Benedetto capitalismo

Una delle immagini utilizzate dalla rivista Adbusters nel 2020 in uno speciale dedicato alla pandemia, per spiegare come “the virus is deadly, but it’s capitalism that’s killing us” (“il virus è mortale, ma è il capitalismo che ci sta uccidendo”).

Nel concitato finire dell’anno una notizia è passata sotto tono: un incontro di papa Bergoglio e del fedele cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, con un nutrito gruppo di chief executive officier, manager e amministratori delegati di alcune tra le più grandi imprese e banche del mondo, tra cui British Petroleum, Banca d’America, Allianz, Dupont, Visa, Johnson&Johnson, Amundi, Master Card e fondazioni tra cui la Rockfeller e la Ford Foundation. Non si è trattato di una visita di cortesia, ma della entrata ufficiale del Vaticano come partner nel Council for Inclusive Capitalism, una organizzazione che – ci assicura il loro sito – rappresenta un gruppo di imprese che capitalizzano più di 10,5 trilioni di dollari e occupano 20 milioni di dipendenti. Lo scopo è “rendere il mondo più equo, inclusivo e sostenibile”. La fondatrice, l’ereditiera bancaria signora Lynn Forester de Rothschild ha detto: “Stiamo rispondendo alla sfida di papa Francesco di creare economie più inclusive che diffondano i benefici del capitalismo in modo più equo e consentano alle persone di realizzare il loro pieno potenziale”. Un giornale newyorkese ha così commentato l’evento: “Il papa benedice i piani aziendali. Può sembrare un abbinamento insolito: grandi imprese e papa Francesco, un pontefice che ha più volte criticato il capitalismo in termini ruvidi. Ma hanno annunciato oggi una nuova partnership, l’ultimo segno della crescente influenza delle pratiche ambientali, sociali e di governance negli affari” (Dealbook Newsletter, 8 dicembre 2020).

Non è la prima volta che il gota del capitalismo globale annuncia di voler convertirsi alla sostenibilità. Anche il World Business Council for Sustainable Development, nato venticique anni fa sull’onda del summit di Rio de Janeiro sullo sviluppo sostenibile, è un’organizzazione di duecento aziende con un fatturato complessivo di 8,5 trilioni di dollari e 19 milioni di dipendenti che si dichiarano impegnate ad “accelerare la transizione verso un mondo sostenibile” e a realizzare il “massimo impatto positivo per gli azionisti, l’ambiente e le società”. Il Wbcsd ha da poco pubblicato un rapporto dal titolo Reinventing Capitalism. Un’agenda per la trasformazione in cui si spiega perché le aziende dovrebbero aspirare a un successo “a lungo termine. Peccato solo per quell’incidente di percorso che ha portato il suo fondatore, Stephan Schmidheiny, del gruppo svizzero Eternit, a una condanna a diciotto anni dalla Corte d’Appello di Torino per il disastro ambientale provocato dall’amianto negli stabilimenti in Italia.

Nell’ultimo anno altri annunci hanno dato nuovo slancio al mondo imprenditoriale. La Us Business Roundtable, il gruppo di lobby aziendali più influente d’America, tra cui JP Morgan Chase, Apple, AT&T, Amazon, General Motors, ha invitato le imprese a non considerare più il solo profitto come lo scopo principale della loro attività, ma di includere anche la “protezione dell’ambiente” e la “dignità e il rispetto del lavoro”. Gli azionisti – affermano – sono solo uno dei cinque stakeholders delle imprese, assieme ai consumatori, ai lavoratori, ai fornitori e alle comunità locali. Quanto è bastato al Finacial Time per parlare di “svolta etica del capitalismo”. Decisamente operativo il potentissimo Ceo del colosso finanziario BlackRock che in una lettera ai clienti ha scritto che “decarbonizzare l’economia può essere una buona idea”.

Siamo così giunti alla copertina con cui Time apre l’anno nuovo: The Geat Reset. Non un semplice recovery, ma un nuovo inizio per il capitalismo. Sarà lo slogan del prossimo incontro del World Economic Forum di Davos che si terrà a Singapore. Il suo fondatore e presidente esecutivo, Claus Schwab, si batte da tempo affinché le grandi imprese dai grandi brand abbiano un “impatto positivo” non solo per gli azionisti.

Non c’è più da preoccuparsi. Saranno proprio loro, le grandi corporations, a salvarci. È stato calcolato che 1.318 imprese controllano il 60 per cento degli scambi globali. Mentre quindici imprese transnazionali controllano il 50 per cento della produzione mondiale. Così è che l’1 per cento della popolazione possiede il 43,4 per cento della ricchezza globale. Per contro il 53,6 per cento della popolazione più povera possiede lo 1,4 per cento della ricchezza (dati dell’ultimo rapporto Credit Suisse Global Wealth).

Paolo Cacciari

2/1/2021 https://comune-info.net

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