Afghanistan, italiani brava gente.
Al tenente Silvia Guberti – dimostrazione di fattiva emancipazione femminile che passa nello stare al fianco di colleghi uomini in un ambiente notoriamente maschilista – vorremmo far conoscere qualcosa di diverso dal carcere di Herat, curato fra gli altri dall’Esercito al quale appartiene e finanziato come “missione di pace” dal Parlamento italiano. Vorremmo farle conoscere cosa fanno, dicono e pensano le donne afghane che si prodigano per le loro sorelle e figlie cercando di strapparle a stupri, violenze, sopraffazioni, matrimoni e convivenze forzate. Così, se l’orizzonte della comprensione della giovane soldatessa non fosse offuscato dalla pianificazione della mistificazione che la fa stare in Afghanistan credendo di fare opera benefica, eviterebbe di affermare che quelle donne rinchiuse nella prigione di Herat sono lì per redimersi. Sì, lei dice “redimersi”, e parrebbe un affrancamento dalla colpa d’aver subìto i trattamenti che ricordavamo sopra. Usa quel concetto per poi riprendersi l’ufficiale italiana. Ammette che certi “reati” per i quali i maschi afghani, padroni in casa e nei tribunali, cacciano le donne in galera da noi non sarebbero reati. Eppure Silvia è lì, a constatare l’assurdità di quei trattamenti avallati dalla politica estera d’una nazione che partecipa a un’occupazione illegittima, mascherata dalla favola della “polizia internazionale” che altro non è obbedienza a quel che decidono Casa Bianca e Pentagono. Le fa eco un’altra donna tricolore, probabilmente una civile aggregata all’Esercito Italiano, la psicologa Samantha Barna. Lei nel documentario firmato da Sandro Vannucci e realizzato in collaborazione col Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri (non chiedetevi di quale governo, poiché le finalità non sono mai cambiate negli undici anni di presenza nella missione Isaf) parla d’un Centro di ascolto per le donne inserito nel progetto d’un grande spazio commerciale da realizzare. Come se i gravissimi problemi di vita, libertà, identità femminili fossero merci da mettere in vetrina. Magari interrogata meglio, la psicologa preciserebbe che no, non si tratta di questo. Però questo nella “migliore” delle proprie vesti fanno in quelle terre i nostri bravi ragazzi e le nostre brave ragazze che vestono la divisa. Anche l’interagire con la popolazione è parziale e falsato. Propone servizi come quello sanitario che già in altri casi, quando gli scenari di guerra creati dai bombardamenti Nato su fasce di territorio fanno fuggire gli abitanti da quelle aeree gli abitanti, risultano inutili o trasformano strutture in cattedrali nel deserto. E hanno voglia il capitano Cornacchione e il colonnello Scalabrin a vantare i rapporti col Civil Military Cooperation e l’Usaid. Tali organismi sono subordinati a intenti strategici della Nato o storicamente nascondono secondi fini.
Enrico Campofreda
10/2/2014 http://enricocampofreda.blogspot.it/2014/11/afghanistan-lusaid-aiuta-le-donne.html
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