Ancora a proposito di Rider

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Anche se (ormai) il nostro Paese ha, da molto tempo, smesso di essere patria di santi, poeti e navigatori, resta pur sempre ancora in grado di stupire il mondo.
In questo senso, ad esempio, non è possibile restare indifferenti di fronte al patetico spettacolo offerto da:
1) Giorgia Meloni, che la scorsa estate inveiva contro le misure governative per arginare la pandemia e invitava gli attoniti stranieri a venire a trascorrere le ferie in Italia e oggi, di fronte alla tragica “fase 2” del Covid-19 continua a strepitare contro il ritorno all’inevitabile istituzione delle c.d. “zone rosse”;
2) da Matteo Salvini, che mostra la non comune dote di essere capace – comunque e rispetto a qualsiasi tipo argomento – di dire tutto e il contrario di tutto nell’arco della stessa giornata!

Ma non è mia intenzione commentare le squallide esternazioni di rappresentanti politici fascio/leghisti rispetto ai quali “nani e ballerine” della prima Repubblica assurgerebbero, oggi, al ruolo di rispettabili statisti.
Intendo riferirmi a fatti che, anche se hanno poco da spartire con la politica, concorrono a determinare la credibilità nelle Istituzioni di un Paese “normale”.

È il caso della già corposa letteratura – normativa e giudiziaria – fin qui prodotta da un fenomeno strettamente connesso alla gig-economy e, quindi, relativamente nuovo: i “ciclofattorini” del XXI secolo; i rider, per intenderci.

Ma chi sono i rider e come lavorano?
Il sito web “Osservatorio Diritti” li definisce quali “ragazzi, ma anche over 40 che tramutano un ordine su Internet – di cibo ma non solo – in una consegna a domicilio. Situazione che ricorda i fattorini che hanno sempre trasportato pizze a domicilio, previo ordine telefonico del cliente, ma è un po’ diversa perché un rider va “dove lo porta l’ordine”; un ristorante cinese, un fast food o una pizzeria che, di norma non sono sempre gli stessi”.

“Il datore di lavoro non è l’esercizio commerciale (ristorante o pizzeria che sia) ma una piattaforma on-line di food-delivery, di consegna cibo a domicilio. Deliveroo, Glovo, Uber Eats, Just Eat, i marchi più noti, che garantiscono, in molti casi, consegne 24 ore su 24”.

“Tutto viene gestito tramite un’applicazione e un pc. Da quando ci si candida a quando si firma il contratto. Talvolta dal vivo, ma la maggior parte delle volte è tutto virtuale; si firma il contratto e si è pronti a lavorare quale rider”.

“Gli sono rappresentati dal cassone o dalla valigia per le consegne, dalla pettorina e dal porta smartphone da polso, spedito a casa in comodato d’uso o con una cauzione pari, di norma, a 65 €”

“Naturalmente, la bici o la moto non sono fornite dal committente e la loro manutenzione è a carico del singolo rider”.

In più, come dichiara Angelo Jiunior Avelli, di “Deliverance Milano”, il Collettivo autonomo di fattorini e Sindacato sociale organizzatosi nel capoluogo lombardo, “Ogni rider ha un punteggio legato all’affidabilità e qualità. La prima è determinata da ristoratori e clienti che lasciano una recensione sul lavoro svolto, dipende anche dal fatto che hai preso un turno e lo rispetti o, se non puoi, che almeno avvisi per tempo. Dipende anche dalla disponibilità: più sei disponibile più lavori”.
E ancora: “Pure i rider hanno un ranking, una sorta di classifica che viene determinata da un algoritmo. L’essere disponibile nelle ore calde, per intenderci dalle 20 alle 22, determina anche la possibilità di scelta dei turni; se hai il punteggio più alto, hai la priorità nello scegliere i turni che vuoi nella settimana successiva”.

A questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi se un rider – con qualunque food delivery collabori – possa, comunque, rifiutare di effettuare una consegna che dovesse ritenere, per qualsiasi motivo, “non gradita”?
Angelo Avelli risponderebbe di certo in modo affermativo.
Salvo, poi, aggiungere che tale rifiuto “avrebbe, però, concrete conseguenze rispetto al rating (1) personale; con immediata assegnazione di un minore grado di “affidabilità” (con tutto ciò che ne consegue).

Detto questo, è opportuno rilevare che (inevitabilmente) nel tempo e parallelamente all’ampliarsi del fenomeno e dell’aumento del numero dei soggetti coinvolti, è sorto il problema relativo alla corretta “natura” e, quindi, qualificazione, del rapporto di lavoro instaurato dai rider.
In particolare nel corso degli ultimi due/tre anni, si è sviluppato un ampio confronto tra i sostenitori della natura “autonoma” dell’attività dei rider e tra coloro che, invece, ritengono si tratti, in sostanza, di una tipologia di lavoro subordinato.

Rinviando qualche lettore – eventualmente più interessato al tema – a mie precedenti considerazioni (2), riporto che già due sentenze (in particolare), del 7 maggio 2018 e del 10 settembre dello stesso anno, emesse, rispettivamente, dai Tribunale di Torino e poi di Milano, avevano ritenuto di dover considerare le prestazioni offerte dai rider (almeno quelle dei ricorrenti; dipendenti di Foodora e di Glovo) rientranti tra quelle di natura “autonoma”.

Nello spazio di pochi mesi seguirono interessanti sviluppi.
Prima di approfondire gli stessi, però, è interessante fornire informazioni aggiuntive sul tema; in particolare, rispetto al confronto sviluppatosi tra gli “addetti ai lavori”.
Il Professore Francesco Bacchini (3), docente di diritto del lavoro presso l’Università di Milano-Bicocca, ad esempio, “prescindendo da qualsivoglia indagine sul merito delle due suddette sentenze”, si limitava ad approfondire le tutele residuali assicurativo-previdenziali e di salute e sicurezza, comunque applicabili ai rider in qualità di lavoratori autonomi.

Identica posizione – nella definizione del carattere autonomo della prestazione lavorativa offerta dai rider – esprimeva il più noto Pietro Ichino (4).
Il suo convincimento, in estrema sintesi, era dettato dalla seguente considerazione: “Se il contratto lascia libero il lavoratore di presentarsi al lavoro o no, e anche quando si è presentato lo lascia libero di rispondere o no alla chiamata, questo assetto del rapporto è incompatibile con la subordinazione”!
Come se non fosse già a tutti sufficientemente noto che un’assenza volontaria – non adeguatamente giustificata – o il rifiuto di rispondere a una chiamata, rappresentino elementi di “inaffidabilità” e conseguente penalizzazione, in termini di rating, per il rider in questione!

Una grave sottovalutazione (quella di Ichino), se non una strumentale dimenticanza del teorizzatore della sostanziale “liberalizzazione” dei licenziamenti individuali senza giusta causa e di quelli collettivi (anche se “viziati”, per colpe ed omissioni dei datori di lavoro).
D’altra parte, a mio parere, non c’era nulla di diverso da aspettarsi da parte del co/inventore (5) dell’infausto “contratto di lavoro a tutele crescenti” che, a fronte di un risarcimento monetario, ha definitivamente cancellato la possibilità di sottoscrivere i rapporti di lavoro “a tempo indeterminato” di antica memoria.
Successivamente, la Corte di appello di Torino (6) aveva accolto il ricorso degli ex dipendenti Foodora e, nel confermare il carattere autonomo del rapporto di lavoro, sancito, però, che “In termini di sicurezza, inquadramento professionale, limiti di orario, ferie e previdenza” i rider avevano diritto allo stesso trattamento dei lavoratori subordinati.

Il passo successivo, fu di carattere politico.
Si realizzò, infatti, un decreto legge (7) attraverso il quale il Legislatore, modificando la norma prevista dall’art. 2 del Decreto legislativo del 15 giugno 2015, nr. 81, accoglieva la “sostanza” della decisione della Corte di appello di Torino ed estendeva la disciplina dei rapporti di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione caratterizzati da prestazioni lavorative prevalentemente personali ed organizzate dal committente (nonché piattaforme anche digitali).

Un altro importante “tassello” fu posto, ad inizio 2020, da una sentenza della Corte Costituzionale (8) che, a seguito del ricorso presentato dalla multinazionale tedesca Foodora – nel frattempo assorbita da Foodinho – confermò quanto sancito dalla Corte di appello di Torino affermando: “Le prestazioni dei rider rientrano tra le collaborazioni etero-organizzate alle quali va applicata la disciplina del lavoro subordinato”.
Rientrava, evidentemente, in questa logica la sentenza del Tribunale di Firenze (9) che, accogliendo il ricorso di un driver dispose l’obbligo, per la piattaforma di food delivery “Just Eat”, di consegnare al lavoratore i previsti dispositivi di protezione individuale (mascherina, guanti monouso e gel disinfettante); al pari di qualsiasi altro lavoratore subordinato.
Ciò nonostante, ancora oggi, non sono pochi coloro (10) i quali insistono nel ritenere che i rider debbano essere considerati lavoratori autonomi a tutti gli effetti; senza alcun tipo di equiparazione al lavoro subordinato.

Lo stesso Ichino, alla vigilia della conversione in legge del decreto 101/2019, si esprimeva, addirittura, in termini di smania protettiva (dei consiglieri del Ministro del lavoro, nei confronti dei rider) e di “colpo di mano normativo”.
Particolarmente impegnato, nel ruolo di “guastatore”, rispetto all’ipotesi di un allargamento delle tutele a favore dei rider, è Nicolò Montesi, fondatore e presidente dell’ANAR (Associazione Nazionale Autonoma Riders).
In sostanza, la rivendicazione della natura autonoma del rapporto di lavoro, instaurato tra i rider e le diverse piattaforme, è basata, secondo Montesi, su due aspetti:

. “Il rider decide se, quando e quanto lavorare”.

. “La multi committenza. Ogni rider può decidere in autonomia con chi e con quante piattaforme collaborare.”

Cosa dire, di fronte all’apoteosi dell’ipocrisia; se non della semplice menzogna (11)?

Chiunque, in effetti, si rende conto che i due punti sono strettamente interconnessi e, alla luce della pur breve storia di questo comparto che definiamo della gig economy, è sin troppo facile rilevare la oggettiva impossibilità per il rider di rifiutare una consegna (se vuole continuare ad essere chiamato) e, contemporaneamente, di poter – effettivamente – operare in regime di multi committenza (nel senso di poter essere disponibile a rispondere alle chiamate di due diverse piattaforme durante lo stesso turno di lavoro); pena: la sistematica ed inevitabile penalizzazione in termini di rating.
Non senza sorpresa, il 15 settembre scorso, intanto, a circa un anno di distanza dall’entrata in vigore della legge 128/2019 – che prevedeva il confronto tra le parti e la sigla di un contratto collettivo per i rider entro il corrente mese – tra il sindacato Ugl (con il supporto di ANAR) e Assodelivery, l’associazione della quale fanno parte Deliveroo, Glovo, Just Eat, Uber Eats e Social Food, è stato siglato il “Contratto collettivo nazionale per la disciplina dell’attività di consegna di beni per conto altrui, svolta da lavoratori autonomi”.
Le reazioni sono state immediate.
All’entusiasmo di Nicolò Montesi non ha corrisposto né quella del Ministero del lavoro né quella delle tre maggiori Confederazioni sindacali.

In estrema sintesi, l’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro ha contestato ad Assodelivery sia l’esigenza del rispetto di quanto previsto dalla legge 128/2020 – cioè la necessità che il confronto avvenga con le OO.SS. “maggiormente rappresentative” sul piano nazionale e non solo con l’UGL – sia alcuni aspetti di merito relativamente ad alcuni articoli di cui al CCNL sottoscritto; a partire già dalla qualificazione della fattispecie (lavoratori autonomi), che non spetta alle parti contrenti ma “al giudice in applicazione della legge”.

Altrettanto decisa e determinata è stata la posizione assunta da Cgil, Cisl e Uil che hanno chiesto un immediato confronto in sede ministeriale (12).
Alla netta presa di posizione del ministero e delle tre Confederazioni nazionali hanno, immediatamente, fatto da contraltare i “soliti noti”; ma questo è un aspetto marginale che può tranquillamente essere accantonato.
Ciò che interessa è quello che accadrà in seguito all’incontro tra le parti; già fissato dalla Ministra Catalfo per il giorno 11 del corrente mese.
Giova, intanto, rilevare che lo scorso ottobre il Pm di Milano ha chiuso le indagini per caporalato ai danni dei rider per la consegna di cibo a domicilio. Lo scorso maggio le indagini avevano indotto il Tribunale a disporre il commissariamento di Uber Italy, filiale del colosso americano.
Secondo l’accusa (13) “i rider venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione sia per quanto riguarda la retribuzione14 sia il trattamento di lavoro”.
I lavoratori venivano anche “derubati” delle mance che i clienti lasciavano loro e “puniti”, attraverso un’arbitraria decurtazione del compenso, qualora non si attenessero alle disposizioni impartite.

Tra gli indagati anche dirigenti di società che reclutavano i rider assumendoli presso le loro imprese per poi destinarli al lavoro presso Uber Italy “In condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno di lavoratori migranti, richiedenti asilo, dimoranti presso centri di accoglienza e provenienti da zone di guerra e pertanto in condizioni di estrema vulnerabilità e isolamento sociale”.
In questo quadro, riesce difficile concordare con Walter Galbusera15 quando, al fine di porre fine al contenzioso rispetto alla corretta qualificazione del rapporto di lavoro da applicare ai rider, avanza la proposta di produrre una sorta di “doppio binario”; da un lato lavoratori “autonomi” (volontari) e, dall’altro – così come per tanti tassisti – la costituzione “di cooperative di rider autogestite di cui i lavoratori fossero nello stesso tempo soci e dipendenti e che si sostituirebbero al singolo nel rapporto con le piattaforme”.
Si tratterebbe, però, a mio parere, di una semplice “scorciatoia”; utile solo per eludere il problema di fondo; non certo per risolverlo.
Tra l’altro, conosciamo sin troppo bene le condizioni di lavoro e le vessazioni cui devono già sottostare decine di migliaia di lavoratori (penso, in particolare, al settore delle pulizie e operatori OSA e OSS) formalmente dipendenti di fantomatiche e pseudo cooperative che operano sia nei settori privati che pubblici.

NOTE

1- Opportuno precisare che il rating esprime una valutazione in base a parametri fissi che concorrono a determinare una scala di valori; mentre il ranking rappresenta la singola posizione in una classifica “chiusa”
2- Fonte: “I rider e l’istigazione al suicidio”; pubblicato sul numero di giugno 2020 del mensile Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org
3- Fonte: “Riders=Lavoratori autonomi: con quali tutele”; pubblicato dal sito IPSOA del 5 gennaio 2019
4- Fonte: Intervista a cura di Oscar Serra, pubblicata il 26 giugno 2018 sul sito “Lo Spiffero”
5- Un’ipotesi di contratto, più o meno simile, ma con il pregio di rappresentare solo una sperimentazione triennale, era già stata redatta da Tito Boeri; il non compianto Presidente dell’Inps
6- Sentenza del 4 febbraio 2019, nr.26
7- Decreto legge del 3 settembre 2019, nr. 101, convertito, con modificazioni, nella legge 2 novembre 2019, nr. 128
8- Sentenza del 24 gennaio 2020, nr. 1663
9- Sentenza del 1° aprile 2020, nr. 866
10- Fonte: “Fondazione Anna Kuliscioff”; sito web
11- Fonte: “Il rider è e vuole essere un lavoratore autonomo”; MdL nr.70/2020 (Fondazione Anna Kuliscioff)
Di questo renderemo conto successivamente
12- Fonte: “Il Messaggero” on-line del 12 ottobre 2020
13- Pagati a cottimo 3 € a consegna, indipendentemente dalla distanza da percorrere, dal tempo atmosferico e dalla fascia oraria (diurna/notturna e giorni festivi)
14- Fonte: “Fondazione Anna Kuliscioff”, del 5 novembre 2020

Renato Fioretti

Esperto Diritti del Lavoro. Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

Articolo pubblicato sul numero di novembre del mensile

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In versione interattiva http://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-novembre-2020/

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