Non chiamatelo smart working

Una risorsa per le aziende – con l’abbattimento di spese per i transfert e i buoni pasto, con la riduzione dei costi di energia e utenze e la possibilità di rimodellare gli ambienti e risparmiare anche su fitti e pulizia. Un rischio e un’opportunità per le lavoratrici e i lavoratori, che con il lavoro da remoto hanno potuto continuare a lavorare anche durante la chiusura di uffici e spazi pubblici, minimizzando il rischio dei contagi ma anche sperimentando un profondo senso di isolamento e di spaesamento per una modalità di lavoro da tanti accolta con stoicità eduardiana tra un “adda passà ‘a nuttata” e un “andrà tutto bene”.

È lo smart working, più propriamente il lavoro da casa, vissuto da 8 milioni di italiani durante il lockdown.

Prima dell’epidemia quanti avevano sperimentato tale forma di lavoro erano appena 570mila, secondo i dati dell’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano; al momento, con la riapertura sono ancora 3 milioni e mezzo le lavoratrici e i lavoratori da remoto.

Nella pubblica amministrazione sarà consentito fino al 31 dicembre al 50% del personale impiegato in attività compatibili di scegliere la modalità da remoto, in attesa che si attui il piano organizzativo del lavoro agile (Pola). In questo piano, il dicastero guidato dalla ministra Fabiana Dadone stabilisce che dal primo gennaio 2021 la percentuale di dipendenti in smart working dovrà salire ad almeno il 60% (per quei settori che consentono l’esercizio delle attività non in presenza); per il settore privato, salvo nuovi prolungamenti dello stato di emergenza, la possibilità di collocare le lavoratrici e i lavoratori a casa, in modo unilaterale e senza gli accordi individuali previsti dalla legge 81/2017, termina il 15 ottobre.

E se galeotto alla diffusione indisciplinata del “lavoro smart”, è stato lo shock determinato dal dilagare del Coronavirus, ora con il consolidamento della convivenza con il virus è necessario fare un primo bilancio e porsi un po’ di questioni. Una su tutte: possiamo davvero chiamare quello sperimentato da quasi un terzo della forza lavoro italiana smart working? 

L’indagine

A questa domanda ha provato a rispondere la prima indagine Cgil sul tema, promossa dall’area politiche di genere Cgil nazionale insieme alla Fondazione Di Vittorio, a cura di Simona Marchi. Realizzata durante le settimane immediatamente successive al lockdown, tra il 20 aprile e il 9 maggio, l’indagine Quando lavorare da casa è… smart?, è stata effettuata attraverso un questionario online che ha raggiunto 6170 partecipanti. Cinquantatré le domande sottoposte alle persone intervistate, – nel 65% dei casi donne, nel 35% uomini, con un livello di istruzione medio alto (diploma 52%, laurea 45%).

Scopo della ricerca era anche quello di rilevare le modalità di attivazione e gli aspetti organizzativi, informativi, gli strumenti, la competenza, gli aspetti psicologici (percezioni e atteggiamenti) e le condizioni personali e domestiche.

Cosa dicono i dati

Il 94% di quanti hanno risposto ha un rapporto di lavoro a tempo indeterminato; il 73%  svolge una funzione impiegatizia, il 20% è un quadro o funzionario, il 2% dirigente. Il 66% degli intervistati lavora nel settore privato. Il 34% nel pubblico. Il 22% lavora nelle regioni dell’area nord ovest, il 28% in quelle nord est, il 24% al centro, il 14% al sud, il 13% nelle isole. Il 64% degli intervistati ha un’età compresa tra i 35 e i 54 anni, il 29% è in quella tra i 55 e i 64 anni.

L’82% delle persone raggiunte dall’indagine ha cominciato a lavorare da casa con l’emergenza, di questi il 31,5% avrebbe scelto tale modalità anche prima dell’emergenza.

Prima della crisi da Covid, la diffusione dei progetti di smart working secondo un dossier elaborato dal Politecnico di Milano (ottobre 2019), si attestava al 58% nelle grandi imprese, al 12% nelle piccole e medie imprese e al 16% nelle pubbliche amministrazioni. Nelle grandi imprese, riporta ancora il dossier, i progetti di implementazione del lavoro agile erano per il 49% a regime e coinvolgevano mediamente il 48% della popolazione aziendale. Solo la metà dei progetti prevedeva anche una revisione degli spazi.

Figura 1. Dimensione professionale e organizzativa del lavoro da casa

Fonte: Indagine Cgil FdV, maggio 2020

Quello della postazione è un tema centrale come rivela l’indagine: il 50% delle/gli intervistate/i ha affermato di non avere a disposizione uno spazio ad hoc, provvedendo con mezzi propri ed espedienti a ricavarlo. Rispetto ai dispositivi il campione intervistato ha utilizzato in prevalenza dispositivi forniti dal datore di lavoro, la percentuale è più bassa tra le donne.

Diritto alla disconnessione e rispetto delle pause lavorative sono aspetti sorvolati dalla metà degli homeworker, più attenti all’attenzione al ricircolo d’arco (85%), alla tutela della privacy (73%) e alla correttezza della postazione di lavoro (66%)

Non è smart working

Sbagliato parlare di smart working, evidenzia il rapporto, tutt’al più possiamo definire quello realizzato durante il blocco delle attività un home working e cioè il mero trasferimento a casa delle mansioni lavorative effettuate in ufficio.

Per il 45% delle persone intervistate il rapporto di lavoro è diventato più complicato (+15%) o  pesante (+23%). Il cambiamento è percepito in maggioranza dalle donne che hanno trovato il lavoro da casa più oneroso (66%), complicato (69%), alienante (64%), stressante (65%). Dello smart working fa paura il fatto che si riducono sensibilmente le occasioni di confronto e scambio con i colleghi e l’aumento dei carichi familiari (71%).

Del resto, come ha affermato Susanna Camusso, “non si è trattato di uno strumento di conciliazione”. Tra gli uomini e le donne risulta più propensa all’home working la platea maschile.

Complessivamente il 60% degli intervistati vorrebbe proseguire l’esperienza di home working anche dopo l’emergenza, perché i tempi del pendolarismo sono abbattuti (mettendo in crisi il sistema di trasporti che rischia di vedere il proprio fatturato abbattuto del 17%, secondo alcuni dati pubblicati di recente dal Sole24ore); lo stress da lavoro correlato è ridotto ed è percepita positivamente la maggiore flessibilità e la possibilità di lavorare per obiettivi, dedicando parte del tempo all’aggiornamento personale.

Non tutti sanno come si fa

Quello della formazione e delle competenze è un altro dei temi rilevati dalla ricerca: la quasi totalità delle persone raggiunte ha rilevato la necessità di competenze specifiche per il ricorso al lavoro da remoto. In particolare rispetto a strumenti e tecnologie (69%); piattaforme e software (52%); organizzazione del lavoro (66%), gestione stress emotivo, ansia (40%). La formazione aziendale è intervenuta a supporto delle/degli “homeworker” in un ordine che potremmo definire residuale (tra il 2 e l’8%).

L’indagine ha consentito di definire quattro profili del lavoro da casa facendo intersecare su un ipotetico piano cartesiano i due assi della dimensione organizzativa e professionale. Improvvisato, desiderato, occasionale o governato: sono le quattro facce dello smart working vissuto dagli italiani durante il lockdown tra il disastro e l’opportunità di mettersi finalmente in gioco. 

Michela Aprea

11/0/2020 http://www.ingenere.it

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