L’ISOLA CHE NON C’E’: LA RETE TERRITORIALE

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Con la Pendemia tutti si sono accorti dell’importanza di avere un Servizio Sanitario Nazionale ben ramificato e fortemente coordinato. La devastazione del Covid in Lombardia ha messo a nudo un modello fondato solo sulla rete ospedaliera più o meno di eccellenza privo di articolazioni territoriali che aveva appena iniziato a smantellare la rete dei medici di famiglia. Abbiamo pure visto come il modello opposto, fondato su una robusta rete territoriale e preventiva, come quello veneto, abbia ben affrontato la prima ondata (un po’ meno la seconda, ma per macroscopici errori nella gestione regionale).

Tutti ne sono usciti da queste due ondate epidemiche con la consapevolezza di rafforzare le reti territoriali, la cosidetta “medicina di prossimità”.
Ma poi sul Recovery Plan hanno destinato meno soldi alla Sanità, più soldi all’innovazione tecnologica digitale, macchinari, telemedicina. Tutto bene, ma col rischio che gli investimenti vengano ancora una volta dalla medicina ricca degli ospedali a discapito di quella povera del territorio, degli ambulatori, delle case della salute e dei medici generici di base.

A livello regionale, ad esempio in Piemontese, non ci sono progetti preentati che valorizzano o che puntino sulla sanità e in particolare sulla medicina territoriale. Buona parte dei progetti sono concentrati sui primi 5 assi del PNRR e pochi sul 6 della Salute.
Se andiamo a vedere sia nelle pagine del PNRR che nella nostra semplice realtà regionale mancano progetti e focalizzazioni sul tema della prevenzione e dell’educazione sanitaria, come nei numeri delle assunzioni sui servizi che dovrebbero fare e rendere viva la prevenzione a livello territoriale, nei SISP, come negli ambulatori, come nei comuni.
Nonostante le grandi parole di Brunetta sulle riforme e sulle necessarie assunzioni nei ministeri e nei comuni di nuovo personale.. precario (a tempo determinato), Speranza tace ancora su programmi di assunzioni nella sanità e in specie in quel fantasma che risulta essere la medicina territoriale così martirizzata in dieci anni di tagli.

Se guardiamo i numeri dei medici di famiglia siamo al di sopra di 1 medico ogni 1000 abitanti, con 53.109 medici al 2018. Nel frattempo hanno iniziato molti ad andare in pensione. Così come molti altri andranno nei prossimi anni.
Sempre prendendo come esempio la Regione Piemonte, abbiamo 6.053 medici di famiglia, con una rete di appena 64 case della salute a fronte di 95 strutture ospedaliere, circa 200 ambulatori.

Abbiamo una primaria carenza di personale medico generale, abbiamo l’invecchiamento dei medici di famiglia ancora in forza (età media 50-55 anni), abbiamo una debolezza nel rapporto di libera professione convenzionata con il SSN che ne penalizza vincoli, rapporti, integrazione nel SSN nonché la qualità e gli obblighi professionali nell’aggiornamento continuo.

I medici di medicina generale manifestano una scarsa integrazione con la rete sanitaria regionale e particolarmente con quella sul territorio, tanto da rendere sempre difficili i passaggi di consegna e le comunicazioni con un servizio e l’altro. Così come l’aggiornamento è demandato al singolo medico che diviene facilmente fagogitato dalla rete formativa privatistica gestita dalle case farmaceutiche.
Il passaggio a un rapporto di lavoro da dipendente pubblico del medico di medicina generale è stato completamente cancellato dall’agenda politica, quando fu per lo meno segnalato da qualche improvvido “statalista”.
La tendenza generale corre ormai verso il polo opposto della privatizzazione dei servizi sanitari e della precarizzazione del nuovo lavoro che verrà generato dal PNRR, in particolare nel SSN.

Il fatto stesso che il rapporto di lavoro pubblico dell’infermiere non sia più soggetto ad esclusività, facilitandone l’ingaggio nella sanità privatistica, segnala ulteriormente quali sentieri intenda percorrere l’attuale alleanza di governo nella gestione dell’economica nazionale in questi sette anni di Recovery Plan. Anche qui la mossa normativa di apparente valorizzazione della figura infermieristica, che ricorda quella sull’istituzione dell’infermiere di comunità o di territorio nella rigorosa forma della convenzione, è solo un cavallo di troia filosofico che tende a smantellare pezzo dopo pezzo dall’interno l’idea dello stato e del pubblico nella gestione diretta del servizio sanitario.

Di conseguenza il rischio di vedere rafforzate le componenti private proprio nelle reti di assistenza territoriale, sia nelle forme del Terzo Settore che delle grandi Fondazioni finanziarie alla ricerca di investimenti sicuri e redditizi, è molto forte. E’ già in parte scritto nelle oltre 300 pagine del PNRR.
La possibilità di dare concessione o in appalto buona parte dei servizi territoriali è concreta. Senza miglioramento del servizio, perché con il sistema delle concessioni, convenzioni, appalti si allunga solo la catena di comando e di cordinamento dei servizi, complicandone l’organizzazione e con essa la resa quantitativa e qualitativa dei servizi.

Un banco di prova importante sarà quello della gestione della prevenzione e vaccinazione anti-Covid. L’onerosa ma efficace politica degli hub vaccinali verrà smantellata per far posto ai medici di famiglia e alle farmacie, non potendosi lo Stato garantirsi un ulteriore indebitamento fuori dal picco emergenziale.

Il grande rischio di scaricare sulla gestione privata l’organizzazione delle future campagne vaccinali è molto forte, con alti rischi che una dotazione di medici di famiglia insufficiente senza supporto di locali adeguati e di personale aggiunto che non sia a proprie spese si traduca in una terribile Waterloo per il nostro SSN, aprendo un varco all’insorrgenza di nuovi focolai epidemici.

Redazione Lavoro Salute

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