Chi e perchè abbandona la sanità pubblica?
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La recente inchiesta denuncia di ANAOO sui medici in servizio pubblico segnala tramite un fenomeno un processo ben più profondo da non sottovalutare: l’inversione in atto del rapporto fra privato e pubblico nel Servizio Sanitario Nazionale.
I numeri sembrano ancora piccoli: parliamo del 2,9% dei medici che lasciano il pubblico passando al privato o alla libera professione. Ma queste cifre hanno subito un impennata negli ultimi tre anni precedenti il 2019, colpendo principalmente nelle regioni del nord e in Campania. Inoltre nel nord Veneto e Lombardia sono le regioni che hanno una manifestazione più veloce e massiva, mentre Emilia Romagna e Piemonte un andamento meno accellerato.
La Toscana va in controtendenza rispetto al 2009, quando ebbe maggiori dimissioni, lo stesso per Puglia, Calabria, Basilicata. Lo stesso Lazio ha subito questo fenomeno con fasi alterne in questi dieci anni.
In generale si può dire che le regioni del sud, stando sotto la media del 2,9% patiscano di meno del fenomeno,in particolare la Sicilia e la Calabria, con l’eccezione della Campania. Sulla Sicilia bisognerebbe aprire un capitolo a parte per la particolarità delle forme di governo della Sanità regionale condizionate dalla presenza della Mafia in questo settore molto più della Camorra.
Una delle ragioni che sembrano più credibili perché dimostrate dai numeri della ricerca di ANAOO è la riduzione dei posti dirigenziali e apicali per il comparto medico che può spingere alla fuoriuscita, conseguente ai tagli e accorpamenti delle aziende sanitarie negli ultimi venti, quindici anni.
Al blocco delle carriere, accentuato per la componente femminile in crescita, si aggiunge il lavoro sempre più sotto organico e con intensità e turni sempre più stressanti.
Lo sbocco nel privato di pregio diventa più apprezzabile al Nord e non a caso nel nuovo quadrilatero industriale ed economico disegnato fra Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna dove operano i due grandi gruppi del settore sanitario privato che sono il Gruppo S.Donato che vanta un fatturato di 2,1 miliardi e un patrimonio di quasi mezzo miliardo e il gruppo di Humanitas con 1 miliardo di fatturato, per metà sostenuto dalle convenzioni col SSN, e con un notevole investimento sulla ricerca.
Se guardiamo al fenomeno in Piemonte abbiamo un tasso di esodo dal pubblico superiore alla media, per 292 medici su 8.405 ancora attivi del SSR. Ma questi sono i dati del 2019.
Fra 2020 e 2021 sembra, senza dati, che il fenomeno abbia una sua continuità corporea. Nella provincia di Torino abbiamo avuto un esodo verso il Gradenigo e l’IRCCS di Candiolo, non a caso verso due poli con una certa attrattività, il primo per essere in gestione ad Humanitas e il secondo per essere un polo di eccellenza nel settore oncologico. Villa Pia rimane l’altro punto di approdo, ma prevalentemente per i medici e primari a fine carriera.
A questi dati andrebbero aggiunti anche quelli dello sviluppo dell’intramoenia, fenomeno che continua a persistere sotto la coperta del SSN vivendo in simbiosi con la crescita della lunghezza delle liste di attesa (l’ultimo dato ministeriale del 2016 vede il 47% dei medici in organico al SSN praticare la libera professione intramuraria, il 56% in Piemonte ). Con la Pandemia le insufficienze croniche del SSN e del nostro SSR in particolare sono state esaltate, alimentando la proliferazione dei servizi sanitari privatistici, come i molti utenti hanno avuto modo di verificare.
Pure l’intramoenia ha avuto un terreno fertile in questo clima di code allungate o bloccate. Particolarmente nei settori tradizionalmente soggetti ad un influente governo lobbistico e massonico delle svariate categorie di medici. La maggior incidenza di visite intramurarie a livello nazionale si hanno infatti nelle ginecologie (27%), nelle gastroenterologie (23%), nelle urologie (20%), nelle neurologie (17%), cardiologie (15%), nelle chirurgie vascolari (13%). Alcuni servizi di prenotazione sono letteralmente bloccati per favorire l’intramoenia, ed è detto tutto.
Abbiamo dunque due fenomeni che si intrecciano. La crescita e restaurazione delle vecchie lobby di governo nel mondo dirgenziale medico che tende ad escludere e bloccare le nuove generazioni di medici, favorendo le fuoriuscite, da una parte. Dall’altra, l’emergere dei nuovi colossi della Sanità privata, in grado di essere competitivi anche sulla fornitura di servizi di alto livello con la Sanità pubblica, diventando a questo punto, grazie anche alla occasione fornita dal Covid, di attrarre nuove risorse, nuovi medici di livello, nei propri ranghi.
Questa onda, attualmente, non coinvolge gli altri operatori sanitari. Soldati semplici e figli di un dio minore sono costretti a subire la concorrenza, specie nel privato, dei ben più economici (contrattualmente parlando) OSS e OSSS. Ma qui ci sono due elementi che entrano in gioco.
Il primo riguarda le differenze retributive fra pubblico e privato, particolarmente per gli infermieri, ma anche per gli OSS. Questo è un elemento fortemente frenante per un eventuale esodo dal pubblico al privato, considerando che le opportunità di maturazione professionale date dal pubblico sono e rimangono sempre più ampie.
L’altro concerne le caratteristiche prevalenti del privato sanitario (convenzionto) in Italia che, al di là dei fondi sovrani che investono sulla Sanità di eccellenza e di ricerca, vede una prevalenza dell’offerta di servizi standard quali quelli che si possono ritrovare nelle RSA. Tant’è vero che è proprio in queste strutture che si è vista una sostituzione progressiva in 20 anni del personale infermieristico con quello OSS.
Paradossalmente oggi è il personale OSS che abbandona il settore privato per entrare nel pubblico, iscrivendosi a tutti i bandi Covid fatti dal SSN in questi ultimi anni di pandemia.
Dunque il fenomeno dell’esodo dei medici è ben più di una rondine senza primavera, è un campannello d’allarme che ci segnala quanto il nostro servizio pubblico nel settore sanitario sia malato, ancora affetto da nepotismi e lobbismi da una parte, e dall’altra dell’approssimarsi di una nuova sanità privata (4.0??) con i capitali in grado di sotterrare la nostra Sanità pubblica, relegandola a cenerentola degli strati sociali più poveri, sulla falsa riga del modello sanitario americano.
L’unica strada percorribile è quella di favorire la crescita di una sanità della prevenzione e dell’educazione alla prevenzione, di una sanità che sia sul territorio, prossima alle esigenze e alle domande di salute, capace di intercettare i malesseri prima che questi vengano affrontati ormai quando è già tardi, quando solo tecnologia, specializzazione, alta professionalità sono l’unica salvezza. Anche qui, sulla ricerca e sulla pratica di nuovi modelli di cura, lo stato rimane l’unica strtuttura in grado di favorire lo sviluppo scientifico e la continua lotta al male, che caratterizza fin dall’antichità, l’azione della medicina.
Marco Prina
CGIL Moncalieri (TO)
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
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NOTA – Lo studio di Anaao Assomed
Medici, fuga dagli ospedali: In 3.123 si sono dimessi prima della pensione
Gettano la spugna, i medici ospedalieri: troppe incombenze, troppa fatica, troppo stress. Un fenomeno silenzioso ma preoccupante, nel presente e più ancora nel futuro, fotografato nello studio del sindacato Anaao Assomed. Se ne sono occupati Chiara Rivetti (Segretaria Anaao Assomed Piemonte), Costantino Troise (presidente nazionale Anaao Assomed) e Carlo Palermo (segretario nazionale Anaao Assomed)
L’esodo
Nel 2019, dai dati del conto annuale del Tesoro, il 2,9% dei medici ospedalieri ha deciso di dare le dimissioni, di lasciare il lavoro prima di andare in pensione, di licenziarsi. Si tratta di 3.123 colleghi, che hanno visto un’alternativa migliore nel privato o nel lavoro sul territorio: migliore dal punto di vista economico, forse, ma certamente di qualità di vita. Questa la premessa.
Rovesciamento di quadro
«Il lavoro in ospedale, infatti, non è più attrattivo – si spiega nella ricerca -. Pochi decenni fa, essere assunti a tempo indeterminato in un reparto ospedaliero era un traguardo, l’obiettivo. Era il posto fisso di prestigio, che dava soddisfazione professionale, opportunità di carriera, una certa sicurezza economica. Ci si realizzava. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di dimettersi dagli ospedali. Oggi non è più così».
I numeri
Il 2,9% rappresenta la media nazionale, ma il fenomeno ha interessato alcune regioni più di altre: nelle Marche, ad esempio, nel 2019, si è dimesso il 6,6% dei medici ospedalieri, a seguire il Veneto con 5,9%, poi Valle d’Aosta (3,8%) e Piemonte (3,5%).
Il Nord in sofferenza
Le regioni in cui maggiori sono le dimissioni volontarie sono quelle del Nord: è possibile che la ragione sia da ricercare nelle maggiori opportunità di lavoro nell’ospedalità privata o nel settore libero professionale. Spiccano le Marche al centro, al sud Campania e Calabria.
Un fenomeno a lungo termine
«Se poi analizziamo il trend degli ultimi 10 anni, i dati sono allarmanti: la percentuale di medici che si è dimessa dagli ospedali risulta in aumento in quasi tutte le regioni italiane – spiegano i ricercatori -. In numero assoluto si è passati da una media Italiana di 1.849 medici nel 2009 a 3.123 nel 2019. Ma se analizziamo le dimissioni in relazione al numero totale di medici dipendenti, in Italia si è passati dall’1,6% di dimessi nel 2009 al 2,9% nel 2019.
In 10 anni, medici che si licenziano sono aumentati del 81%. In Veneto, le dimissioni in 10 anni si sono quintuplicate, raggiungendo nel 2019 il numero di 465. In Lombardia, che nel 2009 contava numeri già alti, le dimissioni sono aumentate di 2,5 volte, nelle Marche e in Piemonte di oltre 3 volte».
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