I Pfas sono tossici. Ma allora perché sono ancora nell’acqua potabile?
Un incontro con alcuni dirigenti del ministero dell’Ambiente, una visita alla Camera dei deputati, una richiesta di colloquio all’Istituto superiore di sanità: assomiglia a un giro delle sette chiese la visita a Roma delle “Mamme no Pfas”, il gruppo nato nella provincia di Vicenza tre anni fa, quando un piano di sorveglianza sanitaria ha rivelato che bambini e adolescenti della zona hanno nel sangue valori impressionanti di sostanze perfluoro alchiliche, un gruppo di composti chimici notoriamente tossici e persistenti.
Quello dei Pfas in Veneto è uno dei casi di contaminazione industriale più ampi d’Europa (come racconta questo reportage). Ora la visita delle attiviste venete pone un problema non da poco: perché in Italia non esiste ancora una norma nazionale che fissi dei limiti a queste sostanze, nonostante che siano ormai riconosciute come tossiche?
Una falda idrica contaminata
La vicenda dei Pfas ha molti aspetti paradossali. Per riassumere: la falda idrica che corre tra le province di Vicenza, Verona e Padova è contaminata da composti tossici che vi si sono accumulati per decenni, in particolare scaricati da un’azienda chimica del vicentino (la Miteni, i cui dirigenti sono attualmente sotto processo a Vicenza). Da quella falda contaminata pescano gli acquedotti di 21 comuni, oltre a un numero imprecisato di pozzi privati a uso potabile; così una popolazione di circa 350mila persone nelle tre province venete è stata ed è tuttora esposta a dosi allarmanti di queste sostanze.
Un paradosso è che le famiglie del vicentino hanno scoperto solo nel 2017 che i propri figli hanno nel sangue quantità di Pfas dieci, venti volte più alti della soglia considerata tollerabile: eppure la prima notizia pubblica e ufficiale della contaminazione da Pfas nella falda idrica veneta risale al 2013. Ma per anni i cittadini si sono sentiti dire che non c’era nulla di cui preoccuparsi.
L’altro paradosso è che solo la regione Veneto ha fissato i suoi limiti (attualmente fissati in 90 nanogrammi per litro di acqua potabile per la somma di Pfos e Pfoa, non oltre 300 ng/l per tutti gli altri; nella “zona rossa” più contaminata il limite in vigore è attualmente zero). Per quanto riguarda le acque di scarico, la Regione Veneto ha cominciato un percorso per portarli a zero. Ma questo riguarda appunto il Veneto – non il resto del paese.
Limite zero
È proprio per questo che le “Mamme no Pfas” sono a Roma. In particolare chiedono al ministro dell’ambiente Sergio Costa di emanare una norma che fissi un limite zero di Pfas nell’acqua di scarico, e che sia un limite valido su tutto il territorio nazionale. (Le normative sugli scarichi competono al ministero dell’ambiente, mentre a quello della salute competono le norme sull’acqua potabile).
In effetti lo chiedono da anni, spiegano. Ora il ministero dell’ambiente sta elaborando un “Collegato ambientale” con nuove norme a tutela della salute: “Ma quando abbiamo letto il testo della proposta di legge abbiamo trovato che considera solo alcuni dei Pfas e non tutti. E fissa limiti molto alti, non il limite zero che ci era stato promesso”, spiega Michela Piccoli, una delle “Mamme”. Eppure, aggiunge, le norme europee sono sempre più stringenti. Di recente ad esempio l’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha rivisto i limiti raccomandati per le principali sostanze perfluoroalchiliche assimilabili attraverso l’acqua potabile e gli alimenti, riducendoli di quattro volte rispetto ai limiti emanati nel 2018.
“Avete passato il limite”, è scritto sullo striscione che le attiviste venete hanno appeso di fronte al ministero.
Risposte elusive
Martedì mattina, il 6 ottobre, tre rappresentanti delle Mamme no Pfas sono state ricevute dal capo della segreteria del ministro Costa e altri dirigenti del ministero. Con loro c’era anche una rappresentante del Comitato Stop Solvay di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, dove sono in produzione alcuni composti perfluoroalchilici di “nuova generazione”, per ora non considerati dalle normative benché ormai molti studi suggeriscano che sono altrettanto pericolosi.
“Abbiamo avuto l’impressione di una reale disponibilità a considerare le nostre proposte”, hanno poi riferito le attiviste.
In concreto, il gruppo delle Mamme No Pfas è stato invitato a far parte di un “tavolo tecnico” insieme alle altri parti coinvolte: tra cui la Confindustria, “che fa pressione in senso opposto a noi perché dice che quei limiti sono già fin troppo stringenti”, spiega Michela Piccoli.
“La salute non si compra con i soldi, va preservata e curata”, aggiunge Giovanna Dal Lago: “Noi siamo portatrici di un interesse comune. Primo, stiamo vivendo questo problema sulla nostra pelle; secondo, abbiamo studiato, ci siamo documentate. Vogliamo essere propositive, quindi staremo nel tavolo e discuteremo con tutti. Ma sulla salute non cederemo”.
La sigla Pfas indica almeno quattromila composti diversi, che si distinguono per la lunghezza della molecola in cui atomi di carbonio si legano al fluoro. Sono a molecola lunga il Pfos (acido perfluorottansolfonico) e il Pfoa (acido perfluorottanoico), brevettato nel ’51 dalla Dupont negli Usa (è la base del Teflon). Sono impermeabili a grassi e acqua, e per questo hanno infinite applicazioni industriali.
Sulla nocività di Pfoa e Pfos ormai non ci sono dubbi. Dal 2006 una direttiva europea classifica il Pfos tra le sostanze “altamente persistenti, con elevata tendenza al bioaccumulo e molto tossiche”, e dal 2009 il suo uso è sottoposto a restrizioni da un trattato internazionale (la Convenzione di Stoccolma). Inoltre l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dal 2016 classifica il Pfoa come possibile causa di cancro al testicolo e al rene.
Marina Forti
6/10/2020 https://www.terraterraonline.org
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