Infortuni sul lavoro oggi
Alcuni infortuni mortali sul lavoro hanno ridestato l’attenzione su un fenomeno che non si è mai interrotto. Le modalità degli accadimenti (molto antiche e sempre quelle), poi, e le caratteristiche delle vittime (quelle italiane, ché gli immigrati non fanno notizia) hanno attirato l’attenzione anche dei mezzi di comunicazione. Una volta terminata l’attività di sindacalista esperto in salute dei lavoratori, scrivere e commentare gli avvenimenti mi provoca un qualche disagio. In particolare mi è difficile scrivere quando le conoscenze sono parziali, limitate. Dalle informazioni dell’Inail si comprende molto poco, quasi nulla ‒ volutamente quasi nulla ‒ per cui o si è indifferenti o ci si commuove per un attimo.
Ho lavorato per diversi anni per migliorare le condizioni di salute e di sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori convinto, almeno dagli anni ‘80, che la civiltà del lavoro fosse finita ma rimanessero l’organizzazione del lavoro, le terziarizzazioni e il subappalto, il lavoro autonomo di seconda generazione, il lavoro in affitto (chiamato ipocritamente somministrato), la flessibilità e la precarietà. Quello che rimaneva, più all’estero che in Italia, era un approccio scientifico ai metodi di prevenzione sui rischi da lavoro che non poteva essere ignorato. Questi metodi sono stati riferimenti per la mia esperienza nel gruppo degli estensori del decreto legislativo del 2008, che qualcuno chiama “testo unico” ma unico non è, e nel comitato scientifico dell’Istituto superiore per la prevenzione (Ispesl).
Tra il 2006 e il 2008 ho partecipato alla stesura della proposta del decreto legislativo n. 81/2008 e al primo “patto per la salute sul lavoro” tra il Ministero della Salute e le Regioni. In quel periodo, dal 2006 al 2009, gli infortuni mortali sono passati da 1329 a 1032, per poi risalire a 1464 nel 2010 e 1361 nel 2011. Secondo l’allora presidente della Confindustria, Montezemolo, la nostra era un’azione da «sinistra cubana degli anni ‘60» (Corriere della Sera, 7 marzo 2008) e, come sappiamo, un mese dopo Berlusconi vinse le elezioni: cambiarono la legge e cambiò il trend degli infortuni ma, soprattutto, cambiò il lavoro sotto la pressione della crisi finanziaria del 2008. Perché fu possibile la riduzione del 2006-2009? Innanzitutto c’era una sensibilità non occasionale sugli infortuni dei lavoratori, un’associazione di giornalisti e persone della cultura come Articolo 21 seguiva pressoché quotidianamente il problema, il Presidente della Repubblica interveniva nei casi più clamorosi, i Ministeri della Salute e del Lavoro collaboravano invece di farsi concorrenza, tra il Ministero della Salute e le Regioni veniva sottoscritto un “patto per la salute sul lavoro” che indicava le forme di coordinamento per la prevenzione e la vigilanza al fine di ridurre gli infortuni. E il sindacato sosteneva il progetto. Ci fu una polemica sulla proposta del Ministero della Salute per la garanzia dello svolgimento di una azione ispettiva nel 5% delle unità produttive ogni anno. Ma come? Una volta ogni vent’anni? Non era questa, peraltro, la ragione della polemica: molte Regioni le consideravano eccessive, tra queste l’Emilia Romagna… Comunque la regola passò, accompagnata da un metodo di selezione delle attività ispettive che, per essere efficace, comportava l’indicazione di priorità per settore (e qui era facile, edilizia, agricoltura, logistica…) e, soprattutto per situazioni critiche rispetto all’organizzazione del lavoro, come gli appalti (dopo un infortunio mortale si chiese alla Fiat quante fossero le imprese d’appalto a Melfi: non lo sapevano e chiesero tempo per dare una risposta), e per situazioni aziendali con indici di frequenza degli infortuni superiore alla media (accertamento allora possibile, perché l’Inail comunicava gli infortuni con tempestività, ma oggi molto difficile). Da notare che si consideravano gli indici di frequenza non solo degli infortuni gravi o mortali, ma di tutti perché sono gli infortuni lievi o, come si dice nel linguaggio tecnico, i quasi infortuni (gli infortuni mancati) i più importanti indicatori dei deficit organizzativi nella prevenzione dei rischi per la sicurezza dei lavoratori. Allora si teneva conto del cosiddetto triangolo di Heinrich, assunto come metodo a livello internazionale:
Per fare la prevenzione si partiva dalla base del triangolo e non dal vertice. Così si è realizzata la riduzione del 20 e più per cento degli infortuni mortali in due anni.
Erano queste le categorie con cui leggevo e studiavo i dati e mi impegnavo alla collaborazione con altri per raggiungere gli obiettivi che ci eravamo proposti. Per queste ragioni sono in difficoltà a commentare le brutte vicende odierne. E tuttavia provo ad affrontare alcune questioni, sollevando dubbi più che proponendo soluzioni.
Innanzitutto, qual è l’andamento degli infortuni medi o lievi? Il triangolo è sempre lo stesso oppure è diventato molto più acuto perché la base si è notevolmente ridotta? Da quel – poco, troppo poco – che si riesce a conoscere sembrerebbe che le attività di prevenzione svolte dalle aziende siano notevolmente migliorate: si riducono decisamente gli infortuni lievi e crescono quelli mortali. Sembrerebbe che il sistema funzioni e purtroppo le fatalità crescano. Conseguentemente dovremmo essere soddisfatti per il sistema e dedicare un po’ di commozione alle vittime delle fatalità. Nel frattempo possiamo continuare, come si sta facendo da molti anni, a ridurre le tariffe dei premi assicurativi Inail. Ma le denunce per infortuni lievi si stanno effettivamente riducendo oppure semplicemente non vengono più inoltrate dai lavoratori? Se i Ministeri del Lavoro e della Salute, le Regioni e l’Inail avessero applicato l’articolo 8 del quasi testo unico che istituiva il sistema informativo nazionale per la prevenzione, qualche prima risposta sarebbe potuta arrivare, ad esempio dall’esame dei dati medi degli infortuni per singolo comparto produttivo (classificato dall’Inail e dall’Inps con i codici Ateco dell’Istat) e per lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, determinato, lavoro occasionale, soci lavoratori di cooperativa, partita Iva, lavoro autonomo, dato che così sono iscritti all’Inps. Chissà, forse più sei ricattabile (in linguaggio comune precario) meno sono le denunce all’Inail. Non essendoci più i dati, inevitabilmente uno pecca di presunzione: se questi dati diventassero pubblici si evidenzierebbero le aree di mancata denuncia all’Inail dell’infortunio sul lavoro. Sarebbe evidente che per i lavoratori autonomi e per la maggioranza dei lavoratori precari la mancata denuncia diventa continuità del lavoro in condizioni di malessere (alcuni riders si fermano e trovano un sosia che li sostituisca per non essere degradati) mentre per i lavoratori subordinati la trasformazione dell’infortunio diventa malattia senza origini lavorative. Se proprio non si può perché l’infortunio non è lieve, si va al pronto soccorso e si dichiara che l’accadimento è di origine domestica e non lavorativa. I lavoratori conoscono questi fatti ma non li denunciano perché pensano – o forse sanno – che la denuncia non avrà esito mentre la rappresaglia nei loro confronti sì. Non è un’opinione: ricordo il caso di una lavoratrice di un’azienda grande, con più di 1000 addetti, che segnalò una violazione delle misure di prevenzione filmandola con il proprio cellulare e ricevette in risposta il richiamo minaccioso dell’ispettore di denunciarla per la violazione della privacy rispetto alla proprietà aziendale. Ai fini dell’analisi degli infortuni mortali la considerazione sul carattere del rapporto di lavoro e della prestazione professionale è molto importante. Non ho più avuto modo di aggiornare i dati, ma già 10 anni fa i lavoratori dipendenti morti sul lavoro erano meno del 50% del totale e la maggioranza erano piccoli imprenditori e lavoratori autonomi, partite Iva, lavoratori parasubordinati, soci lavoratori di cooperative e non pochi pensionati nell’agricoltura. E oggi?
Un secondo aspetto importante è l’esperienza nel posto di lavoro nel quale si è persa la vita. La questione allude prima di tutto ai lavori precari e ai contratti occasionali che, peraltro, sono solo una parte delle prestazioni temporanee in un determinato posto di lavoro o per una determinata prestazione. Ma anche i lavoratori a tempo indeterminato sono soggetti all’attuale modello organizzativo fondato sull’adattabilità della risorsa umana. Quindi, nell’analisi dell’infortunio mortale, vanno considerati il periodo di esperienza nel posto di lavoro e la formazione alla prevenzione che, in presenza di rischi gravi o mortali, dovrebbe essere, secondo la legge, accompagnata con un adeguato periodo di addestramento. Anche su questi aspetti non sappiamo più nulla. Una volta ci saremmo detti: beh … se non ce lo dicono le istituzioni allora l’analisi e l’inchiesta la facciamo noi. Un’affermazione di questo tipo potrebbe sembrare un gesto polemico ma non è così: con l’attuale organizzazione del lavoro la partecipazione e il controllo dei lavoratori è fondamentale perché essi vivono di ora in ora e di giorno in giorno l’esperienza della organizzazione reale. Anni fa, esaminando un infortunio mortale e la sua dinamica, ci chiedemmo: ma un ispettore che fosse intervenuto il giorno prima avrebbe colto le “deviazioni” (è il termine tecnico degli errori di sequenza nelle macchine e nel comportamento umano) che hanno portato all’incidente? E la risposta era in molti casi no. Non so se l’ultimo accordo tra la Cgil, la Cisl e la Uil con la Confindustria su queste materie, sottoscritto in applicazione del “Patto per la fabbrica”, affronti questi problemi.
Ma le morti per infortunio non sono tutte uguali. Si è molto discusso, soprattutto a livello internazionale, se la malattia di un lavoratore esposto al Covid debba essere considerata malattia o infortunio professionale. L’Inail, secondo una decennale tradizione, considera l’infezione derivante da un microorganismo un infortunio perché basta un attimo per subire un danno e non c’è bisogno, come per la sordità o per una tendinite, di esposizioni prolungate nel tempo, anche per anni. Mentre alcune morti sul lavoro in fabbrica, nel cantiere o in un laboratorio, vengono presentate sulle prime pagine dei quotidiani o nei telegiornali, altre sono una informazione statistico-epidemiologica dovuta ma da non commentare perché scontata. È il caso dei lavoratori morti per esposizione professionale al virus Covid-19; veniamo così a conoscere quanti medici hanno perso la vita mentre è più difficile conoscere quanti infermieri e quanti operatori sociosanitari solo perché questi fanno meno notizia, anche quando l’Inail pubblica i dati. E per gli altri lavoratori? Ora il presidente dell’Inail annuncia che anche altri lavoratori particolarmente esposti nel rapporto con persone, clienti o passeggeri, possono aver subìto un infortunio da Covid. Dimostrare dove e quando sia avvenuto il contagio per gli operatori non sanitari non è affatto semplice; se poi lo deve dimostrare il lavoratore è ancora più difficile, allora conviene prendere l’indennità di malattia che non è così diversa da quella per infortunio. Mi pare invece più interessante conoscere se e quanto i luoghi di lavoro siano stati luogo di contagio. Conoscere questi dati è facilissimo: basta incrociare attraverso il codice fiscale della singola persona i dati dei referti medici che hanno diagnosticato il contagio con i codici di classificazione dell’azienda che versa i suoi contributi per pagare l’indennità di malattia oggi e forse la pensione domani, l’Inps. Si potrebbero così spiegare, in parte significativa, le differenze tra diverse regioni italiane e la concentrazione di casi nel nord-ovest.
Sia il comunicato stampa della Procura della Repubblica di Milano che qualche autorevole direttore di quotidiano ignorano che l’istituto preposto alla vigilanza per la prevenzione dei rischi di infortunio e di malattia è il servizio territoriale del sistema sanitario, la Asl. La Procura di Milano ha delegato l’Arma dei Carabinieri e non gli ispettori delle ASL a svolgere le indagini sulla condizione e sulla sicurezza del lavoro dei ciclo fattorini, mentre il direttore de La Stampa ha lamentato la pochezza degli organi di vigilanza senza citare il fatto che la maggioranza degli ispettori operano nei servizi delle ASL, che in Piemonte si chiamano Spresal. Non credo sia casuale. Da sempre gli imprenditori chiedono che questi compiti siano sottratti al Servizio sanitario nazionale e finalmente riattribuiti, dopo la riforma sanitaria del 1978, all’Ispettorato del lavoro. La salute dei lavoratori è un problema dell’impresa e non dello Stato che al massimo deve vigilare.
Quando chiedevamo che la Costituzione entrasse in fabbrica – vale per la mia generazione e soprattutto per quella che mi ha preceduto – pensavamo che un lavoratore dovesse essere considerato un cittadino anche quando varcava un cancello e che la sua salute fosse la stessa nelle 8 ore oltre al cancello come nelle restanti 16. Che le malattie derivanti dall’“ambiente interno” fossero quelle provocate da disturbi genetici o dal metabolismo della persona mentre quelle derivanti dall’“ambiente esterno” tutte quelle provocate da esposizioni all’ambiente di vita (e quello del lavoro era una parte): che il cittadino fosse uno e la sua salute una.
Abbiamo perso, l’alienazione non si ferma al lavoro nelle forme attuali, è parte delle diseguaglianze dell’oggi nella produzione come nelle condizioni di produzione e riproduzione. Però adesso c’è la civiltà degli intelligenti o, in alternativa, dei prepotenti. Entrambi arroganti.
Fulvio Perini
13/5/2021 https://volerelaluna.it
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