La borsa o la vita. La logica delle multinazionali del farmaco
La borsa o la vita. La logica di “big pharma” – le multinazionali del farmaco – è l’esatto contrario di quanto prescritto dal giuramento di Ippocrate: curare chiunque, al meglio delle proprie capacità.
Ma la logica del profitto e quella della medicina sono separate ormai da tempo. Di più: tutte le innumerevoli “autorità” nazionali e sovranazionali, persino quelle statunitensi o dell’Onu, sono assolutamente impotenti contro imprese “senza nazione” che brutalmente dicono “questo è il prezzo; se ce li avete, bene, se non crepate pure”.
La motivazione avanzata da questi Mengele apolidi è sempre la stessa: “la ricerca costa, senza profitti non possiamo finanziarla, quindi se non facciamo profitti non possiamo neanche fare progressi e trovare nuovi farmaci”. Sorvoliamo sull’esempio storico e concreto di Cuba, che finanzia una ricerca pubblica tale da collocare la sanità della piccola isola ai vertici mondiali dell’efficacia (sia mai detto che “i comunisti” funzionino meglio del “privato”), e concentriamoci sulla domanda: “quanto costa la ricerca per un farmaco?”.
Sappiamo già la risposta retorica: “non si può sapere prima, si investe in ricerca di base, possono passare anni prima che si arrivi a una soluzione da mettere in produzione, ecc”. Verissimo, non si può sapere prima.
Ma dopo sì. A consuntivo, come si dice in gergo aziendale, si sa esattamente quanto si è speso, in quanto tempo, qual’è il mercato potenziale (il numero di malati nel mondo curabili con quel farmaco, e anche i livelli di reddito relativi). Si può dunque agevolmente stabilire un prezzo non diciamo “equo”, ma anche altamente redditizio senza toccare cifre assurde. Quelle che girano di questi tempi per farmaci “innovativi”. Non stiamo parlando di malattie rare, di quelle che colpiscono magari cento persone in tutto il mondo, ma di quelle che stanno devastando e uccidendo decine di milioni di esseri umani; camcro, epatite C, ecc.
Facciamo dunque l’esempio del farmaco rivoluzionario che, a detta di tutti i ricercatori del settore, cancellerà per sempre l’epatite C dal novero delle malattie di massa, com’è stato per vaiolo, lebbra, colera, peste, ecc.
Si chiama sofosbuvir, ma è universalmente noto come Sovaldi, il nome commerciale scelto dalla multinazionale Gilead. La sua scoperta, per ammissione della stessa multinazionale che ha rilevato la società autrice per davvero della ricerca, la Pharmassett. In tutto sono stati spesi 62,4 milioni. Bella cifra, certamente, ma praticamente pari al numero dei malati di epatite C nel mondo. Mettiamoci anche i costi di produzione, impacchettamento, trasporto (quelli della pubblicità no, perché tutti gli interessati sanno di cosa si sta parlando)… diciamo che la Gilead investirà un miliardo? Va bene.
Soltanto in Italia coloro che hanno contratto l’epatite C, a vari stadi di evoluzione della malattia, sono circa un milione e mezzo. Diciamo perciò che se l’intero trattamento per tutti questi malati venisse pagato 1.000 euro a testa, soltanto il mercato italiano garantirebbe a Gilead mezzo miliardo di profitti. Poi c’è il resto del mondo, naturalmente…
Invece la Gilead ha messo un prezzo orientativo alquanto diverso: 80.000 dollari, circa 70.000 euro, a trattamento. Avete letto bene.
Poi, naturalmente, sono cominciate le differenziazioni d apaese a paese. Neli Stati Uniti – con una sanità del tutto privatizzata (a parte i pronto soccorso, che ovviamente non curano le malattie croniche) – il prezzo è salito ancora un po’, fino a 84.000 dollari. In Egitto invece, con decine di milioni di malati, è sceso a 900. In Italia, il ministero della Sanità è riuscito a “strappare uno sconto”: 37.000 euro a trattamento. Ovvio che a queste cifre, se si dovessero curare soltanto i malati all’ultimo stadio (quello dopo la cirrosi), ovvero 300.000 persone, ci vorrebbe 11 miliardi. Oltre il triplo della spesa per farmaci di tutto il sistema sanitario nazionale. Un’enormità che fa quasi ridere, se la si mette a confronto con la seriosità con cui qui si discute di “ridurre gli sprechi”, ovvero risparmiare quanche decina di milioni sulla spesa farmaceutica attuale.
Il ministero italiano ha risolto il problema… all’italiana. In pratica, il Sovaldi verrà somministrato soltanto a chi è in punto di morte (nel paese muoiono di epatite C circa 10.000 persone l’anno). Ma non è chiaro in quali ospedali è possibile ricevere “il miracolo”. Né ha una qualche logica medica la somministrazione del farmaco insieme all’estrema unzione. Le regole base della medicina vorrebbero che la somministrazione avvenisse soprattutto nelle prime fasi di sviluppo della malattia, quando basterebbe probabilmente un trattamento meno invasivo e ripetuto (quindi meno costoso).
Ma lasciamo perdere gli sragionamenti fatti dallo staff della ministra Lorenzin, che mette mano su problemi di questa complessità senza aver mai neanche ottenuto una laurea qualsiasi.
Concentriamoci sulla dinamica capitalistica che questa forma di “commercializzazione” dei farmaci illumina. C’è una o più multinazionali che hanno concentrato la conoscenza relativa ad alcuni studi e cercano di ottenere da questa conoscenza profitti al di fuori di qualsiasi “saggio” capitalisticamente sensato. Uno schiaffo soprattutto ai “capitalisti normali”, che invece debbono arrabattarsi in settori più esposti alla concorrenza, quindi obbligati a contenere i prezzi verso il limite più basso della profittabilità.
La borsa o la vita. Punto e basta. Io ho qual che vi può tenere in vita, ma se vuoi restare vivo mi devi dare tutti i tuoi averi (pe qualcuno, pochi, sarà un po’ meno, per la maggioranza degli esseri umani sarà semplicemente una cifra impensabile). Qui siamo già oltre e fuori la “logica di mercato”. Siamo in una situazione di monopolio – garantito da brevetto – che tendenzialmente elimina qualsiasi correttivo al ribasso dei prezzi e quindi delle “plusvalenze”.
Non è possiibile alcuna mediazione con questa logica, ma soltanto un conflitto aperto (oltre la “legalità in vigore sui mercati globali”). E infatti diversi paesi, con governi meno vili di quello italiano, hanno immediatamente risposto rifiutandosi di riconoscere il brevetto di Gilead e invitando pubblicamente a “copiare” il Sovaldi, promettendo porte aperte a chiunque sia in grado di riprodurlo – per l’immenso mercato indiano, per esempio – al prezzo di 100 dollari a trattamento. Magari potrebbe riuscirci Cuba…
Claudio Conti
2/3/2015 www.contropiano.org
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