Quale sicurezza in quale sanità
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Oltre alle misure di ordine generale, a tutela degli operatori sanitari e di tutto il personale del circuito socio-sanitario, occorrerebbe specificare quale tipo di attività sanitaria vede gli operatori esposti a germi e virus patogeni, in misura tipica e precipua, rispetto ad altre attività professionali.
Negli istituti di ricerca virale si distinguono infatti fino a 4 livelli di sicurezza, che prevedono misure di profilassi elevate e ripetute. L’ambito ospedaliero e sanitario in generale, trovandosi in mezzo a microorganismi patogeni in tutto simili, dovrebbe prevedere conseguentemente misure specifiche e non generiche. La prevenzione generale è del tutto mancata nella prima fase di pandemia e solo parzialmente o in ritardo si sta attuando nella seconda ondata.
La mortalità che ha colpito gli operatori della sanità è una conseguenza drammatica dell’impatto del corona virus sui lavoratori ed anche un indicatore dell’inadeguatezza dell’azione preventiva messa in campo sinora.
Gli operatori della sanità e di tutte le attività correlate alla salute sono la prima linea (posizionamento fin troppo enfatizzato ed eroicizzato) del contrasto all’epidemia e ciò richiede tutele straordinarie e non semplici misure di carattere generale.
Il Protocollo per la Prevenzione e la Sicurezza del 24 aprile 2020 siglato dalle associazioni datoriali, e tra queste il padronato pubblico, si è rivelato insufficiente per frenare l’epidemia. Di fronte al fenomeno si è palesata tutta l’impreparazione, fino all’assenza di un vero piano anti epidemico, una colpevole mancanza che sta emergendo ancora più evidente in questi giorni.
Per fronteggiare la seconda ondata, nessuna lezione è stata tratta dalla “Caporetto” avutasi con la prima. Nonostante l’uso smodato di locuzioni belliche a mezzo stampa, l’allestimento di una “linea del Piave” non è stato valutato con la dovuta urgenza e non si è visto alcun ravvedimento circa le politiche di de-finanziamento della sanità pubblica, che sono all’origine della cattiva prova data dal SSN.
Vi era l’occasione e l’urgenza per far scorrere le graduatorie degli idonei ai concorsi e stabilizzare la vasta area di precariato, si è preferito invece produrre altro precariato dando corso a contratti a tempo determinato e interinali. Su 30 mila nuovi contratti nell’era Covid, la metà sono a tempo determinato e se teniamo conto dei pensionamenti si capisce che il tanto strombazzato investimento in personale non c’è stato. Per chi lavora in sanità non occorre argomentare oltre perché la realtà che si vive non può essere deformata dalle narrazioni di comodo.
Dopo la glorificazione dei sanitari c’è un altro fenomeno che viene tenuto sotto traccia: un numero crescente di abbandoni per sfinimento. Ci si licenzia! La sindrome di burn out è una resa incondizionata, è una dichiarazione di sconfitta senza appello. A questa condizione di logoramento esistenziale, governo e autorità sanitarie gettano nella mischia gli avventizi! Con la seconda ondata, si è evidenziato lo scadimento nella qualità assistenziale a fronte di un relativo potenziamento nella dotazione tecnologica e dei posti letto di terapia intensiva, perché il personale ha ancora da acquisire conoscenze specifiche.
Questi interventi straordinari andavano attuati per mettere riparo ai lunghi anni di spoliazione del SSN, interventi straordinari che sono direttamente collegati ad una vera azione di prevenzione, anzi ne sono il presupposto ineludibile. L’opera di prevenzione degli operatori sanitari e della popolazione non può che partire dall’investimento in uomini e mezzi.
La qualità dell’assistenza non è una variabile indipendente dai numeri che si mettono in campo. Se in Italia vi è un rapporto 5,6 infermieri ogni 1.000 abitanti contro i 12,6 della Germania; se la spesa sanitaria pubblica pro-capite dell’Italia è al di sotto della media OCSE, $ 2.545 vs $ 3.038 (OCSE, 2019), quale presunta superiore qualità assistenziale può esprimere il nostro SSN? Quale altra spiegazione al primato dell’Italia nel numero di decessi, seconda solo al Messico?
Se l’applicazione di misure di distanziamento personale, l’uso dei dispositivi di protezione delle vie aeree, l’igiene delle mani e l’aerazione frequente di tutti i luoghi chiusi contro la diffusione per aerosol del virus rappresentano la metodologia elementare di contrasto all’epidemia, l’esposizione alla pandemia ha messo chiaramente in evidenza l’errore di privilegiare l’ospedale ai danni dei servizi sul territorio. Solo la sorveglianza capillare del rischio può consentire di rilevare e interrompere tempestivamente le reti di diffusione dell’infezione.
Non basta diramare disposizioni, che spesso cadono nel vuoto. Occorre una complessa e articolata rete di servizi: igiene pubblica, prevenzione, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, igiene degli alimenti, servizi veterinari.
Il distretto è la sede naturale di sorveglianza sanitaria delle attività intersettoriali, dei luoghi di lavoro, degli uffici, delle scuole nel comune e nel territorio. E’ l’organizzazione di base per il controllo territoriale dell’epidemia nei luoghi di lavoro e d’incontro, con particolare attenzione alle scuole, agli asili, agli uffici, all’industria, al commercio e distribuzione, alle RSA.
Tutto questo è mancato e di conseguenza la domanda di salute, che si identifica con la prevenzione primaria, si è scaricata sugli ospedali. Ed è per questo motivo che agli operatori sanitari non è toccato altro che improvvisarsi nella parte degli eroi “per caso”: impreparati allo scopo, organizzati secondo ben altri criteri e non attrezzati al compito.
Gli ospedali, anche quelli ad alta specializzazione, non hanno come missione la preservazione della salute, bensì la cura delle patologie.
L’omissione della prevenzione primaria territoriale ha comportato che negli ospedali si curasse in ritardo e alla meno peggio, chi non era stato testato, tracciato, trattato.
Il modello centrato sull’ospedale non è frutto di un errore di valutazione, ma discende direttamente dall’aziendaliz-zazione del SSN, dalla trasformazione della sanità in un campo di lucrosi investimenti di capitale, a danno di quelle funzioni essenziali di prevenzione che richiedono risorse senza fornire adeguati profitti. Non si è dunque trattato di un errore, ma di un crimine che ha nelle istituzioni centrali e periferiche, non meno che nelle aziende capitalistiche del settore sanitario, mandanti ed esecutori.
Quali misure per fronteggiare e mitigare le prossime ondate epidemiche?
Le 12 ore di lavoro per i turnisti, in conseguenza dell’adozione degli “orari europei”, in un contesto di carenza di personale che dura da 20 anni e di una età media degli operatori superiore ai 50 anni, sono una porta spalancata alla cattiva gestione del rischio epidemico e allo scadimento di qualità per la cura di tutte le altre patologie: in queste condizioni pensare di fermare virus e patologie equivale a voler fermare un treno in corsa con le sole mani.
I riposi e le pause, e tra queste la pausa pranzo, non prevista per i turnisti, sono necessarie per ritemprare fisico e spirito. Un lavoratore affaticato, effigiato mediaticamente nella foto di una nostra collega crollata sulla scrivania, si presta magari bene ai contemporanei talk show televisivi ma non a curare chi soffre, né a preservare la capacità di cura. Un lavoratore in debito di sonno può essere dannoso a se stesso e ai pazienti.
Tempo di lavoro da dedicare ad una vestizione accurata (non affrettata). Non sempre ciò viene accordato, perché le sollecitazioni a rispondere alle urgenze hanno di fatto sostituito i piani di lavoro. Le pause per distaccarsi dal lavoro e togliersi I DPI per dare sollievo alle vie respiratorie le si devono agli “eroi” come alle persone normali.
La sanificazione degli ambienti comuni (spogliatoi, bagni, tastiere ecc.) dovrebbe essere parte integrante della prevenzione a cui dedicare tempo e personale. In molte strutture sanitarie ciò non avviene: si è nella stessa condizione del calzolaio con le scarpe rotte e ciò a fronte di molti magazzini e fabbriche che, sotto la pressione diretta dei lavoratori, hanno adottato queste misure elementari.
Test periodici e ravvicinati nel tempo per far emergere le positività non sintomatiche a cui dovrà seguire l’isolamento. Qualora si riscontri una positività nei reparti, gli operatori esposti al contatto vanno isolati, in attesa del riscontro di laboratorio. Si segnala che, a seguito dei tagli ai servizi, c’è abbondanza di spazi, a volte interi padiglioni dismessi, in cui accogliere e tenere sotto stretta sorveglianza la popolazione sanitaria contagiata. La presenza degli ospedali da campo montati agli ingressi dei nosocomi è solo un patetico tentativo propagandistico per far sentire la vicinanza dello stato e del governo: l’Expo della fiera di Milano e la nave a Genova per accogliere i positivi sono solo uno spreco di denaro pubblico.
Cosa non viene fatto pur di non assumere in pianta stabile medici ed infermieri!
Siamo contro la monetizzazione del rischio delle attività sanitarie. Il premio serve solo a creare ( o nascondere ) condizioni di rischio ancora più gravi. Tutte le ragioni etiche e professionali sono avverse a questa impostazione che viaggia nella direzione opposta alla necessaria riduzione del rischio. Per larga parte della prima fase dell’epidemia, chetanti fra il personale medico e sanitario hanno pagato con la vita, sono mancati i dispositivi di protezione elementari. Non porsi nelle stesse condizioni, per l’attuale fase due e una probabile, anche se non auspicabile, fase tre, comporta investire su condizioni di lavoro più sicure.
Al contrario, le erogazioni di salario accessorio vanno invece riconosciute, con criteri egualitari e non discriminatori fra i lavoratori, non in relazione al rischio, ma al disagio e all’aggravio di fatica e di impegno che ha richiesto la necessità di fronteggiare l’ondata di ricoveri, per di più in condizioni di assoluta inadeguatezza.
Queste misure vanno mantenute, perfezionate, rivendicate. I tempi veloci della produzione e del profitto sono in antitesi con i tempi della cura che non può essere standardizzata ma deve tendere alla individualizzazione dei soggetti. Nessuna metodica da catena di montaggio può essere trasferita nell’assistenza delle persone .
La dimensione aziendalista del SSN è già di per sé uno scadimento ed un indebolimento delle finalità di preservazione della vita e della salute. L’assetto capitalistico piega alle sue brame ogni attività nobile e progressiva. Anche la scienza e la ricerca scientifica, punto d’arrivo delle conoscenze acquisite da tutta l’umanità nel corso della sua storia, è oggetto di contesa e mercificazione. Ne sono esempio i brevetti dei vaccini anti covid-19 che, anziché essere liberalizzati per accrescere la produzione a favore di tutti, rimangono di proprietà delle aziende, mentre assistiamo all’accaparramento delle scorte a favore dei paesi cosiddetti “avanzati”.
Il degrado della vita nelle periferie urbane e nei paesi del sud del mondo è solo l’effetto della putrefazione di un sistema che neanche le pandemie fanno deflettere dalla sua intima irrazionalità. La scienza (libera) senza sbocchi di mercato ha sempre meno albergo nel sistema capitalistico. Anche i tempi di messa a punto dei vaccini hanno subito una accelerazione, si dice per rispondere alle urgenze e alle morti portate dalla pandemia.
La validazione scientifica è arrivata in tempi stretti pur senza la sperimentazione accurata prevista dai protocolli. La osservazione sugli effetti di medio e lungo periodo si perfezionerà nel corso della profilassi. In sostituzione del principio di precauzione viene chiesto un atto di fiducia sulla validità dei vaccini ma nel contempo si attua il principio della “Corona”: il Re non risponde dei suoi atti. I rischi saranno a carico dei soli sudditi. Se, come sembra, si diffonderà l’uso delle liberatorie a favore delle case farmaceutiche e se si minaccia l’obbligatorietà per il personale sanitario, che almeno le eventuali conseguenze infauste siano a carico del governo e dei datori di lavoro che chiedono la firma di consenso.
L’umanità ha tratto grandissimi vantaggi dal contrasto su basi scientifiche delle epidemie e dalla messa punto dei vaccini, ma non tutte le perplessità, le riserve e le paure nella profilassi vaccinale possono essere etichettate come negazionismo e superstizioni “no vax”.
Da questi ci divide il mare e la convinzione che il metodo scientifico non ha alternative. Ma sappiamo altresì che la logica del profitto pervade ogni aspetto della vita sociale e la scienza, con le sue applicazioni, non è certo un’isola felice. Direzione della ricerca di base e specialistica verso i settori più redditizi, lotta di concorrenza sul mercato fra colossi farmaceutici per assicurarsi le commesse dei vaccini, esaltazione dei vantaggi differenziali fra un vaccino e l’altro come strumento per prevalere sulla concorrenza, dubbia terzietà degli istituti di controllo e autorizzazione al commercio (FDA, EMA, AIFA), rapporti opachi fra questi e le case farmaceutiche, carattere politico delle decisioni degli organismi internazionali (OMS) che dovrebbero avere la salvaguardia della salute come unico fine: sono tutti elementi che non permettono di accostarsi alla vaccinazione anti-covid con quello spirito di tranquillità e fiducia che le istituzioni capitalistiche richiedono ai cittadini. Se è vero, come noi crediamo, che non esistono soluzioni diverse dalla vaccinazione, va però attivata la massima sorveglianza “dal basso”, né si deve accettare l’alternativa ricattatoria fra cieca fiducia e superstizione reazionaria del negazionismo e dei “no vax”.
Sicurezza e prevenzione si risolvono nel potenziamento della sanità pubblica e universale. C’è tanto da recuperare e ripristinare in tal senso, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro e dal potenziamento degli organici ospedalieri e territoriali.
S.I. Cobas Sanità
Genova 08/01/2021
Pubblicato sul numero di febbraio su richiesta di un lettore dopo lo sciopero del S.I COBAS del 29 gennaio
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L’immagine. da tanjand.livejournal.com
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