Quella pasta dal sapor littorio… E il colonialismo è servito!
Le abissine rigate, dal «sicuro sapore littorio». Le Tripoline o le Bengasine, sempre di pasta parliamo. Le torte «negretta» o «moretta», con tanto di ricette sui blog culinari (vere e proprie potenze del web con milioni di visualizzazioni) e presenza fissa in molte pasticcerie. Proprio uno di questi blog, nel rilanciarne la ricetta, suggeriva qualche anno fa «negretti o moretti, chiamateli come volete, ma tenetene sempre una piccola scorta in frigo e avrete una coccola sempre pronta». I biscotti «tripolini» che la Gentilini ha saggiamente fatto diventare nocciolini, da qualche parte si trovano anche i bigné «africanetti» o «faccette nere», mentre per il cioccolato Tripolino Barbero basta andare sul sito del colosso Eataly.
Si rischia di non capire molto del mini scandalo che ha coinvolto ieri la pasta La Molisana, dopo che un po’ improvvisamente è montata la polemica social sulle Abissine rigate, se non si inserisce la pasta all’interno di un ben più ampio contesto di resti e rimossi coloniali (e orientalisti) nel cibo italiano. Capita la mala parata, la compagnia si è affrettata a cambiare la descrizione sul sito delle suddette Abissine (che però, continuano a chiamarsi così). Probabilmente ai proprietari o agli amministratori de La Molisana non interessa che una storia di oppressione si associ ai loro tipi di pasta, quello che conta è agganciare il prodotto alla storia, qualunque essa sia, dolorosa o meno, oppressiva o no, perché l’obiettivo è venderla quella pasta e se, per venderla, devi richiamare la storia del fascismo e del colonialismo italiano che importa, anzi, come scrivevano loro fino a ieri sul sito «lo storytelling c’è già», che fortuna.
Perché inserirsi nella tradizione, come ci hanno spiegato gli storici Terence Ranger e Eric J. Hobsbawm, è un passaggio fondamentale per il successo di un regime ma anche di un prodotto.
Le Abissine e le Tripoline non sono perciò rimaste soltanto col loro nome ma anche pubblicizzate come un prodotto che ci arriva da un passato felice e di conquista; acquistarle diventa la possibilità di gustare quel passato. Il problema è che quel passato non ha un gusto gradevole e risulta indigesto a gran parte della società etiopica, eritrea, libica, italiana e somala. «Negli anni Trenta l’Italia celebra la stagione del colonialismo con nuovi formati di pasta: Tripoline, Bengasine, Assabesi e Abissine. La pasta di semola diventa elemento aggregante? Perché no!» e ancora «Di sicuro sapore littorio, il nome delle Abissine Rigate all’estero si trasforma in shells». Fino a ieri pomeriggio era questa la descrizione che si poteva leggere nella scheda delle Abissine rigate sul sito de La Molisana.
Anche la descrizione delle Tripoline («Il nome evoca luoghi lontani, esotici e ha un sapore coloniale») è sparita, mentre servirà un surplus di polemica a mezzo social per far capire che forse anche la descrizione delle Cinesine («Dalla forma che ricorda gli occhi di una donna cinese deriva il nome di questa pasta di piccole dimensioni che piace ai piccoli!») potrebbe risultare offensivo. Appena è montata la protesta sui social sul sito dell’azienda la scheda è stata modificata e la responsabile marketing ha rilasciato un’intervista spiegando che si è trattato di un errore e che l’azienda «non ha alcun intento celebrativo» e che «siamo molto attenti alla sensibilità dell’opinione pubblica e in questo caso l’unico errore è stato non ricontrollare le schede affidate all’agenzia di comunicazione».
Insomma, un problema di comunicazione e marketing, risolto. Appare invece irrisolto un quesito importante, fondamentale; cosa rimane della storia del fascismo? E della storia del colonialismo italiano?
Perché non è sufficiente modificare una scheda prodotto dichiarando che ci si è accorti di aver urtato la sensibilità dell’opinione pubblica. Una risposta del genere può andare bene per il marketing del prodotto ma non per tutto il resto. La questione, dal punto di vista della ricostruzione storica, è che è palesemente falso affermare che l’espansione coloniale italiana durante il fascismo (e anche nel periodo del colonialismo liberale) sia stata un’esperienza aggregante e felice.
Il problema quindi diventa della società civile e non soltanto di una o più aziende private perché, se per vendere un prodotto, ci si associa una storia e questa viene distorta per rendere il prodotto appetibile, il problema varca i cancelli dell’azienda e diventa un problema ben più diffuso. Infatti se questa particolare marca aggiungeva fino a ieri toni apertamente colonialisti, le Tripoline sono un tipo di pasta che tutti i grandi marchi di pasta chiamano così, senza nessun disagio apparente, magari notando solo, come fa De Cecco, che «la tradizione popolare vuole che questo formato [le tripoline] sia stato creato in onore del re Vittorio Emanuele a Napoli» – per i Tripolini (al maschile stavolta, pasta piccola da minestrina) invece rivolgersi all’Esselunga.
Non ci sono quindi solo statue, nomi di vie, modi di dire ancora presenti nel parlare comune («tutto l’ambaradan») a ricordarci il nostro passato coloniale e il nostro vissuto orientalista e trasformarlo in una inquietante quotidianità.
Nel campo degli studi postcoloniali il lavoro su questo ambito è ben avviato: dagli studi pionieristici dello storico Guido Abbattista che lega i biscotti assabesi all’Esposizione Generale Italiana di Torino, dove furono presentati alcuni abitanti nella baia di Assab (testa di ponte del colonialismo italiano in Africa) nel 1884, sino ai più recenti di Simone Brioni e Irene Fattacciu. La pasta è insomma un pezzo di quell’inconscio coloniale che ogni tanto riemerge, inatteso, scomodo, obliquo. Tra una statua e l’altra, magari pensiamo anche a trovare un altro modo per chiamare le Tripoline, o almeno sapere a cosa facciamo riferimento ogni volta che le prendiamo dagli scaffali. Perché, se il marketing è una cosa seria, la Storia lo è molto di più.
Alessandro Pes, Luca Peretti
5/1/2021 https://www.dinamopress.it/
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