Una donna, senza un nome

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‹‹ La donna, una 46enne di origini polacche, è stata soccorsa dai sanitari del 118, che hanno operato con un’ambulanza e l’auto col medico a bordo, e trasportata col codice di massima gravità ››.

Questo il trafiletto per lavare la coscienza, poi tutti i perché vanno finire in fondo alla cronologia. Gli organi competenti indagheranno, il tribunale giudicherà, leggendo il fascicolo dieci minuti prima dell’inizio dell’udienza.

La “donna polacca” caduta da una piattaforma fissa dotata di camminamento alta circa quattro metri nello stabilimento di un’azienda vinicola, fa parte delle 600.000 persone che il 13 novembre 2020 hanno incrociato le braccia. Addette e addetti del settore multiservizi e pulizie. Le invisibili, gli invisibili. Il 70% sono donne, con salari esigui, orari spesso ridotti, carichi di lavoro pesanti e condizioni di lavoro difficili in molte realtà.

Il contratto collettivo è scaduto sette anni fa e le imprese per cui lavorano nel periodo di pandemia da Covid19 hanno aumentato l’offerta e i profitti. Ovunque si chiede massima pulizia e sanificazione, ma il salario orario è fermo spesso a 4-5 euro l’ora netti, come i metri che ha compiuto la “donna polacca” prima di impattare al suolo.

Mentre tutti sono a casa, loro entrano nel silenzio degli uffici, dei capannoni, degli impianti, conoscono i segreti e le abitudini di chi abita quei luoghi, gli altri lavoratori e le altre lavoratrici. Ma nessuno/a si chiede che vita facciano o che volto abbiano. Spesso non si incrociano mai, solo i tiratardi scambiano negli anni qualche parola con loro, ma evitano domande sulla condizione di lavoro, sulla loro vita, sulla natura di quell’appalto o subappalto.

Spesso tutto questo avviene anche nell’ambito di un servizio pubblico. Nelle case di cura e negli ospedali garantiscono una funzione essenziale per limitare tutti i tipi di infezione e garantire condizioni dignitose agli ospiti e ai pazienti delle strutture, e agli altri lavoratori. Spesso entrano in silenzio, hanno in testa la tempistica e la produttività da rispettare, un numero di spazi da pulire e sanificare a ora. Senza protezioni spesso, perché nella filiera degli appalti e dei contratti precari il ricatto è sospeso come la spada di Damocle e chiedere ciò che spetta significa restare a casa ‹‹ E senza lavoro pane non c’è…››.

“La donna” sappiamo che ha origini polacche, probabilmente è da qualche anno in Italia, ma non sappiamo nulla della sua vita personale, familiare, sociale. Non abbiamo idea del carico fisico ed emotivo che grava su di lei. Da tanto tempo abbiamo perso il contatto con la realtà prossimale, viviamo i territori con la leggerezza dei consumatori, forse perché consumiamo territori più che viverli. Accadono fatti, conviviamo con ingiustizie quotidiane, le incontriamo, ma non le vediamo o non le sappiamo riconoscere.

Quando c’è una crepa, evitiamo di ficcarci il naso, saltarci dentro con tutti e due i piedi per aprirla e vedere dentro, oltre, squarciarla. Questo è ciò che creerebbe fiducia e solidarietà vera, relazioni. Invece ci rimpalliamo notizie, che restano tali, perché non le riconosciamo come fatto, come potere diffuso e pervasivo, non diamo più un nome alle cose, un nome alle persone.

È così “la donna”, “la polacca”, restano gli unici indicatori di un’esistenza a cui non sappiamo dare un volto, un’identità, una storia. È ricoverata, si, ci affidiamo alla speranza che stia bene, che stia meglio, che non sia successo nulla di più grave dopo il codice d’ingresso al Pronto Soccorso, ma non abbiamo reti sociali che ci permettono con delicatezza di arrivare a lei e dirle ‹‹ Hai bisogno di qualcosa, di aiuto, di denunciare, di difenderti? ››.

Dovremmo fare in modo di cancellare la parola “speranza”, che è quella che ci evita il peso delle responsabilità e restare in questa trappola narcotizzante.
Mentre queste parole provano a portare un racconto dentro ogni lettore o lettrice, un nome cerca una persona, per raccontare, agire. Resterà il vuoto della speranza, fino alla prossima caduta, fino al nuovo verificarsi di ciò che i giornali chiamano “tragica fatalità”.

Questa sera è umido, sono le 20.00 e dentro gli uffici della sede legale di un’associazione di cooperative le luci si spengono, esce una donna con in mano due grandi buste da buttare, una scopa e una paletta appoggiate sull’uscio. Butta le buste dentro un contenitore, ripone l’attrezzatura in macchina e si accende una sigaretta – ‹‹ Anche oggi è fatta ›› – il fumo si addensa e sale, guarda in alto la pallida luna, sospira e si mette in macchina. Domani la sveglia sarà ancora una volta alle 4.00, per andare al solito posto e finire il lavoro prima dell’apertura.

Renato Turturro
Tecnico della prevenzione

Pubblicato sul numero di dicembre del mensile

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