Nel buio della Stellantis
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TORINO E’ LA FIAT, LA FIAT E’ TORINO. Questo detto, pur depurandolo da un significato solo positivo, racconta bene cosa rappresentava la Fiat per la città degli anni 60 (ma ovviamente anche prima e per molti anni dopo).
Bastava far un giro nei quartieri per vederne la presenza: non solo le mega fabbriche Lingotto e Mirafiori, ma le tante altre Fiat, dalla Aviazione, alle fonderie, alla Grandi motori, alla Iveco, all’areonautica, alla Ferroviaria, con il vertice simbolico dei due isolati di Corso Marconi, cuore dell’impero. Insediamenti che in parte hanno cambiato proprietà e/o nome e in parte sono diventati altro da luoghi della produzione, ma che allora e per anni hanno segnato il peso del gruppo. Per inciso con una diversificazione che copriva praticamente tutti i settori della mobilità, da quella privata a quella navale.
Ma la produzione Fiat andava oltre alla sua presenza diretta e, attraverso la rete dell’indotto e dei fornitori, determinava le sorti di migliaia di altre aziende, da quelle grandi, vedi la Carello o la Fergat, ad una miriade di boite, magari fatte nascere dai quadri aziendali, in cui si produceva qualcuno dei pezzi e pezzetti necessari per costruire un’automobile. Fino ad arrivare ai tavoli di cucina di tante famiglie, specie della periferia, dove si assemblavano i blocchetti per le portiere o altri particolari di piccole dimensioni.
E sperimentava nel marketing, intuizioni che sarebbero diventate di tendenza 50 anni dopo, coinvolgendo i dipendenti in una sorta di attività di vendita personalizzata, attraverso l’acquisto delle macchine per i dipendenti, con sconto immediato e assicurazione per sei mesi, che gli stessi rivendevano dopo il periodo a parenti ed amici, ricavandone qualche guadagno e il” lusso” della macchina sempre nuova. Ma con il terrore che, durante quel periodo, un incidente o una riga sulla fiancata mettessero in crisi guadagni e speculazioni.
E la penetrazione di Fiat non era solo produttiva ma copriva tutta vita dei torinesi: dalle case Fiat, alle colonie per i figli dei dipendenti, alla scuola allievi, al centro sportivo che allevava atleti di ogni livello e che rappresentava un canale di possibile mobilità sociale, agli asili aziendali e al centro culturale che promuoveva conferenze e spettacoli. Arrivando a coprire con la Mutua aziendale, la Malf, i bisogni sanitari dei dipendenti, prima che il servizio nazionale ne garantisse, o quasi, un diritto nazionale.
Senza dimenticare la Stampa, il giornale cittadino per definizione, con cui veniva veicolato il pensiero dell’azienda (forse questo è l’unico settore in cui la proprietà si è rafforzata, visto che oggi possiede i tre giornali più importanti presenti in Italia) e la Juventus, forte simbolo identitario.
Un insieme di struttura e sovrastruttura che raccoglieva bisogni reali della popolazione e che li soddisfaceva per i dipendenti con criteri aziendalistici e di fidelizzazione, costruendo un “mondo Fiat” capace di egemonizzare la vita della città e del paese.
Allora non c’è da stupirsi che, come si diceva allora, “la metropolitana a Torino non ci sarà, fin che ci sarà la Fiat” oppure che sia stata la Torino Milano, costruita negli anni 30 su spinta di Giovanni Agnelli e poi diventata nei 50 la prima vera autostrada italiana, seguita, sempre negli anni 50, dalla Ceva Savona. Questi fatti evidenziano come la politica dei trasporti fosse fortemente condizionata dalle strategie aziendali della Fiat e lo sia stata per molti decenni successivi.
Come lo ha fatto in altri ambiti, pensiamo alla cancellazione di ogni concorrenza nazionale, realizzata con la vendita di Alfa Romeo agli Agnelli da parte di Iri nel 1986, che bloccò il tentativo di Ford di insediarsi in Italia.
Una storia non democratica.
Dando per scontato che le aziende hanno una intrinseca tendenza a non essere democratiche e partecipative, la storia di Fiat brilla per la sua durezza, ovviamente verso chi negli anni ne ha contestato il comando assoluto.
Senza scomodare la repressione del periodo fascista degli scioperi 43-45, è costante nel gruppo il tentativo di eliminare ogni influenza della sinistra sia sindacale che politica. Dopo la liberazione parte la repressione che espelle o isola i militanti e simpatizzanti Cgil, ne blocca la attività in fabbrica. Negli anni 50-70 350000 schedature tengono sotto controllo i lavoratori e le loro famiglie, selezionandoli nelle assunzioni e indagando sulle loro convinzioni politiche e sui comportamenti personali. Nel 1980 la minaccia dei licenziamenti e poi la cassa integrazione cacciano fuori migliaia e migliaia di lavoratori, scegliendoli tra gli attivisti sindacali, i politicizzati di sinistra ma anche tra chi non sopportava i ritmi e il regime di fabbrica. Fino al 2011 dove la sostituzione voluta da Marchionne e accettata da FIM e Uilm del CCSL (contratto specifico) al posto del contratto nazionale dei metalmeccanici ,mette fuori dalla attività contrattuale una organizzazione rappresentativa come la Fiom che dovrà faticare molto per recuperare spazi di agibilità e di rappresentanza. Senza dimenticare gli innumerevoli episodi di repressione verso rappresentanti sindacali delle organizzazioni di base, estromessi o impediti ad operare nel posto di lavoro.
Non si tratta qui di fare una storia delle cattiverie del padrone ma semplicemente di ricordare, forse esagerando un po’, che l’unico periodo in cui alla Fiat i lavoratori hanno avuto un ruolo incisivo, sia sul piano delle condizioni contrattuali ma anche della definizione delle scelte produttive (investimenti, organizzazione del lavoro, sicurezza.) sono stati gli anni 70, quando la forza di quei lavoratori ha costretto la proprietà e i manager ha tenere conto dei bisogni del lavoro. Non appena la pressione calava o spariva, l’autoritarismo riprendeva piede e riprendeva la corsa dello sfruttamento e della centralità del capitale e della finanza (vedi Marchionne) nelle strategie aziendali.
Ovviamente l’evoluzione tecnologica delle produzioni e di prodotti (le catene di montaggio, l’automazione, la robotizzazione di fasi della produzione, la integrazione dell’indotto, il just in time, la lean production, il wcm…) ma anche la globalizzazione dei mercati e i processi mondiali di aggregazione/selezione dei produttori sono stati la base materiale che hanno reso più deboli i lavoratori e hanno portato all’attuale situazione di Stellantis.
Del perché Fiat è arrivata, dopo la fusione con Chrysler in Fca, a questa nuova fase molto si è parlato in tanti articoli e riflessioni. Abbastanza poco si dice su cosa potrà accadere e per capirlo, oltre alle scelte della proprietà italiana, dei soci francesi e cinesi bisogna ragionare sul futuro, nel mondo e in Italia, della mobilità e dell’auto in particolare.
Facendo riferimento ad interventi e scritti di autorevoli esperti possiamo evidenziare alcuni elementi centrali.
- I mercati e le produzioni dell’auto si spostano verso altri continenti (nel 2018, ultimo anno normale l’Asia ha prodotto 43 milioni di veicoli, di cui 28 in Cina,10 in giappone,5 in india), contro 15 in Europa e 11 negli Usa.
Quasi tutti i produttori stanno correndo verso la Cina, es Volkswagen.
- si profila la riduzione/sparizione dei motori termici, diesel e benzina e uno spostamento abbastanza rapido verso l’elettrico nel breve periodo e l’idrogeno più nel lungo. I costi di produzione dell’elettrico si stanno abbassando e si ipotizza un pareggio con le vetture tradizionali nel 2025.
- Le vetture elettriche e successive avranno un elevato contenuto di elettronica, di software e molto meno componenti, si parla di 7000 parti contro le attuali 30000.Questo ridurrà molto la manodopera necessaria, si ipotizza il 30% in meno e richiederà qualificazioni molto diverse.
- la guida autonoma cambierà, ovviamente in tempi medio lunghi e in modo diverso nelle varie zone del mondo, il modo di usare l’auto. Potenzialmente la separerà dalla proprietà individuale, la renderà disponibile 24 ore su 24 ore (contro l’uso delle 3 ore giornalieri di oggi + il fine settimana e le ferie). Quindi, a parità di utilizzo, ne serviranno, meno.
- risultati simili producono la tendenza al noleggio anziché alla proprietà, visto anche l’aumento della componente servizi nell’uso dell’auto (dalla assicurazione, alla assistenza, ai servizi di connessione dati, alla manutenzione etc.)
- le due voci sopra riportate si sommeranno ad altre ragioni di calo dell’uso dell’auto propria (le citta intasate, le aree densamente abitate, quelle più colpite dall’inquinamento e i relativi blocchi, il costo dell’energia……) e contribuiranno un calo della domanda complessiva di auto individuali e ad una crescita della domanda di trasporti pubblici e/o collettivi.
Tutto questo, sommato ad una debolezza specifica della ex FCA (debolezza nei settori innovativi, scarsa propensione ad investire, ridotta saturazione degli impianti, delocalizzazione di tanti modelli) mettono gli stabilimenti italiani in una posizione subordinata rispetto alla fusione e obbligano ad una risposta su tre fronti.
. Bisogna affrontare il nodo ambientale e guidare la transizione. Non esiste una soluzione duratura, e forse neanche temporanea, se non si colloca dentro il ripensamento della mobilità. Quindi il futuro di Stellantis in Italia, ma vale anche altrove, esiste se si sta dentro ad un piano che delinei come ci si sposterà nei prossimi anni, con quali mezzi, spinti da quali motori. Avendo la capacità di indicare per ogni settore (mobilità urbana, di medio raggio, merci…) quale debba essere il vettore più razionale (ambientalmente, energeticamente, socialmente) e quali debbano essere incentivati, sostenuti, penalizzati. Rifacendoci a quanto vissuto proprio a Torino, possiamo ipotizzare un domani in cui incentiviamo l’auto privata e ci ritroviamo con il blocco quasi totale del traffico per inquinamento?
La mobilità del futuro deve essere un progetto collettivo, elaborato da tutti i soggetti interessati, compresa la salute dei nostri nipoti. Ribaltando la logica descritta all’inizio di questo testo, deve essere la società nel suo insieme che orienta, almeno in parte, la produzione. Dopo che per decenni la Fiat ha regolato la città occorre che la citta e chi ci vive, regoli Stellantisi e gli altri produttori di Mobilità.
. Occorre salvare i lavoratori .L’auto in Italia occupa 278.000 lavoratori e il comparto largo circa 1,2 milioni. La componentistica (2200 imprese) lavora al 50% per FCA, chiaro quindi che le soluzioni non possono essere, e già sarebbe complicato, solo per gli ex FCA. Stellantis appena insediata ha cominciato ad aumentare le pressioni sui servizi (mense, pulizie.) e sui concessionari, oltre che operare sul ridimensionamento di alcune linee produttive (Melfi).
Per garantire un lavoro agli attuali dipendenti, in senso largo, di Stellantis bisogna:
1 Garantirsi prodotti e volumi adeguati per tutti gli stabilimenti. Questo significa una distribuzione equilibrata dei prodotti innovativi, il blocco delle delocalizzazioni, il mantenimento delle attività di progettazione e ingegnerizzazione. Con un occhio anche alla filiera dell’indotto che, per inciso, sembra essere più competitiva della sola ex FCA.
La stessa ipotesi della fabbrica delle batterie, certamente importante se intesa globalmente dalla ricerca allo smaltimento, rischia di essere poco solida in assenza di produzioni locali e nazionali di volumi ampi di veicoli elettrici.A meno di pensare, come successe decine di anni fa di parti di auto che giravano per l’italia adesso sarebbe l’Europa, per raggiungere gli stabilimenti dove essere messi assieme. Prospettiva poco razionale, alla luce degli obbiettivi di sostenibilità. Per non dire della poca credibilità di due corse alla gigafactory, una a Torino ed una a Ivrea, dove potentati locali sembrano inseguire progetti un po’ labili.
Produzioni e prodotti devono avere una logica di insieme, capace di durare nel tempo .
2 Occorre affrontare in modo coraggioso il nodo delle pensioni e degli ammortizzatori sociali. Con una forza lavoro vecchia (47 anni medi a Mirafiori) e in larga parte (almeno il 20 %) con ridotte capacità (leggi malanni legati a decenni di lavoro disagiato) la tentazione del gruppo sarà quella di svecchiare e incamerare forza lavoro giovane, adeguata e magari meno tutelata, grazie alla legislazione del lavoro e alla contrattazione a perdere di 20 anni. Occorre che i lavoratori anziani possano andarsene in pensione in tempi ragionevoli e senza troppe perdite, che la transizione sia favorita da ammortizzatori universali e consistenti, compreso il riaggiornamento professionale ai nuovi prodotti e che chi entra in azienda non abbia meno diritti di chi esce .
Ma bisogna, ed è insieme una misura difensiva ma anche di politica economica generale, che si prenda atto del minore contenuto di lavoro dei nuovi prodotti (innovazione tecnologica generalizzata) e che questo deve tradursi in alleggerimento della fatica per tutti i lavoratori. In sostanza, la riduzione di orario deve tornare ad essere oggetto di discussione politica e contrattuale. Le nuove auto evidenzieranno il problema a breve, ma tutti i settori sono segnati d questa tendenza e la risposta non può che essere generale.
3 Lo stato italiano deve intervenire. A parte la presenza dello stato francese nella proprietà di Psa, che ne rafforza il potere strategico, l’intreccio evidente tra scelte aziendali e scelte generali, tra prodotti e sostenibilità ma anche la massa di risorse necessarie per ripensare il settore e tradurlo in realtà obbliga a misurarsi, nel giusto tentativo di mantenere un comparto che è trainante per tutte le politiche industriali, con un ruolo della stato che non può essere quello accondiscendente cui siamo abituati da decenni. Lo stato deve definire un piano per la mobilità complessivo, in cui indica ruolo e caratteristiche della mobilità individuale, di quella collettiva basata su mezzi simili alle auto di oggi, di quella organizzata con vettori differenti (gli autobus, i tram, i treni, le navi, gli aerei e quella delle merci) e dice anche cosa intende sostenere e a quali condizioni. Cioè un intervento attivo in cui a risorse erogate corrispondano garanzie certe sulla sostenibilità dei prodotti, sul mantenimento dei posti di lavoro, sugli insediamenti produttivi.
Il PNRR,il più rilevante piano economico mai visto, indica la poca intenzione del governo Draghi di andare in questa direzione.
Un ruolo che, probabilmente, richiederebbe la presenza diretta nella proprietà della Stellantis, ma , sia chiaro, non in funzione di portatore di capitali ma di agente sociale nella gestione di uno dei maggiori produttori di mobilità.
Salvare la presenza effettiva di Stellantis in Italia, e a Mirafiori in particolare, è una necessità ma può diventare reale se si realizzano le molte condizioni cui abbiamo accennato.
Ma ce n’è una, tutta politica, che ci pare essenziale: la definizione di una vertenza nazionale sul comparto della mobilità che metta insieme le aziende del settore, gli attori pubblici, le università per produrre un progetto capace di orientare il settore per un futuro di medio periodo.Vertenza perché gli interessi sono differenti e solo il confronto (e lo scontro) potrebbe definire un punto di equilibrio.
Come successo tante volte, gli unici che possono farsi promotori di una iniziativa di questa portata, specie per le valenze sociali che implica, sono i lavoratori e le loro organizzazioni.
Ma la attesa fideistica che ci sembra ripongano nel mitico piano Tavares rischia di consegnare il tutto alle scelte di un gruppo ancora più spostato, nei centri di potere e negli interessi nazionali, fuori dal nostro paese.
Se il sindacato e la politica non si attiveranno a breve, rischieranno di ritrovarsi a gestire, come troppe volte è accaduto, solo le chiusure e i licenziamenti.
Non se lo possono permettere i lavoratori, non se lo può permettere neanche il sistema industriale italiano.
Giorgio Pellegrinelli
Dipartimento nazionale Lavoro Prc-Se.
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