Per uno Statuto europeo dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori

Nel dibattito in corso da anni sui cambiamenti che si propongono nell’ambito del diritto del lavoro e sindacale per far fronte ai grandi mutamenti produttivi e sociali, sotto l’incedere della crisi economica del 2008 ed ora di quella della pandemia Covid-19, non sempre le affermazioni correnti sono suffragate dai contenuti e dai dati normativi, né sono supportate da sufficienti conoscenze storiche e da adeguate visioni prospettiche.

In primo luogo, lo Statuto dei lavoratori (di cui ricorre il cinquantesimo anno di vita) viene, a volte, descritto come un insieme di norme immodificate nel tempo, incartapecorite ed obsolete. Le cose non stanno propriamente cosi e si pongono in maniera variegata.

La l. n. 300 del 1970 contiene ancora oggi una parte di norme dotata di un’efficace funzione garantista, come quella relativa alle sanzioni disciplinari nei confronti dei dipendenti, alla loro pubblicità, contestabilità e proporzionalità (art. 7). Vi sono, poi, parti di norme statutarie che sono state modificate nel senso di un ampliamento dei destinatari, di un’integrazione dei loro contenuti, o di uno sviluppo e di un arricchimento dei principi insiti in esse (si pensi all’art. 36 sulla concessione di benefici a favore di imprenditori e nei capitolati di appalto). Vi sono, infine, norme statutarie che sono state modificate nel senso di un ridimensionamento delle tutele: si pensi alla parte relativa alla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo (art. 18); a quella relativa ai diritti del prestatore di lavoro concernenti le mansioni e i trasferimenti (art. 13, che ha modificato l’art. 2103 del codice civile); o alla norma storica (art. 4) sul divieto di controllo a distanza sull’attività dei lavoratori (su cui inizia ad esercitarsi la giurisprudenza).

Un diritto del lavoro di “difesa elastica”

Il diritto del lavoro dello Statuto del 1970 era il diritto di uno Stato pluriclasse, nel quale si ritiene che la classe lavoratrice sia quella che esprime valori generali (di solidarietà, ecc.). Fino agli anni ’90 la norma “motrice” della nostra materia poteva forse essere identificata nell’art. 3, comma 2, della Costituzione (principio di uguaglianza sostanziale). Tutti i temi che più ci interessano (il licenziamento, la democrazia industriale, la struttura contrattuale, lo sciopero, la tutela della sicurezza sul lavoro, il diritto processuale) potevano essere in qualche modo collocati dentro quella norma.

I valori che si sono imposti negli ultimi 35 anni – segnati dall’offensiva neoliberale – sono valori, da una parte, di produzione (indipendentemente dalla distribuzione ed a prescindere dalle conseguenze sull’ambiente naturale, sociale, antropologico), di realizzazione personale, di arricchimento, di un ritorno individualista. D’altra parte, c’è però la consapevolezza che tutto ciò non può essere senza briglie. Il valore centrale diventa nuovamente quello dell’impresa, anche a livello internazionale. La spinta fondamentale è quella a produrre: c’è un’accumulazione da fare. Ciò comporta – nei paesi dell’Europa avanzata – una tensione che il diritto del lavoro cerca di “gestire”. Si cerca di rendere compatibile la spinta produttivistica con dei livelli di dignità, di sviluppo e consumo a cui si è giunti in quelli che una volta si chiamavano Paesi sviluppati ed ai quali non si vuole rinunciare. In questa frizione/tensione si colloca tutto il diritto del lavoro in questi ultimi decenni.

Il diritto del lavoro di fronte all’uberismo

Nell’evoluzione del capitalismo, dopo il fordismo e dopo il toyotismo (o post fordismo), ora siamo di fronte a una terza fase di cambiamenti radicali del mondo economico e sociale: la “uberizzazione”, termine generico che si riferisce al crescente processo di digitalizzazione delle relazioni economiche nell’ambito di quello che chiamiamo il capitalismo delle piattaforme. C’è un nuovo processo di accumulazione del capitale proprio del capitalismo del XXI sec., con implicazioni fondamentali sulle relazioni economiche e sociali. Il lavoro “eteromato” (“Heteromated” labour)* può contribuire a trasformare il rapporto di lavoro e la natura dell’economia in un sistema di minuscoli periodi di lavoro economicamente preziosi che portano poco a chi lavora, ma che sostengono imprese ricche e potenti (Hamid R. Ekbia et Bonnie A. Nardi, Heteromation and Other Stories of Computing and Capitalism, MIT Press, 2017, p. 32; Adams Z., Countouris N. (2019), Heteromated labour in 21st century computing capitalism: A critical conceptualisation of ‘work’, ILO RDW Conference, 9 July 2019).

Ancora una volta è l’organizzazione della produzione che plasma le relazioni economiche e sociali. Per sociale intendiamo il diritto del lavoro, ma è chiaro che c’è una plasmarsi di tutta la società: dai sistemi educativi e formativi al loisir, alle relazioni interpersonali e familiari.

Come già negli anni ’80 e ’90, il diritto del lavoro è nuovamente sotto pressione per rispondere in maniera organica ai cambiamenti del capitalismo e della produzione, ma produce anche sacche di resistenza.

La “resistenza” di narrative alternative

Vi è dunque la richiesta, pressioni in questo senso, di rivedere il diritto del lavoro alla luce della governance, del governo degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale. Ma il diritto del lavoro produce anche “resistenze”. Si segnala negli ultimi 5 anni la ripresa di uno sforzo di elaborazione progettuale da parte di gruppi di studiosi/e (sovente vicini/e ai partiti della sinistra e del sindacato), che possiamo riassumere in tre narrazioni alternative a livello europeo:

  1. La proposta di legge di iniziativa popolare della  CGIL per una “Carta dei diritti universali del lavoro” (attualmente depositata in Parlamento): il diritto del lavoro con diritti fondamentali di base per tutti, non solo salariati, subordinati, ma anche lavoratori autonomi;
  2. La proposta francese del gruppo di studiosi/e GR Pact ((Groupe de recherche pour un autre Code du travail): una serie di proposte per espandere l’ambito di applicazione del diritto del lavoro, estendendolo oltre al lavoro dipendente, subordinato, a quello indipendente, con un’attenzione al concetto di lavoratore economicamente dipendente;
  3. La proposta britannica del “Manifesto for Labour Law”: l’idea di allargare il diritto del lavoro a tutte le persone che contribuiscono al labour , salvo gli imprenditori, coloro che impiegano altri, cioè coloro che contribuiscono ma da un versante capital intensive e non labour intensive

Per uno Statuto europeo dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori  

Di fronte alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, e di forte degrado degli standard di tutela, che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni (una precarizzazione che è stata “multiforme” perché ha colpito l’insieme del mondo del lavoro e non soltanto questo o quel segmento, e perché a tal fine ha utilizzato diverse vie e strumenti), si pone l’urgenza di definire uno “Statuto dei diritti universali del lavoro”, ma questa volta a livello europeo.

Il quadro europeo è in movimento. Il Commissario Ue al lavoro e ai diritti sociali Nicolas Schmit ha avuto il mandato di presentare una iniziativa legislativa volta a “migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori delle piattaforme”. Questa iniziativa dovrebbe essere presentata durante la presidenza portoghese del Consiglio dell’Ue (gennaio-giugno 2021).

Il diritto del lavoro dello Statuto del 1970 in Italia, come in altri paesi (ad es. la Spagna), aveva al centro il fatto dell’autonomia/subordinazione come categoria di distinzione fondamentale.

Ora dobbiamo chiederci se l’approccio basato sul concetto esclusivo di subordinazione, nel contesto in particolare della Gig economy, ci aiuti ad estendere le protezioni sociali e la contrattazione collettiva ad una platea più larga possibile di lavoratrici e lavoratori europei.

Qualunque strada si sceglierà di percorrere nell’elaborazione di uno Statuto europeo, occorrerà prima di tutto fare un’analisi, individuando anche nuove categorie dal momento che tutte quelle che sono state create per il lavoro del XIX secolo hanno stentato già nella seconda parte del XX secolo, ed ancora di più adesso. Bisognerà insomma leggere bene il cambiamento in atto nella sovrastruttura dell’uberismo, che è in parte un cambiamento sovrastrutturale, in parte un cambiamento del sistema capitalistico. Solo se – nella vasta area della Sinistra Europea – riusciremo a capire quali sono i cambiamenti del capitalismo con l’uberismo, potremo proporre un modello in grado di proteggere tutti coloro che lavorano.

Andrea Allamprese

* il termine “eteromato” è un neologismo composto da etero e automazione.

19/8/2020 https://transform-italia.it

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