A Luana, giovane operaia.
Le manifatture tessili furono i primi settori a vedere i progressi tecnologici applicati su larga scala nella produzione. Il rapporto lavoratore-macchina con le sue contraddizioni, i suoi conflitti e i cicli di lotte si svolsero fortemente in questo settore. Il sabotaggio nasce come forma di protesta e sofferenza dentro il contesto del tessile, i telai, i filatoi, gli orditoi andavano bloccati, il loro rumore fermato, se si volevano ottenere più soldi, più pause, meno ore di lavoro.
Le prime forme di contratto collettivo in Italia le possiamo ritrovare nelle lotte delle operaie tessile del biellese, Milva ci cantava della “filanda”, di sentimenti semplici, apparentemente leggeri. Dietro il popolare ci sono cicli di lotte, di visioni, grandi movimenti.
Ma cosa c’è dietro i grandi movimenti della Storia? Cosa muove il movimento operaio o i brandelli di tessuto che ne restano? Forse, c’entrano le storie singole come quella di Luana che si uniscono e muovono con passi leggeri e decisi la condizione altrimenti monolitica e statica delle mani e dei cervelli messi al lavoro.
Luana c’entra con tutto il sorriso di una foto e la sua giovinezza, c’entrano le mani che si destreggiano tra migliaia di fili, rocchetti, pettini e rulli, tra il rumore del capannone e il silenzio di una provincia spesso lontana, dimenticata. Ordito e trama, trame che avanzano sopravvivono, si realizzano o trame che finiscono perché le macchine con cui in fabbrica si è in contatto sono sconosciute, perché qualcuno di addestra a risparmiare nel tempo.
Perché parliamoci chiaro, la sicurezza è tempo guadagnato in vita e salute ed è tempo sottratto alla produttività. Perché la logica che muove questa organizzazione scientifica del lavoro ha un solo occhio concentrato su una sola cosa. Si, avete capito. A furia di parlarne si è assuefatti o forse se ne parla troppo poco e male in questo continuo overload di informazioni spesso inutili, strabordanti. Parliamo, parliamo e ci allontaniamo dal reale, ci allontaniamo dalla vita che una nostra vicina o un nostro amico affrontano tutti i giorni. Forse, anche dalla nostra. Siamo migliaia di fili tra i pettini di quell’orditoio che ha risucchiato il giovane corpo di una ragazza di 22 anni. Un’operaia.
I pettini ci separano nel rumore delle macchine incessante. Allora attraversiamola questa provincia italiana, andiamo nei distretti, forziamo gli ingressi dei capannoni affittati e delle finte lacrime schiantate sui parabrezza delle Jaguar parcheggiate fuori mentre si chiude il contratto di fornitura con qualche logo in voga e il proprietario del capannone che gongola nella sua seconda villa con giardino. Non basta non morire dentro un incendio o un crollo di un capannone a migliaia di chilometri da qui per sentirsi più fortunati, quando il padrone che incontriamo in piazza tutti i giorni elude o fa eludere delle protezioni e gioca con la nostra busta paga per garantirci il mantenimento del posto di lavoro in base all’andamento del mercato.
Non basta la faccia stizzita quando sentiamo in televisione l’ennesimo “esperto” di lavoro che ci dice che non siamo molto formati, ma un piede dove lavoriamo non l’ha mai messo. Non ci basta la Magistratura che farà il suo corso, non ci bastano più indagini e processi a posteriori, ci dovrebbe bastare il giovane sguardo di Luana per distruggere queste parole e decidere in che modo vivere insieme.
Renato Turturro
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