I disabili e la pandemia. Lettera aperta di un padre
Caro Presidente Mattarella, caro Presidente Conte, caro Ministro Speranza, carissimo Papa Francesco.
Sono una delle centinaia di migliaia di caregivers che non fanno notizia. Appartengo a quel popolo di invisibili di cui ci si occupa, quando va bene, sotto le feste di Natale o in occasioni particolari che, per il loro carattere simbolico, garantiscono una rassicurante esposizione mediatica (non è casuale che mentre scrivo mi venga in mente il 2 aprile, giornata mondiale di sensibilizzazione dell’autismo ma anche carosello vorticoso di promesse mai mantenute).
Ho citato la data del 2 aprile proprio perché ho un figlio autistico, interdetto, che vive in una RSD. Come potrei pretendere che oggi, per di più in piena emergenza Covid, ci si occupi di lui (ha quarant’anni, Presidente Conte, solo una quindicina meno di Lei. Quanto diverse sono le vostre… carriere) e di un genitore di 71 anni che vive da solo, dopo che un ictus ha colpito la madre di Gabriele, nostro figlio, costringendola a un ricovero prematuro in una RSA?
Scrivo alcune riflessioni a nome di chi, come Gabriele, non ha voce. Scrivo, forse, anche a nome di tante persone che, in questo abisso dimenticato, soffrono quanto lui e più di lui.
Ci sono disabili e anziani segregati da mesi all’interno di strutture talvolta fatiscenti e insicure, di cui si prende frettolosamente nota solo quando la quantità di morti raggiunge un numero talmente “interessante” da garantire un’audience elevata nei Tg e talk show televisivi e perché no? “persino” in qualche interpellanza parlamentare. Poi ci sono tanti altri, altrettanto emarginati e soli: i senza fissa dimora, quelli che a causa del Covid hanno perso il lavoro, i “nuovi poveri” in giacca e cravatta. Eccetera. Tutte persone che non rientrano nelle statistiche ufficiali, non fanno numero né rumore. A chi importa se dormono tra i cartoni sui marciapiedi, se rovistano nei cassonetti della spazzatura alla ricerca di un cibo non completamente avariato, se si mettono in fila per consumare un piatto caldo già alle 11 del mattino davanti alle mense Caritas? Di loro, possiamo esserne certi, si parlerà solo tra qualche settimana quando qualcuno – come accade sempre – sarà trovato morto, sotto un ponte, a causa del gelo. E comunque siamo di fronte a una costante, non certamente a un fenomeno stagionale. In estate, quando fuori erano ampiamente “tollerate” movide, discoteche, spiagge affollate, viaggi all’estero… a rimanere “intollerati” erano solo i disabili e gli anziani segregati nelle strutture. Ultimi tra gli ultimi: questo è il loro copyright.
È giusto ricordare che ai disabili autistici sono stati permessi, e solo in poche regioni (chissà perché non in tutte…, questa “libertà” si chiama “autonomia regionale”?), brevi rientri a casa solo dopo la seconda metà di agosto, al termine di una lunga vittoriosa battaglia di cui qualcuno, qui in Piemonte dove vivo, mi accredita persino piccoli meriti per l’impegno che vi ho profuso. Eppure la specificità e la complessità della patologia autistica avrebbero potuto e dovuto suggerire ovunque – posso dire imporre? – il contrasto di ogni forma di isolamento sociale, prima ancora di qualsiasi altro intervento. Sarebbe stato necessario non smarrire i contatti con i familiari, con il contesto affettivo, con ciò che rimane di una vita segnata da dolorose e pesanti rinunce.
Dalla fine di settembre, con l’avallo di presidenti di regione e assessori alla salute, che presumibilmente in vita loro non hanno mai visto un autistico in carne e ossa, sono state emanate ordinanze del tutto disattente alle caratteristiche dello spettro autistico. Per gli autistici ciò ha significato, e significa, nessuna terapia, nessuna riabilitazione, nessun rientro a casa, nessuna visita in struttura, nessuna attenzione ai loro stati d’animo, quasi ne fossero sprovvisti o non vivessero appieno le emozioni come chiunque altro.
Parliamo di persone i cui i deficit di relazione e comunicazione rappresentano una cifra importante, essendo due tra le principali compromissioni. Ebbene: oggi, in assenza di contatti con i familiari, l’unico loro riferimento è tornato a essere quello di operatori che indossano la mascherina e la visiera. Tanti che si aiutano col labiale non capiscono una sola parola di questi interlocutori e non riconoscono nemmeno il viso di chi hanno di fronte…
Quale benessere maggiore potrebbero trarre rispetto a quello garantito da brevi periodi di serenità vissuti a casa? Lo so, si risponderà a questa domanda recuperando il solito adagio che torna buono per ogni occasione: «Si fa per ridurre i rischi di contagio»… Parole e frasi diventate un mantra, una sorta di coperchio buono per tutte le minestre, destinato a coprire qualsiasi cosa, anche la più oscena, incomprensibile e indifendibile. «Ridurre i rischi»? Chi glielo spiega, allora, a Gabriele, come mai è risultato positivo al Covid e costretto a un deleterio periodo di isolamento, con l’aggiunta di un doppio tampone molecolare (pratica altamente invasiva. Cosa si aspetta ad accelerare il processo di validazione di uno screening salivare?) che ne ha ulteriormente aggravato la condizione psico-fisica? Chi gli ha trasmesso la positività al Coronavirus visto che né lui né altri sono più tornati a casa? C’è relazione con la grave crisi che ha avuto i giorni successivi nel corso della quale – riporto testualmente le parole dell’interlocutore della struttura che mi ha telefonato – è apparso «disorientato», «confuso», «assente», prima di perdere i sensi e accasciarsi? La mia risposta è «sì». Sono assolutamente convinto che questo è il prezzo che si paga (o meglio: quello che pagano tutti “i” Gabriele) a un sistema di cattività disumano e ingiusto, che esige un immediato cambiamento di rotta per non produrre danni ancor più devastanti.
Questa drammatica realtà non riguarda solo le RSD ma anche tantissime RSA per persone anziane, dove il Covid continua a galoppare, nonostante gli ospiti siano reclusi da febbraio.
Mi si permetta di dire che ritengo sbagliata e pretestuosa la divisione che viene fatta tra RSA e RSD. Comune è innanzitutto il fatto che parliamo di persone fragili e indifese: pensare che il dato anagrafico cancelli torti e violazioni di diritti è un’operazione squallida nel migliore dei casi, penosamente falsa nel peggiore. Parliamo di essere umani, non di sigle. Parliamo di donne e uomini, marginalizzati, mortificati nei loro sentimenti più intimi, offesi nella loro dignità. Parliamo di persone perbene, che hanno dedicato la loro esistenza al lavoro e alla famiglia, a cui viene vietato persino di incontrare i propri cari, ricevere una carezza, scambiare un sorriso. Quanti anziani sono morti in queste strutture, e continuano a morire, per solitudine?
È indispensabile che i familiari di persone ospitate in RSA e RSD rifiutino questa odiosa divisione che li rende inevitabilmente più deboli. Facciano fronte comune, si oppongano con tutte le loro forze a una realtà che condanna i loro cari all’oblio e all’abbandono. In gioco è la sopravvivenza di persone cui vengono negati bisogni e diritti primari.
La manifestazione che si è tenuta a Roma il 13 novembre, davanti al ministero della salute, aveva come filo conduttore «Il diritto alla continuità affettivo relazionale con i parenti degli anziani e disabili nelle RSA ed RSD». Stanno nascendo coordinamenti regionali che, spero, possano presto confluire in un soggetto nazionale in grado di dar vita a una grande mobilitazione. Tutti devono prendere coscienza della gravità della situazione. È scritto nella pagina web del Comitato Nazionale Familiari RSA RSD – Sanità: «Le persone anziane nelle RSA non sono al 41 bis. Chiediamo dignità e cura».
Per impedire la morte sociale delle fasce più vulnerabili della popolazione – hanno acutamente osservato Milena Gabanelli, Mario Gerevini e Simona Ravizza, in un’analisi assai attenta e particolareggiata che è possibile trovare nell’articolo pubblicato su corriere.it, con il titolo esemplificativo Anziani e Covid, perché le RSA sono un affare solo per i privati – «devono essere definite da subito regole severe di accreditamento, da fare rispettare pena l’espulsione dal sistema. È necessario l’arruolamento di figure professionali adeguatamente formate e una generale riqualificazione professionale degli operatori sanitari». Personalmente aggiungo a queste richieste l’adeguamento di risorse materiali e umane, al passo con la complessità della situazione, e la riorganizzazione complessiva delle strutture che, in particolare nelle RSD, deve consentire la realizzazione di quel progetto individuale di vita di cui tutti comprendono il bisogno e l’urgenza ma che ad oggi rimane una chimera.
Chi è investito di alte responsabilità istituzionali, più che limitarsi a sciorinare dati e tabelle di cui nessuno comprende il significato, si affidi a tecnici realmente competenti (ma anche ad associazioni di familiari come ANGSA, di riconosciuta e provata esperienza) in materia di problematiche socioeducative e sanitarie nell’autismo.
È tempo di realizzare una cabina di regia unica, che ponga finalmente fine allo stucchevole palleggiamento di responsabilità tra Stato e regioni e a quello tra regioni e direzioni socio sanitarie delle strutture, alle quali si lascia il cerino in mano solo per paura di scottarsi. Siamo spettatori impotenti di uno scaricabarile che stanca e deprime. Serve definire un vero orizzonte strategico. Nulla a che he vedere con i giochi di Palazzo, perché quello che abbiamo davanti è tutt’altro che un gioco.
Se nell’adozione delle misure di contrasto alla pandemia, messe in campo dal Governo, è stato giusto evidenziare le esigenze del “tessuto produttivo” altrettanto dev’essere fatto per quelle che rientrano nel “tessuto umano”. È urgente, insomma, rimettere al centro degli interventi le persone. Occorre proteggere gli anziani e i disabili, non isolarli, non lasciarli soli, permettere loro incontri con i familiari nelle strutture, rientri controllati a casa, con la garanzia di un giusto bilanciamento tra la tutela della salute e il rispetto che si deve ad ogni essere umano. È necessario cambiare immediatamente paradigma privilegiando i bisogni e i diritti, dando ad essi concretezza e applicazione. Per effetto di scelte sbagliate possono determinarsi danni irreversibili nel fisico e nella mente, che non potranno mai essere riparati con bonus e interventi monetari.
«Saremo vicini alle persone con disabilità» – ha dichiarato di recente il premier Giuseppe Conte. Perché non siano parole vuote e di circostanza i nostri figli, e i familiari con loro, si aspettano misure incisive, vincolanti e rispettose.
L’Italia ha una serie di eccellenti leggi in materia di welfare, probabilmente tra le migliori al mondo: peccato che siano applicate solo in minima parte. Premesso che non può interessare a nessuno lo sterile dibattito sulla responsabilità maggiore o minore di questo o quel Governo, cito alcuni esempi di leggi fantasma: la 328/2000 sul progetto di vita, la 68/1999 su disabilità e lavoro, la 134/2015 sull’autismo, la 112 del 2016 sul dopo di noi… Mi fermo qui solo per esigenze di spazio, non senza aver ricordato il colpevole mancato rispetto dell’articolo 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e quello della Convenzione ONU sui diritti delle persone disabili (si veda in particolare l’art. 9).
Chiudo rivolgendomi a te, Gabriele caro. Questa lettera, indirizzata alle massime autorità dello Stato e a Papa Francesco, finisce qui. Non finisce, invece, la tua e la mia battaglia, ciascuno nella modestia di ciò che rappresentiamo e di quanto riusciremo e sapremo fare. Resisti, ti prego, dammi la forza per andare avanti. Aiutami a far capire che per essere “realmente” vicini alle persone più fragili e alle loro famiglie è indispensabile che i diritti non siano affermati solo sulla carta, ma vengano riconosciuti, rispettati e soprattutto applicati. Che Dio ti benedica!
Gianfranco Vitale
2/12/2020 https://volerelaluna.it/
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