MANIFESTO : USCIRE DALL’ECONOMIA DEL PROFITTO, COSTRUIRE LA SOCIETA’ DELLA CURA

Premessa

Per la prima volta una crisi economica e sociale è stata causata da un evento ambientale naturale: un virus ha in brevissimo tempo contagiato l’intero pianeta, costringendo all’auto-reclusione metà della popolazione mondiale e interrompendo attività produttive, finanziarie, commerciali, sociali e culturali.

La pandemia è la dimostrazione più evidente della crisi sistemica in atto e richiede in tempi estremamente brevi una radicale inversione di rotta rispetto all’attuale modello economico e ai suoi impatti sociali, ecologici e climatici.
La pandemia ha messo in evidenza come un sistema basato sul pensiero unico del mercato e sul profitto, non sia in grado di garantire protezione ad alcuno. Decenni di politiche di tagli, privatizzazione e aziendalizzazione della sanità hanno trasformato un serio problema epidemiologico in una tragedia globale di massa.
Dentro l’emergenza sanitaria e sociale tutti abbiamo sperimentato cosa vuol dire la precarietà in senso esistenziale: le nostre certezze, i nostri riti quotidiani, i nostri universi relazionali sono stati messi a soqquadro. Abbiamo dovuto prendere atto della fragilità e della interdipendenza intrinseca della vita umana e sociale. Abbiamo avuto dimostrazione di quanto sia delicata la relazione con la natura: non siamo i padroni del pianeta e della vita che contiene, siamo parte della vita sulla Terra e da lei dipendiamo.

Niente può essere più come prima, per il semplice motivo che è stato proprio il prima a causare il disastro.
Oggi più che mai, ad un sistema che tutto subordina all’economia del profitto e alla concentrazione privatistica della ricchezza, dobbiamo contrapporre la costruzione di una società della cura. La cura di sé, dell’altro, dell’ambiente e delle generazioni che verranno.

1. Lavoro, reddito e welfare nella società della cura
La pandemia ha dimostrato come nessuna produzione economica sia possibile senza garantire la riproduzione sociale, come il pensiero femminista da sempre sostiene.
E se riproduzione sociale significa cura di sé, dell’altro e dell’ambiente, è attorno a questi nodi che va ripensato l’intero modello economico-sociale.
Allo stesso tempo, la pandemia ha reso drammatica la condizione di precarietà di milioni di persone che si sono trovate senza alcun reddito, oltre a far sprofondare nella disperazione le fasce deboli della popolazione, dai migranti ai senza casa, dai disoccupati ai disabili, ai non autosufficienti.
Non può esserci società della cura senza il superamento di tutte le condizioni di precarietà e una ridefinizione dei concetti di lavoro, reddito e welfare.

Se la cura di sé, dell’altro e dell’ambiente sono gli obiettivi del nuovo patto sociale, il diritto al reddito non può più dipendere dall’attività lavorativa, ma va considerato elemento costitutivo per l’eliminazione della precarietà nella vita delle persone, nonché per poter attuare senza ricatti economici e occupazionali la riconversione ecologica della società.
Va realizzato un nuovo sistema di welfare universale, decentrato e depatriarcalizzato, basato sul riconoscimento della comunità degli affetti e del mutualismo solidale e sull’autogoverno collettivo dei servizi.
L’attività lavorativa deve basarsi su un’ampia socializzazione del lavoro necessario, accompagnata da una netta riduzione del tempo a questo dedicato, affinché l’accesso al lavoro sia l’esito di una redistribuzione solidale e non di una feroce competizione fra le persone, dentro un orizzonte che subordini il valore di scambio al valore d’uso e organizzi la produzione in funzione dei bisogni sociali, ambientali e di genere.

2. Trasformazione ecologica della società

La pandemia non è stato un evento esogeno al modello economico-sociale, né qualcosa di provenienza sconosciuta: la nostra crescente vulnerabilità ai virus ha la sua causa profonda nella distruzione sempre più veloce degli ecosistemi naturali e nella progressiva industrializzazione della produzione agroalimentare.
Un modello produttivo basato sull’utilizzo indiscriminato delle risorse e sugli allevamenti intensivi ha provocato un verticale aumento della deforestazione e una drastica diminuzione di biodiversità. Tutto questo, sommato a una crescente urbanizzazione e all’inquinamento, ha portato a un cambiamento repentino degli habitat di molte specie animali e vegetali, sovvertendo ecosistemi consolidati da secoli, modificandone il funzionamento e permettendo una maggior connettività e contiguità tra le specie selvatiche e domestiche.
La pandemia è parte integrante della più generale crisi sistemica, di cui quella climatica è tra le più urgenti, e richiede una radicale inversione di rotta in tempi estremamente rapidi.
Occorre promuovere la riappropriazione sociale ed ecologica della filiera del cibo, sottraendola all’agro-business e alla grande distribuzione per garantire la sovranità alimentare, ovvero il diritto di tutti ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, accessibili, prodotti in forma sostenibile ed ecologica.

Occorre avviare una profonda riconversione ecologica del sistema industriale, a partire dalla decisione collettiva su “cosa, come, dove e per chi” produrre e da un approccio eco-sistemico e circolare ai cicli di lavorazione e alle filiere, dalla produzione al consumo finale.

Occorre invertire la rotta nel sistema del commercio internazionale e degli investimenti, sostituendo l’inviolabilità dei diritti umani, ambientali, economici e sociali all’attuale intoccabilità dei profitti, e rendendo vincolanti tutte le norme di tutela sociale e ambientale per le imprese che, ad oggi, agiscono lo spazio della volontarietà e della filantropia.

Diventa urgente approdare a un nuovo paradigma energetico, che, nell’abbandono immediato del fossile, passi da un’economia basata sulla dissipazione ad una società che consumi meno energia, e da un modello che produce energia “termica, centralizzata e militarizzata” ad una società che produca energia “pulita, territoriale e democratica”.

Diventa necessario trasformare l’approccio al territorio e alla mobilità, ponendo fine al consumo di suolo e al modello delle Grandi Opere inutili e dannose, per approdare a città e comunità territoriali che siano luoghi di vita degna, socialità e cultura e a modalità sostenibili di collegamento fra le stesse.

Va profondamente ripensata la relazione di potere fra esseri umani e tutte le altre forme di vita sul pianeta: occorre una rivoluzione culturale, oltre che un cambiamento economico e degli stili di vita.

3. Riappropriazione sociale dei beni comuni e dei servizi pubblici

Nessuna protezione è possibile se non sono garantiti i diritti fondamentali alla vita e alla qualità della stessa. Riconoscere i beni comuni naturali, sociali, emergenti e ad uso civico -a partire dall’acqua- come elementi fondanti della vita e della dignità della stessa, della coesione territoriale e di una società ecologicamente e socialmente orientata, richiede la sostituzione del paradigma del pareggio di bilancio finanziario con il pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere.
La tutela dei beni comuni, e dei servizi pubblici che ne garantiscono l’accesso e la fruibilità, deve prevedere un’immediata sottrazione degli stessi al mercato, una loro gestione decentrata, comunitaria e partecipativa, nonché risorse adeguate e incomprimibili.

Occorre socializzare la produzione dei beni fondamentali, strategici ai fini dell’interesse generale: da quelli che si occupano della produzione di un bene di consumo o di un servizio primario per i bisogni della popolazione (i prodotti alimentari, l’acqua, l’energia, la scuola, la sanità, i servizi sociali, l’edilizia abitativa); a quelli che si occupano di un bene o di un servizio, senza l’uso del quale una parte considerevole delle altre attività economiche non sarebbero possibili (i trasporti, l’energia, le telecomunicazioni, la fibra ottica); a quelli legati a scelte d’investimento di lungo periodo di carattere scientifico, tecnologico e culturale, in grado di modificare, nel tempo e in maniera significativa, la vita materiale e spirituale della popolazione.

4. Centralità dei territori e della democrazia di prossimità

La pandemia obbliga a mettere in discussione il paradigma della ricerca di una folle crescita, interamente basata sulla velocità dei flussi di merci, persone e capitali, sulla centralità dei mercati globali e delle produzioni intensive e sulla conseguente iperconnessione dei sistemi finanziari, produttivi e sociali.
Sono gli stessi canali che hanno permesso al virus di diffondersi in tutto il pianeta a velocità mai viste prima, viaggiando nei corpi di manager e tecnici specializzati, così come in quelli di lavoratori dei trasporti e della logistica, e di turisti.
Ripensare l’organizzazione della società comporta la ri-localizzazione di molte attività produttive a partire dalle comunità territoriali e dalla loro cooperazione associata, che dovranno diventare il fulcro di una nuova economia trasformativa, ecologicamente e socialmente orientata.
Le comunità sono i luoghi dove convivono umani, territorio e paesaggio, ciascuna con la propria storia, cultura, identità originale e insopprimibile. La pialla della globalizzazione ha provato a spianare differenze e peculiarità, producendo resistenze che sono state troppo spesso governate verso una versione chiusa ed escludente del comunitarismo. La sfida, anche culturale, è progettare il futuro come un sistema di comunità aperte, cooperanti, includenti e interdipendenti.

Questo comporta anche la ri-territorializzazione delle scelte politiche, che dovranno essere poste in capo ai Comuni, alle città e alle comunità territoriali, quali luoghi di reale democrazia partecipativa e di prossimità.

Contemporaneamente, andranno pensate forme di riappropriazione popolare delle istituzioni di livello nazionale ed internazionale, che dovrebbero garantire, tutelare ed affermare l’uguaglianza nei diritti e nelle relazioni fra le diverse aree dei sistemi paese, dei sistemi regionali e continentali e del sistema mondo.

5. Accoglienza, solidarietà e cooperazione

La pandemia ha dimostrato quanto il pianeta e le forme di vita che lo abitano siano interconnesse e interdipendenti. Non ha riconosciuto nessuna delle molteplici separazioni geografiche e sociali e nessuna delle gerarchie costruite dagli esseri umani: dalle frontiere alle classi sociali, passando dal falso concetto di razza. Ha dimostrato che la vera sicurezza non si costruisce contro, e a scapito degli altri: per sentirsi al sicuro bisogna che tutti lo siano.
La società della cura non ha dunque confini, non ama i fossati e non costruisce fortezze. Rifiuta il dominio e riconosce la cooperazione fra i popoli. Affronta e supera il razzismo istituzionale e il colonialismo culturale, attraverso i quali ancora oggi i poteri dominanti si relazionano alle persone fisiche, ai saperi culturali e alle risorse del sud globale.
Respinge il tentativo di risolvere le contraddizioni di questo modello economico-sociale attraverso la costruzione di discriminazioni legate al genere, alla provenienza, al colore della pelle, al credo religioso.
Rifiuta ogni forma di fascismo, razzismo e sessismo e costruisce ponti fra le persone e le culture, praticando politiche di accoglienza, diritti e solidarietà.
Nello stesso tempo, rifiuta l’estrattivismo come elemento di aggressione dei popoli originari, espropriazione delle risorse naturali comuni e riproduzione della devastazione ambientale. In questa direzione, promuove l’autodeterminazione dei popoli e delle comunità, un commercio equo e solidale, la cooperazione orizzontale e la custodia dei beni comuni globali.

6. Scienza e tecnologia al servizio della vita e non della guerra

La ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica sono basi fondamentali per la costruzione di una società della cura che permetta una vita degna a tutte le persone. Ma possono divenire elementi di distruzione se sono prodotte non al servizio della vita ma del dominio e della guerra.
Per questo non possono essere considerate fattori oggettivi o neutri, ma parte della dinamica sociale, i cui indirizzi devono essere decisi partecipativamente dalla collettività, in modo che i loro risultati vadano verso l’emancipazione delle persone e non verso il loro controllo sociale autoritario, in direzione della redistribuzione della ricchezza e non verso il dominio, in direzione della pace e della solidarietà fra i popoli e non in direzione della distruzione di vite, società e natura.
I saperi e le risorse di una società non possono essere indirizzati alla costruzione di armi, al mantenimento di eserciti, all’appartenenza ad alleanze basate sul dominio militare, alla partecipazione a missioni militari e a guerre. Serve una radicale riconversione per metterle al servizio della trasformazione ecologica e sociale, della prevenzione e cura della salute delle persone, del benessere delle fasce deboli della popolazione, dell’eliminazione delle diseguaglianze.

7. Finanza al servizio della vita e dei diritti

La pandemia ha reso evidente la trappola artificialmente costruita intorno al tema del debito pubblico: se per curare le persone sono stati sospesi patto di stabilità, fiscal compact e parametri di Maastricht significa che questi vincoli non solo non sono necessari, ma sono contro la vita, la dignità e la cura delle persone.
La finanziarizzazione dell’economia e la mercificazione della società e della natura sono le cause della profonda diseguaglianza sociale e della drammatica devastazione ambientale.
Mettere la finanza al servizio della vita e dei diritti significa riappropriarsi della ricchezza sociale prodotta, cancellando il debito illegittimo e odioso e applicando una fiscalità fortemente progressiva, che vada a prendere le risorse laddove si trovano, nei ceti ricchi della società, nei grandi patrimoni, nei profitti delle grandi imprese.
Nessuna trasformazione ecologica e sociale sarà possibile senza fermare l’unica globalizzazione che il modello capitalistico è riuscito a realizzare compiutamente: quella dei movimenti di capitale. Un capitale privo di confini che può indirizzarsi senza vincoli laddove maggiormente gli conviene, determinando a suo piacimento le scelte di politica economica e sociale degli Stati, costretti a competere per rendersi attrattivi dal punto di vista dei mercati.
Per questo occorre prevedere la socializzazione del sistema bancario, trasformandolo in un servizio pubblico per risparmi, credito e investimenti, gestito territorialmente con il coinvolgimento diretto dei cittadini organizzati, dei lavoratori delle banche, degli enti locali e dei settori produttivi territoriali.
Senza una nuova finanza pubblica e partecipativa, nessuna trasformazione ecologica e sociale del modello economico e produttivo sarebbe possibile, e le decisioni di lungo termine sulla società rimarrebbero appannaggio delle lobby finanziarie e delle grandi multinazionali.

Vogliamo una società che: metta al centro la vita e la sua dignità, sappia essere interdipendente con la natura, costruisca sul valore d’uso le sue produzioni, sul mutualismo i suoi scambi, sull’uguaglianza le sue relazioni e sulla partecipazione le sue decisioni.

Lotteremo tutte e tutti assieme per renderla realtà.

4/8/2020 https://www.medicinademocratica.org

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