È DI SCENA IL TRIAGE
La pandemia ci ha costretto, tra l’altro, a confrontarci con una parola inquietante: il triage. Non che fosse estranea alla pratica sanitaria. Conoscevamo l’esistenza di professionisti, appositamente formati per scegliere il percorso più appropriato per i pazienti. Non suscitava scandalo che in un pronto soccorso affollato ci fosse qualcuno che sapesse dar la precedenza al trattamento di un infartuato rispetto a un altro sofferente per una patologia benevola… Semmai avremmo potuto domandarci perché il pronto soccorso fosse così frequentato e se non avessimo omesso di assicurare ai cittadini altre modalità di assistenza distribuite sul territorio. È stata necessaria la pandemia per farci rimettere in discussione l’organizzazione ospedalocentrica della sanità. Comunque il triage in questo contesto era dato per scontato.
Il triage su cui si focalizza oggi la nostra attenzione – e le nostre preoccupate riserve – è di altro tipo. Evoca piuttosto quello che si prospettava a medici e infermieri sui campi di battaglia del passato: una grande quantità di feriti a fronte di risorse, di personale e di farmaci, limitate. Il triage consisteva, brutalmente, nello scegliere a chi riservare la cura, a chi negarla. Il criterio era legato a un esplicito utilitarismo: bisognava privilegiare i soldati che potevano essere messi in grado di tornare a combattere. L’imperativo era quello di vincere la guerra; i non utilizzabili potevano essere sacrificati.
La scarsità che la pandemia ha messo in evidenza ha rivitalizzato questa accezione di triage, presentandocela come lo scenario in cui i medici sono costretti a decidere chi ammettere in terapia intensiva o avviare al respiratore e chi intubare, quando le risorse non sono sufficienti per tutti. Decidere: l’etimologia latina della parola è illuminante; rimanda infatti al verbo “caedere”, vale a dire tagliare. Chi deve prendere la decisione deve essere disposto, dopo più o meno lunghe considerazioni, a tagliare: qualcuno sarà ammesso alle cure, altri saranno tenuti fuori. Su questo scenario si innestano le nostre angosciose domande. Con quali criteri saranno scelti alcuni ed esclusi altri? Per esplicitare la preoccupazione prevalente: c’è il rischio che questo triage porti a scartare i vecchi?
Il sospetto è stato alimentato anche da una lettura frettolosa del documento dell’associazione degli anestesisti-rianimatori SIAARTI che, assumendo come punto di partenza le “condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”, suggeriva di “privilegiare la maggiore speranza di vita”. Non è il caso di far eco alle grida indignate di chi, scandalizzato, ha voluto interpretare il documento come proposta di considerare gli anziani materia di scarto della società. I chiarimenti che hanno avuto luogo hanno dissipato gli equivoci, per chi li ha voluti accogliere. Rimane un’utile occasione per farci condurre da questa forma estrema di triage al cuore della questione, ovvero i criteri in base ai quali vengono fatte le scelte, quando le risorse sono insufficienti a soddisfare tutti i bisogni.
Il contesto più ampio è quello della cultura, nel senso antropologico-culturale. Soprattutto in contesti dove è in gioco la sopravvivenza del gruppo, può avvenire che dall’accesso alle risorse siano escluse alcune categorie di persone. Esemplare in questo senso il romanzo giapponese La ballata di Nayarama, da cui il regista Imamura ha tratto un film premiato a Cannes con la palma d’oro nel 1983. In una regione montana isolata la cultura condivisa della popolazione richiede che i vecchi, alla scadenza dei loro 60 anni, siano condotti in un luogo isolato e abbandonati. Se dovessero essere nutriti, le scarse risorse alimentari sarebbero insufficienti per l’intera comunità, che non riuscirebbe a passare l’inverno. È un obbligo filiale caricarsi in spalla i propri genitori, per far vivere la comunità. Sempre al livello del mito più che dei comportamenti verificabili, merita conto menzionare il racconto Accabadora di Michela Murgia (Einaudi 2009). È ambientato nella Sardegna arcaicizzante; alla “accabadora” era affidato il compito di accelerare la fine di persone vecchie e malate, che con il lungo accudimento avrebbero portato a fondo le proprie famiglie, condotte al limite delle risorse. Una decisione eutanasica di cui era beneficiario il gruppo sociale, indotto ad accantonare legami affettivi ed emozioni per poter sopravvivere.
Su questo scenario troviamo però anche scale di priorità completamente diverse. I volontari di Medici senza frontiere, ad esempio, riferiscono di essersi scontrati in alcune situazioni con scelte opposte a quelle che avrebbero fatto loro stessi. Quando i farmaci erano insufficienti per tutti, venivano privilegiati gli adulti piuttosto che i bambini. Perché se fossero periti coloro che potevano mantenere la comunità, tutto il nucleo sociale sarebbe crollato. Una scelta controintuitiva: come quando in aereo i genitori sono invitati, in caso di emergenza, a indossare prima loro la maschera di ossigeno; e solo dopo preoccuparsi di farla indossare ai bambini.
Lasciando antropologie tribali e comportamenti di sopravvivenza, pensiamo ai criteri di politiche sanitarie nelle quali emerge un triage con accezione di selezione. Sono stati elaborati da paesi che hanno messo in agenda la necessità di esplicitare razionalmente come dovessero essere allocate risorse salvavita, quando il bisogno eccedeva la disponibilità. Come le apparecchiature di dialisi o gli organi da trapiantare. Su questo fronte troviamo politiche che non hanno cessato di suscitare dibattiti: come il criterio QUALY (Quality Adjusted Life Years) o l’esclusione di cittadini da certi trattamenti – trapianti, dialisi… – dopo una linea ben definita di età anagrafica. È un capitolo controverso della riflessione promossa dalla bioetica. Tra i pro e i contro dei ragionamenti sottostanti Max Scheler avrebbe facilmente individuato i due modelli da lui teorizzati: l’etica dei principi vs. quella della responsabilità. La prima determinata a perseguire ciò che è giusto, avvenga qual che avvenga; la seconda attenta alle conseguenze delle decisioni, misurando queste sulla priorità utilitarista di minimizzare i danni e massimizzare i benefici. Ognuno dei due sistemi ha una sua validità. Ma se si stacca dal bilanciamento che gli fornisce il modello contrapposto, può diventare una iattura.
E se, invece di battere la strada dei valori sociali e dei principi etici, nonché delle emozioni connesse, prendessimo la via opposta, quella della più fredda razionalità? Per questo dovremmo distaccarci dagli umani e affidarci ai robot. Le scelte verrebbero fatte in base agli algoritmi con i quali sono stati programmati, per definizione ben isolati dalle interferenze del cuore. Una situazione di questo genere è rappresentata dal film Io, robot (regia di Alex Proyas, 2004), proiettato in un futuro in cui i robot condivideranno la vita quotidiana degli umani. In una tipica situazione di triage, il robot fa una scelta diversa da quella preferita dal protagonista umano. L’auto in cui si trovava insieme a una bambina è finita sott’acqua per un incidente. Il robot si tuffa; l’uomo gli chiede di portare in salvo la bambina, ma la macchina robotica, calcolando che l’uomo ha il 45 per cento di possibilità in più di sopravvivere, salva lui e lascia perire la bambina. Di qui nel film l’odio viscerale del protagonista per i robot: “Non hanno niente qui – dice battendo la mano sul petto – solo luci e pezzi di ferro”. Per questo fanno scelte solo in base ai numeri e alla logica.
Ancor più sofisticato è il romanzo distopico di Ian McEwan: Macchine come me (Einaudi 2019). L’umanoide di ultima generazione, chiamato simbolicamente Adam, è immaginato dotato, oltre che di tutte le potenzialità dell’intelligenza artificiale, della capacità di valutare le decisioni che deve prendere non solo in base a una logica astratta, ma anche considerando i valori morali. Ogni volta che deve fare una scelta, Adam si immobilizza per un momento e la valuta in base all’utilità funzionale o alla rilevanza etica. Il climax della storia è raggiunto quando il robot stringe la coppia dei protagonisti nell’angolo con l’alternativa: “Che mondo volete? La vendetta o la legge?”. Con la sua scelta, sul lato della legge – è impossibile insegnare a una macchina a mentire, osserva il romanziere – provoca un danno esistenziale notevole agli umani. Ma Adam ha una sua deontologia, che non si piega a nessun compromesso.
La riflessione di McEwan che sottostà al racconto raggiunge la massima tensione quando immagina che questi vertici della tecnologia in grado di esportare il pensiero nelle macchine – “il trionfo dell’umanità o l’angelo che ne annuncia la morte” – siano incapaci di inserirsi nel mondo umano. Possono accedere a un’intelligenza superiore, ma non essere capaci di accettare l’insufficienza e il dolore che fanno parte essenziale della nostra vita. Ciò li rende inadatti alla convivenza con gli umani. L’esito di questa evoluzione è che gli umanoidi perfetti, dotati di coscienza morale, giungono gradualmente alla conclusione che è meglio disattivare l’interruttore di emergenza che li attiva, ovvero si suicidano. Adam e la sua stirpe non sono attrezzati per capire i processi decisionali degli umani e per condividerne la vita: paradossalmente, a causa della loro superiorità morale.
Anche al di fuori della narrativa, esercizi mentali di scelte fatte in base agli algoritmi sono diventati frequenti ai nostri giorni. Da quando abbiamo incominciato a immaginare la guida delle vetture sottratta agli esseri umani e affidata a intelligenze artificiali, ci esercitiamo a vedere che cosa sceglierebbe di fare il sistema intelligente, se dovesse investire deliberatamente qualcuno per salvare la vita al conducente, o a una scolaresca di bambini che rischia di essere travolta… Anche qui: decisioni prese in forza di un calcolo astratto, piuttosto che prodotte dalle emozioni.
Apparentemente ci siamo lasciati trascinare lontano dal triage clinico. Non è così. Il contesto clinico è solo una fattispecie particolare delle scelte tragiche, alle quali possiamo essere costretti. L’emergenza fa affiorare i criteri che pure usiamo in scenari meno drammatici. La pandemia ci ha fatto prendere coscienza che nelle situazioni cliniche l’asimmetria tra bisogni e disponibilità di risorse è spesso presente. Dobbiamo prendere coscienza che lo sarà ancor più in futuro: l’aumento della durata media della vita farà aumentare le richieste di intervento sanitario in modo esponenziale. Il mondo dei professionisti della cura dovrà abituarsi a esplicitare i criteri con cui fa le proprie scelte. L’autoreferenzialità contenuta nel decantato criterio della “scienza e coscienza” non è più sufficiente. Anche il criterio della quantità di vita guadagnata non basta più, se è sganciato dalla qualità della vita che si riesce ad assicurare.
Quando si menziona la qualità si fa appello alla valutazione soggettiva della persona coinvolta. I malati partecipano alle scelte che incombono su di loro? In quale misura e con quale modalità? Il triage classico – quello da campo di battaglia – non prevedeva il coinvolgimento della persona da avviare o no al percorso di cura. Perché le cure erano fatte su di lui/lei, non con lui/lei. Non è così con la medicina dei nostri giorni, se vuol meritare la qualifica di “buona medicina”. Dallo scenario del triage non possono essere escluse le preferenze personali, comprese certe modalità di sopravvivenza che possono essere vissute soggettivamente come un incubo. La cronaca ci ha fatto giungere l’eco di alcune prese di posizione dei malati coinvolti. “Intubate lui, che è più giovane, piuttosto di me”; oppure la preferenza per una desistenza terapeutica, quando la prospettiva più probabile era quella di terminare la vita nella desolazione dell’isolamento totale.
Siamo nell’ambito delle disposizioni anticipate di trattamento, e più ancora della pianificazione condivisa delle cure (cfr. legge 219/2017 sul consenso informato). A questo punto dobbiamo rivedere le immagini mentali che associamo al concetto di triage. Tendiamo a immaginare le scelte che ne derivano come atti singoli e improvvisati, isolati dal contesto concreto dell’esistenza, con il professionista individualmente confrontato con dilemmi etici e combattuto tra scelte contrastanti, solo con la sua coscienza. Le decisioni che nascono sul fronte delle scelte tragiche dovrebbero piuttosto essere concepite come momenti di un percorso condiviso: con altri professionisti e soprattutto con il malato stesso. Le scelte saranno il frutto di una situazione della massima complessità, in cui confluiscono valori culturali e priorità sociali, valutazione realistica del contesto organizzativo e giudizio clinico, ragionamenti etici e – last but not least – le preferenze personali di chi vive il percorso di cura da protagonista. Senza dimenticare che le scelte etiche raramente gravitano totalmente nell’ambito del bene e del male; partecipando a tutt’e due, siamo chiamati a ottimizzare i benefici, ma anche a minimizzare di danni.
Non siamo stupiti che anche l’immaginario Adam, l’umanoide nato dalla fantasia di Ian McEwan, non sia adeguato alle scelte che nascono sul piano della massima complessità dove si muovono gli esseri umani. Ogni decisione che nasce dal processo che ci coinvolge nella nostra piena umanità, con le sue luci, le sue ombre e gli immancabili chiaroscuri, acquista il profilo di un “arte-fatto”; e come in ogni opera d’arte i criteri della bellezza e della bruttezza, oltre a quelli dell’etica, ci convocano a valutare ciò che con le nostre scelte abbiamo prodotto.
Sandro Spinsanti
21/2/2021 http://www.salutepubblica.net
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