COSE DELL’ALTRO MONDO (D’OLTRE OCEANO)!

Il Paese che, armi in pugno, riteneva di essere votato a svolgere l’ingrato e gravoso compito di “esportare democrazia”: dal Nicaragua (1) al Vietnam e fino all’Iraq e all’Afghanistan, dimostra di avere – evidentemente – ecceduto!

Potrebbe essere questa la benevola considerazione di un osservatore “esterno” secondo il quale gli innumerevoli interventi “umanitari” degli Usa – generosamente e disinvoltamente dispensati in ogni parte del mondo – abbiano finito con il produrre una situazione di deficit “interno”, in termini di agibilità democratica, che solo chi resta ancora prigioniero del fantomatico “sogno americano” e delle leggende metropolitane legate ai miracoli dei “self made men”, può concedersi il lusso di continuare a negare.

In verità, su questo tema, ho già avuto altre occasioni per esprimere il convincimento secondo il quale, negli States, alla definitiva affermazione del sistema capitalistico sia corrisposta la conclusione di quella che Luciano Gallino definiva “La lotta di classe dopo la lotta di classe”.

Ciò significa che le classi dominanti transnazionali che fino ad appena il secolo scorso erano state costrette a cedere parte dei loro immensi privilegi – penso, relativamente all’Europa e al nostro Paese, all’estensione dei diritti dei lavoratori e alla conquista di sistemi pubblici di protezione sociale – hanno intrapreso una vera e propria controffensiva tesa a recuperare antichi poteri e privilegi.

Tra l’altro, è abbastanza noto che negli Usa la lotta di classe non è stata condotta contro un sistema di protezione sociale che non è mai esistito quanto, piuttosto, contro qualsiasi ipotesi di introdurne qualche elemento.

È sufficiente ricordare lo scontro frontale (e il durissimo conflitto che ne seguì) con le lobbies delle Compagnie assicuratrici, gli stessi medici e, incredibilmente, tanta parte di semplici cittadini – che paventano, addirittura, l’introduzione di elementi di “socialismo” – prodotto dall’idea di Obama di garantire a ben 32 mln. di americani, sui circa 46 mln che ne erano sprovvisti, un’assistenza sanitaria a prezzi più contenuti. Fermo restando, naturalmente, l’obbligo di ricorrere alla stipula di polizze di assicurazione private; tutt’altro che un pur timido tentativo di sovvertire l’ordine precostituito!

A ciò si aggiunga la ferrea determinazione nel sostenere e difendere, ad ogni costo, un sistema politico-sociale che, oggettivamente, oltre ad avere poco in comune con quella “democrazia” che si pretende, addirittura, di esportare, si dimostra, in realtà, indiscutibilmente antidemocratico ed “escludente”.

Naturalmente, non approfondirò qui nessuna di quelle questioni che, a mio parere, rappresentano le più palesi contraddizioni presenti nella “democratica” società d’oltreoceano. Mi limiterò ad indicarle per capitoli.

A partire da un sistema elettorale nel quale, per esercitare il diritto di voto, è indispensabile l’iscrizione alle liste elettorali, seguono:

1) un sistema giudiziario nel quale l’assoggettamento del Pm all’Esecutivo e il suo carattere di “eletto”, a mio avviso, compromettono pesantemente la regolarità del processo e l’amministrazione della giustizia,

2) un sistema carcerario – per lo più affidato ai privati – e un apparato penale (2) nel quale è stato definitivamente abbandonato il principio della proporzionalità della pena al reato, in nome dell’idea di estromettere i detenuti dal contesto sociale,

3) un sistema scolastico ed educativo fortemente “classista”, nel quale, in nome di una falsa “meritocrazia”, si opera, sin dalle prime classi, una “selezione naturale” che favorisce esclusivamente gli studenti appartenenti a nuclei familiari benestanti,

4) un sistema sanitario che ha come pilastro insostituibile le compagnie di assicurazione private e che, come brevemente già anticipato, esclude una popolazione americana corrispondente più o meno a quella dell’intera Argentina.

Senza dimenticare la vera e propria “criminalizzazione” della miseria (3), che fa dire a Elisabetta Grande: “Il diritto non si accontenta però di produrre povertà: dopo aver creato il povero, lo perseguita proprio in quanto tale”.

Trattasi, però, di un contesto sociale consolidatosi e, fondamentalmente, condiviso da Repubblicani e Democratici.

Proprio quello che, personalmente, reputo invece un problema politico di non poco conto: la presenza di due forze la cui alternanza, alla guida della nazione, non ha mai prodotto, nel corso degli anni, alcuna eclatante difformità; anzi, nessuna sostanziale discontinuità rispetto al passato!

Taluni hanno spesso sostenuto che il “passaggio di testimone”, dai Repubblicani ai Democratici e viceversa, abbia prodotto – di volta in volta – un cambio di rotta; soprattutto rispetto alla politica estera degli Usa. Ebbene, anche su questo versante, la storia degli ultimi 70 anni dovrebbe indurci a prendere atto che quando ciò si è verificato ha avuto solo effetti formali.

In questo senso, si può affermare con assoluta certezza che, a partire da Harry Truman (guerra di Corea), non ci sia stato nessun Presidente, repubblicano piuttosto che democratico, che abbia esitato più di tanto ad avviare o proseguire una guerra; in qualsiasi angolo del mondo!
Sia sufficiente rilevare, a titolo di esempio, che fu, di fatto, il democratico John Fitzgerald Kennedy l’iniziatore della sciagurata escalation del conflitto in Vietnam, così come erano democratici il Jimmy Carter sostenitore dei mujaheddin afghani contro l’Unione Sovietica e il Bill Clinton che inviò le truppe americane in Somalia, ordinò i raid aerei contro i serbi di Bosnia e fu protagonista della guerra del Kossovo.

Persino il Presidente Usa insignito dell’alto riconoscimento del Nobel per la Pace, Barack Obama, oltre agli interventi in Siria, Iraq e Afganistan non si privò di far bombardare lo Yemen, la Somalia e il Pakistan!

Certificata, quindi, la sostanziale assonanza operativa, tra Repubblicani e Democratici, in tema di politica estera – intesa, soprattutto, quale tutela dei prioritari interessi Usa – resterebbero da evidenziare eventuali tematiche e materie di aperto confronto rispetto a due diverse concezioni di società civile.

Ebbene, sarà forse un mio limite, ma confesso di avere grandi difficoltà nell’individuare temi di rilevante confronto tra i principi ispiratori delle politiche “interne” repubblicane rispetto a quelle dei democratici.

D’altra parte, appare ragionevolmente arduo immaginare pur contenute “inversioni di tendenze” – rispetto alla politica interna al Paese – fino a quando le multinazionali del tabacco, delle armi, della farmaceutica, della grande industria, della finanza e delle assicurazioni, continueranno a far affluire centinaia di mln. di dollari tanto nelle casse dei Repubblicani quanto in quelle dei Democratici. Solo inguaribili illusi, accondiscendenti commentatori e “marziani” improvvisamente catapultati presso le Redazioni de “La Repubblica”, “Corriere della Sera” e “La Stampa” potrebbero sperare in qualcosa di diverso!

Certo, molti (probabilmente) ricorderanno con me quel “libro dei sogni” che fu diffuso quale “Programma” dei Democratici da attuare nel caso di vittoria di Biden. Alla fine, però, anche Trump è risultato sconfitto ma, a onore del vero, i grandi segnali di discontinuità, anche in politica interna, tardano ad appalesarsi!

Anzi, da quello che riportano le cronache dei maggiori quotidiani stranieri – nel nostro Paese esiste una certa ritrosia nel dare risalto a problematiche Usa di questa natura – le insofferenze del popolo Usa non sono destinate ad esaurirsi.

È di questi giorni la notizia secondo la quale, nel Texas, lo Stato Repubblicano in cui è già più difficile esercitare il diritto di voto, potrebbe diventare in futuro molto più difficile!

Nel Texas sono oltre 3 mln, su circa 29 mln di cittadini, le persone non “registrate” e che, di conseguenza, già oggi non possono esercitare il diritto di voto.

Non ancora soddisfatti, i Repubblicani erano stati promotori di un disegno di legge tendente, in sostanza, ad introdurre ulteriori limitazioni alla possibilità di votare: dal divieto delle cassette postali per il voto per corrispondenza, alla richiesta agli elettori con disabilità di qualificarsi in quanto tali e fino al taglio delle ore di voto domenicali. Dopo le aspre proteste pubbliche, qualche disposizione è stata ritirata ma sono state aggiunte altre procedure che mirano, comunque, a ridurre la partecipazione popolare.

A solo titolo di deprecabile esempio, riporto che, ai fini dell’identificazione dei votanti, un permesso per il rilascio del possesso di una pistola è una forma di identificazione accettabile, mentre non lo è un documento d’identità rilasciato dall’Università di Stato!

Purtroppo, l’efficacia delle norme antidemocratiche vigenti nel Texas (e in tutti gli altri Stati) – tendenti a ridurre la libertà di voto (formalmente costituzionale) dei cittadini – è confermata dal dato statistico secondo il quale, nonostante le ultime elezioni presidenziali abbiano registrato la più alta affluenza alle urne degli ultimi 30 anni, il Texas si è ancora classificato al 44° posto tra gli Stati per affluenza alle urne.

Ciò produce, tra l’altro, effetti che definirei allucinanti.

È il caso di un certo Hervis Earl Roger che, all’epoca delle primarie presidenziali del marzo 2020, divenne una celebrità in Texas per avere avuto la costanza di aspettare ben 7 ore in un seggio elettorale prima di poter adempiere a quello che riteneva suo dovere civico.

Ebbene, oggi lo stesso Roger risulta arrestato e, accusato di avere votato illegalmente in due occasioni (nel 2018 e poi nel 2020) – perché in regime di “libertà condizionale” – rischia da 2 a 20 anni di carcere per ciascuno dei due voti espressi.

Un provvedimento assolutamente inconcepibile, che pone gli Usa sullo stesso piano di quegli Stati “canaglia” cui vorrebbero dare lezioni di democrazia. Ma quale “democrazia”, quella che distrugge la vita di un uomo per avere adempiuto a un diritto/dovere che fa parte dell’abecedario dei diritti civili?

Per concludere: fino a quando continuare ad immaginare che la democrazia possa essere considerata compatibile con situazioni di questo tipo che, purtroppo, non rappresentano l’eccezione ma la normalità per la stragrande maggioranza degli States?
“Ai posteri l’ardua sentenza”, affermò il grande poeta e romanziere.

NOTE
1– Prima ancora, nelle Filippine (45-53), Corea del Sud (45-53), Cina (45-49), Grecia (47-49), Albania (49-53), e in qualsiasi altra parte del mondo.
2– Di grandissimo interesse, in questo senso, “Il terzo strike. Le prigioni in America”, di Elisabetta Grande; Ed. Sellerio.
3– Della stessa autrice “Guai ai poveri. La faccia triste dell’America”; Ed. Gruppo Abele.

Renato Fioretti

Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute

19/7/2021

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *