.
Per quanto riguarda la stampa, il sito R.it, come abbiamo visto non commenta la Relazione ma un’indagine della onlus, e il giornale della Confindustria tira l’acqua al suo mulino. Durante la settimanale lettura dei quotidiani su Radio3, Piero Sansonetti, direttore de Il Garantista, viene interpellato da Piero Castello sulle tabelle dell’INAIL, che a noi fanno scandalo. Si dice allibito e totalmente disinformato circa la rilevanza del lavoro minorile, ma la cosa non viene più ripresa nei giorni successivi, né genera il consueto profluvio di sms, twit, e-mail.
Del resto la questione non interessa né i redattori del Jobs Act, né quelli de La Buona Scuola.
Nelle pletora di decreti delegati che dovranno seguire il risicato testo governativo sul lavoro, non crediamo troverà posto quello che gli economisti di Sbilanciamoci (allegato a il manifesto, 12 dicembre 2013) preferirebbero chiamare Workers Act, come sottolineatura – se inglese deve essere! – dell’attenzione che andrebbe rivolta ai lavoratori, dunque al nesso diritti-dignità-sistemi di protezione. Aggiungiamo noi, soprattutto per i bambini.
Degli Early School Leavers (gli abbandoni scolastici) si occupa La Buona Scuola, in uno specchietto al paragrafo “La scuola al lavoro”, quella che, recita l’incipit, consentirà ai giovani di vivere il dettato costituzionale come “protagonisti del mondo del lavoro”. Ovviamente, si tratta di “disaffezionati”, niente di più e niente di meno, di ragazzi che la scuola “non sa tenere con sé”. Bandito ogni riferimento alle condizioni socioeconomiche delle famiglie, ai territori governati dalle mafie, alle imprese criminali o semplicemente fuori regola (l’87,65% dell’imprenditorialità italiana, ripetiamo, secondo l’INAIL).
Concludiamo con quella che dovrebbe essere un’ovvietà: non proteggere le creature piccole è una omissione destinata a distruggere il tessuto sociale, un danno etico e politico difficile da rimarginare nei tempi brevi.
Renata Puleo e Piero Castello
Gruppo NoINVALSI, Roma
7/2/2015 www.lacittafutura.it
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