Tutti contro il blocco dei licenziamenti: un’istantanea dell’odio di classe
L’ennesima, lunga tragedia che si sta consumando sulle spalle dei lavoratori riguarda il blocco dei licenziamenti. A intervenire nel grottesco teatrino tutto italiano, in cui le giravolte di Salvini e l’accelerata di Draghi avevano messo all’angolo il PD e i sindacati, assecondando tutte le richieste di Confindustria, è stata per ultima la Commissione europea che, solo pochi giorni fa, ha bollato il blocco dei licenziamenti come superfluo e potenzialmente pericoloso. Nulla di nuovo rispetto a ciò che abbiamo avuto modo di criticare in due nostri precedenti interventi. Tuttavia, gli eventi balzati all’onore delle cronache negli ultimi giorni ci permettono di ribadire per l’ennesima volta come posizioni ideologiche e interessate assumano i panni di verità scientifiche che è sempre opportuno confutare, ribaltare e combattere.
Il ragionamento della Commissione europea si svolge come segue: il blocco dei licenziamenti ha riguardato i lavoratori che accedevano alla cassa integrazione; tuttavia, ciò non ha impedito che l’occupazione si riducesse, ma ha limitato l’effetto alle categorie di lavoratori privi di contratti a tempo indeterminato. Per questo motivo una misura come il blocco dei licenziamenti non solo è superflua ma è addirittura dannosa perché discriminerebbe i precari (i cosiddetti outsider) a favore dei tutelati (i cosiddetti insider).
Certo, è una stramba idea di discriminazione quella che ci viene proposta. Se proprio infatti di discriminazione si vuole parlare bisognerebbe risalire indietro nel tempo, almeno al 1997, con le riforme del Pacchetto Treu. Ci si imbatterebbe, così, nella genesi dell’istituzionalizzazione del precariato e di una categoria di lavoratori di serie B sancita per legge, con la scusa che un mercato del lavoro ‘flessibile’ avrebbe garantito delle dinamiche occupazionali migliori. Ed ecco, quindi, un profluvio di nuove forme di contratti di lavoro: lavoro interinale, collaborazioni coordinate e continuative, contratti a progetto. E poi, con le riforme successive, somministrazione di lavoro, co.co.pro., lavoro intermittente, lavoro occasionale. Forme contrattuali ancora presenti nel nostro ordinamento o abrogate e sostituite da nuove forme contrattuali, ma con un comune denominatore: la precarietà della posizione dei lavoratori.
Una volta fatto il danno, però, istituzioni europee, prodi esecutori nazionali e liberisti di ogni sorta si sono subito attivati per sostenere che sì, la precarietà rappresentava un problema, ma tale problema risiedeva nell’eccesso di tutele di cui il resto dei lavoratori ancora godevano. Era il cosiddetto ‘dualismo’ del mercato del lavoro (di cui per altro l’Italia soffre meno che altri paesi europei): l’ennesimo tassello di una retorica falsa, utile ad indebolire i lavoratori tutti e a frammentarne l’unità degli interessi, dunque di classe.
Da un lato, dunque, le istituzioni europee e i solerti esecutori nazionali si sono prodigati per creare una categoria di lavoratori strutturalmente precari, stabilmente sotto ricatto da parte dei datori di lavoro, accanto ai lavoratori coperti dalle tutele preesistenti. Dall’altro, una volta creata tale disparità, si è agitato lo spettro della discriminazione per far sì che non ci fossero più differenze. Ristabilendo dignità e sicurezza del posto di lavoro per tutti? No, tutt’altro. Le politiche del lavoro si sono mosse nella direzione opposta, a tutto interesse dei padroni: gettare il più ampio numero di lavoratori nell’inferno del precariato.
Istituzionalizzato quest’ultimo, in altri termini, si trattava di estenderlo a quanti più lavoratori possibile, nelle forme più variegate. L’apice si è raggiunto con il Jobs Act che, nel 2015, riesce ad intaccare in maniera determinante un totem della legislazione sul lavoro: l’articolo 18. In quella sede, anche in caso di licenziamento economico illegittimo, per tutti i contratti di lavoro sottoscritti dal 7 marzo 2015, veniva previsto l’indennizzo invece che il reintegro per il lavoratore licenziato.
Con la stessa logica, ora si chiede di poter riprendere a licenziare anche i lavoratori attualmente in Cassa Integrazione, argomentando come essi siano privilegiati rispetto ai lavoratori precari i cui contratti non sono stati rinnovati.
Ma il ragionamento ha una sua coerenza interna? No, perché i lavoratori in cassa integrazione (CIG) e fino ad ora non licenziabili sono dipendenti di imprese le cui esigenze produttive si sono ridotte o azzerate. Se queste imprese si sono già sbarazzate di collaboratori o lavoratori a tempo determinato non vi è nessuna ragione per credere che senza blocco dei licenziamenti avrebbero tenuto un precario in luogo di un lavoratore a tempo indeterminato, semplicemente perché le esigenze produttive non richiedono la presenza né dell’uno né dell’altro. I lavoratori in CIG, infatti, per quanto formalmente legati all’impresa non partecipano all’attività produttiva o lo fanno in misura ridotta. Semmai, ciò che manca è una forma di tutela reddituale adeguata, un sussidio, per i lavoratori con contratti atipici. Ma se ciò non è stato fino ad ora previsto è perché la logica stessa della flessibilità del mercato del lavoro richiede che i lavoratori siano continuamente ricattabili, propensi ad accettare salari da fame, anche se ciò viene descritto come “incentivo a cercare attivamente lavoro”.
È inoltre fondata la speranza che una riduzione delle tutele degli insider, richiesta a gran voce dall’Unione europea e dagli economisti di ispirazione liberista, possa favorire un miglioramento delle condizioni degli outsider? La risposta, ovviamente, è no. È anzi probabile che un ulteriore peggioramento della posizione contrattuale dei lavoratori a tempo indeterminato peggiori le condizioni di lavoro di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori. Non solo, infatti, si renderebbe più debole la classe lavoratrice, ma prevedendo, ad esempio, un ridimensionamento dei sussidi di disoccupazione, si ridurrebbe una fonte di reddito che nelle fasi di crisi rappresenta un importante sostegno alla domanda. I sussidi di disoccupazione, infatti, contribuiscono a mitigare la caduta dei consumi dei lavoratori licenziati, impedendo che l’impatto della crisi in termini di disoccupazione sia ancora più devastante.
Ma allora perché accanirsi così tanto contro questa misura che la stessa Commissione europea definisce “superflua” poiché non in grado di ostacolare l’aggiustamento delle imprese? È presto detto: perché licenziare ora, dopo che per un anno i salari dei propri dipendenti sono stati pagati dallo Stato tramite la CIG, permetterà alle imprese di riassumere, quando le esigenze produttive torneranno ai livelli pre-Covid, con contratti di lavoro peggiori una classe lavoratrice sfiancata da un lungo periodo di crisi ed alta disoccupazione.
Ancora una volta, le istituzioni europee fanno il lavoro per cui sono nate: ridurre il più possibile le tutele del posto di lavoro, in modo da rendere la vita più facile ai padroni, permettendo loro di lucrare più facilmente sulla pelle dei lavoratori. Non ci vuole, infatti, un particolare sforzo di fantasia per vedere che lo schema che sta dietro le ricette di austerità, liberalizzazione e deregolamentazione del mercato del lavoro, lungi dall’essere l’applicazione di precetti tecnico-scientifici di buon governo, è uno e uno solo: creare una classe lavoratrice spaventata, ricattabile, docile e alla mercé del capitale, pronta ad accettare, pur di portare a casa la pagnotta, ogni ulteriore forma di sfruttamento e ogni riduzione dei propri diritti e delle proprie retribuzioni, a tutto favore dei profitti. Soltanto tenendo presente quelli che sono gli obiettivi di fondo di queste politiche è possibile, volta per volta, smascherare gli inganni della dottrina liberista e rispondere agli attacchi ai diritti dei lavoratori.
CONIARE RIVOLTA
Collettivo di economisti
8/6/2021 https://coniarerivolta.org
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