Chi si cura delle persone anziane

È difficile presentare progetti su una realtà di cui si ignora quasi tutto. Quindi è parzialmente spiegabile la vaghezza delle proposte della bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sul tema dell’assistenza agli anziani, una componente del lavoro di cura almeno altrettanto importante di quella destinata ai bambini. Facciamo un rapido elenco in successione delle informazioni ricavate da varie fonti.

Il Pnrr denuncia “un’elevata disomogeneità territoriale di tutti i servizi residenziali e di prossimità (circa 300 posti letto per anziani ogni 1000 abitanti)”, numero quest’ultimo del tutto inverosimile, tanto da far pensare a un refuso.

Non va meglio per un organo d’informazione solitamente attento, espressione del terzo settore, come Vita, che qualche mese fa titolava Sos per 300mila anziani in case di riposo confondendo fra case di riposo, destinate agli anziani autosufficienti, e residenze sanitarie assistenziali (Rsa), che ospitano anziani non autosufficienti. E proseguiva “allarme per oltre 300 mila nonni ospitati in 7mila strutture da nord a sud dell’Italia”. Fonte: non meglio precisati dati del Ministero dell’Interno, analizzati dall’Ue.coop, la quale nel frattempo ha aumentato il numero dei “nonni” ricoverati a 340 mila.

Passando a fonti istituzionali, l’Istituto superiore di sanità (Iss), nella sua Survey nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie del maggio scorso, ne ha contate 3.417, fra quelle incluse nell’Osservatorio demenze dello stesso Iss e quelle presenti nei siti delle regioni, aggiungendo che tuttavia, secondo il registro nazionale del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà (Gnpl) – la banca dati realizzata per la geo-localizzazione delle strutture sociosanitarie assistenziali sul territorio italiano – le Rsa nel nostro paese sono 4.629 includendo sia quelle pubbliche che quelle convenzionate con il pubblico e le private.

“Raccogliere dati e informazioni sulle strutture residenziali per anziani è molto difficile”. Non si può che concordare con Marco Arlotti e Costanzo Ranci, dal cui articolo Un’emergenza nell’emergenza leggiamo: “nel 2016 le strutture residenziali in Italia risultano essere 12.500, con 285.000 ricoverati over65. Tale cifra copre il 2,1% dell’intera popolazione over 65 (…) la presenza di donne ricoverate è largamente maggioritaria: il 75%”.

Questa breve rassegna è tutt’altro che esaustiva, ma testimonia sufficientemente la necessità di un’indagine conoscitiva su un mondo dai contorni vaghi, estremamente variabili secondo le definizioni e i confini che di volta in volta vengono assunti, anche in funzione delle differenti politiche regionali, e che racchiude al suo interno situazioni estremamente diversificate dal punto di vista della qualità dei servizi erogati.

Basti pensare che dall’indagine dell’Istituto superiore di sanità – dove aveva risposto solo il 40% delle strutture interpellate – risultava che:

  • la dimensione media di una Rsa è di circa 75 posti letto, con variazioni tra 8 a 667 posti letto;
  • la grande maggioranza del personale è costituita da operatori sociosanitari (Oss);
  • l’11% delle strutture non ha neanche un medico in organico;
  • il 40% non arriva a 5 infermieri;
  • considerando solo il personale sanitario (medici e infermieri), si ottiene una media di 8 posti letto per figura professionale, con un minimo di 0,6 e un massimo di 42 (dunque un’estrema variabilità, con strutture buone e strutture pessime).

Quali alternative, allora? Una ricerca dell’Auser-Cgil denunciava nel 2017 la generale scarsità delle strutture residenziali per gli anziani non autosufficienti e le profonde differenze territoriali. Una provincia come Trento disponeva da sola di un numero di posti in strutture residenziali maggiore di quello di una regione come il Lazio, dove vive una popolazione 10 volte superiore. È auspicabile quindi un’espansione e una modernizzazione del settore, fermo restando che l’istanza più sentita da parte degli anziani rimane quella di “invecchiare a casa propria”. Istanza che dovremmo declinare come “abitare da sola”, visto che la grande maggioranza delle donne passa da sola l’ultimo tratto della propria vita, mentre questo accade solo per una parte molto più piccola degli uomini.

La recente “strage delle Rsa” a causa del Coronavirus ha fortemente incrinato la fiducia nella formula “residenzialità”, per le negatività ben visibili in molte strutture, e ha alimentato la ricerca di soluzioni alternative. La formula del cohousing è stata richiamata anche nel Piano Colao (scheda 91), citando i 400 mila soggetti vulnerabili (disabili, persone anziane, minori affetti da dipendenze, ecc.) oggi accolti da strutture residenziali che si sono mostrate ad alto rischio di contagio, e per i quali si coglie una “richiesta diffusa di armonizzare esperienze di deistituzionalizzazione, domiciliarità e personalizzazione degli interventi”.

Il rischio insito nella deistituzionalizzazione è ovviamente quello di trasferire il carico assistenziale alle famiglie, o meglio alle donne all’interno delle famiglie. Chi sembra avere un altro genere di certezze sono vari, anche autorevoli, esponenti del mondo cattolico, come mons. Vincenzo Paglia, che non vede nel ritorno alla famiglia un “rischio”, ma una grande opportunità. Citiamo non a caso Paglia, perché come vescovo viene a trovarsi nell’anomalo ruolo di presiedere la commissione incaricata dal ministro Speranza di ripensare l’assistenza ai soggetti non autosufficienti per lo stato italiano.

A riprova del largo consenso raccolto dalla richiesta di “chiudere le Rsa”, c’è la mozione approvata all’unanimità dal Consiglio regionale del Lazio su proposta del consigliere Paolo Ciani (esponente della Comunità di Sant’Egidio) per “superare l’istituto per anziani così come si è superato il manicomio e l’orfanotrofio, nell’intento di favorire una molteplicità di soluzioni abitative – dimora naturale, housing sociale pubblico o privato, residenzialità leggera, cohousing pubblico o privato, condomini protetti, case famiglia, microaree – e portare le cure sanitarie a domicilio, ciò che permetterà una migliore qualità della vita, riducendo i costi per le amministrazioni pubbliche”.

La praticabilità di queste soluzioni è destinata a scontrarsi con la crescente sanitarizzazione delle Rsa, con l’aumento della quota di anziani “fragili”, e la riduzione degli anziani autosufficienti ricoverati. I quali, peraltro, in questi anni hanno fatto diminuire la domanda per le “case di riposo”, mentre continuava ad aumentare quella per le residenze sanitarie. Settore che attrae notevoli investimenti privati, per molte ragioni: l’intensità di investimento è inferiore a un quinto dell’intensità di investimento negli ospedali, variando da 75 a 120 mila euro per posto letto, i costi sono parzialmente coperti dal finanziamento pubblico oltre che dalle rette delle famiglie. C’è da chiedersi tuttavia se e quanto vengano assicurati a ospiti, spesso affetti da demenza, quei servizi di riabilitazione, fisica e cognitiva, che potrebbero alleviarne almeno in parte la condizione, e che richiederebbero un personale ben altrimenti qualificato.

Per tornare al Pnrr, viene da chiedersi: c’è proporzione fra bisogni e risorse nella bozza appena resa disponibile? All’interno della missione “Salute” (quindi separata dalla missione 5 che comprende la parità di genere), sono previsti 9 miliardi, di cui 4,8 attribuiti alla componente “assistenza di prossimità e telemedicina”.  Prossimità intesa come vicinanza ai bisogni dei cittadini, creando servizi integrati e incentrati sul bisogno della persona e della comunità, attraverso percorsi di prevenzione e cura che coinvolgano attori pubblici e privati, presenti sul territorio, così come la comunità e le associazioni del terzo settore.

Solo all’interno di questa componente, viene esplicitato il miglioramento degli standard assistenziali nelle Residenze sanitarie per pazienti disabili e non autosufficienti. C’è bisogno di molto altro.

Mara Gasbarrone, Marcella Corsi

15/12/2020 http://www.ingenere.it

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