I malati invisibili: chi sono?
Viviamo in una società in cui non tutte le persone sono uguali: ci sono quelle sane e quelle malate, ci sono i malati di serie A e di serie B.
Chi è invisibile non esiste, non ha voce, non può difendersi e nemmeno chiedere aiuto.
Questa è la mentalità sbagliata che bisogna assolutamente cambiare. Se una cosa non si vede non vuol dire che non c’è. Siamo abituati a pensare alla malattia come qualcosa di evidente, mentre il dolore, che non si può vedere, tendiamo a non comprenderlo, a sminuirlo, a banalizzarlo, a negarlo.
Chi è un malato invisibile? Lo può essere chiunque: donne, uomini, bambini, anziani abbandonati a sé stessi perché, purtroppo, per lo Stato, la società e per il Servizio Sanitario Nazionale non esistono (e da quando è iniziata la pandemia è ancora peggio, sono stati proprio dimenticati. Esiste solo il Covid). Non hanno diritto a cure, assistenza, considerazione e tutto questo semplicemente perché la loro malattia non è visibile non comportando nessun segno evidente sul corpo. Sono ritenute persone normali e, perciò, vengono accusate di essere delle ipocondriache. Sono i cosidetti malati immaginari, il loro malessere viene visto come un problema psicologico.
Parlo di malattie debilitanti per chi ne è affetto come le malattie mentali, lupus, diabete, emicrania, fibromialgia, endometriosi, fibrosi cistica, vulvodinia, nevralgia del pudendo, morbo di chron, spondilite anchilosante, artrite psoriasica, cancro, sclerosi multipla e moltissime altre. Tutte patologie, che purtroppo, hanno un ritardo diagnostico di anni perché poco conosciute. Eppure, una maggior conoscenza e una diagnosi precoce sono fondamentali perché permettono di controllarne il loro sviluppo limitando il più possibile le conseguenze sulla salute.
‘’Ma non sembri malat*’’, è una frase che molte persone che vivono con una malattia invisibile si sentiranno dire. Spesso le persone parlano senza rendersi conto di ciò che dicono, capiscono solo quello che vedono e non vogliono andare oltre. Ed è un grosso problema che queste malattie non siano visibili perché ciò comporta delle enormi difficoltà quando si tratta di spiegare gli effetti che hanno nella vita delle persone, soprattutto se si parla con chi non sta vivendo una situazione del genere. Frasi come questa citata sopra non vengono dette con cattiveria, chi le dice sicuramente le intende come dei complimenti, ma queste parole possono minare la consapevolezza riguardo la serietá delle malattie invisibili.
Purtroppo, viviamo in una società in cui moltissime malattie croniche continuano ad essere invisibili, e perciò, ignorate, derise.
Solo chi vive con una malattia cronica può capire veramente cosa significhi averla e cosa comporti. Si tratta di fare un viaggio lento e solitario dove la prima tappa è la ricerca di una diagnosi definitiva per “tutto quello che mi sta accadendo”. Non è assolutamente facile perchè possono passare anni prima che una persona riesca a trovare un nome per quello che ha. Dopo tutto questo, quando finalmente si ha la diagnosi, secondo me arriva la parte più complessa: trovare una qualità di vita con il dolore come compagno di viaggio. Accettarlo e conviverci, far sì che non sia lui a prendere il comando.
È questa una delle sfide che le persone che convivono con queste malattie devono affrontare quando parlano in particolare con amici e familiari, che potrebbero non riuscire a comprendere facilmente una malattia di cui non vedono gli effetti. Anche perché magari rimani chius* in casa imbottit* di antidolorifici per un paio di giorni e poi all’ improvviso ti vedono uscire e sfoggiare il tuo sorriso più bello. E cosí pensano che stavi facendo la vittima. E invece no!! Ogni giorno ci sono sfide nuove e diverse ed esiste una ragione dietro ogni azione.
Vivere con il dolore cronico non è una scelta. È fondamentale che venga riconosciuto e diagnosticato prima possibile in modo da poter essere trattato precocemente ed evitare cosí il peggioramento di qualità di vita. Purtroppo è spesso sottovalutato. Non ha uno sguardo, non fatevi ingannare dalle apparenze!! Non ha pietà per nessuno!!!
Tutto questo è vivere con una malattia invisibile: combattere contro l’ ignoranza, i pregiudizi, i tabù, diagnosi tardive portando così la persona affetta a stancarsi di parlarne, di dire di stare male e a nascondersi. Non ne può più di non essere compresa e creduta. Preferisce starsene tutta da sola in un angolo nel suo dolore.
Sarebbe ora di smetterla perché nessuno ha diritto di distruggere una persona con accuse del genere.
LA TEORIA DEI CUCCHIAI molto utile per far comprendere la convivenza assieme ad una malattia cronica. Ideata da Christine Miserandino quando una sua amica le chiese com’era vivere con il Lupus.
Le due ragazze si trovavano insieme a pranzo, cosí Christine alla domanda della sua amica, prese una dodici cucchiai, glieli consegnò dicendole di immaginare che ogni azione della vita quotidiana (quali svegliarsi, farsi la doccia, guidare, andare al lavoro, far da mangiare, fare un aperitivo, andare al cinema, fare esercizio fisico, eccetera) costasse un certo numero di cucchiai. I sani ne hanno una quantità illimitata, ma è ben diverso quando si convive con una disabilità o una malattia cronica i cucchiai del giorno a confronti sono limitati, per questo è necessario fare molta attenzione alla scelta di come usarli per evitare di arrivare a fine giornata completamente disintegrati . L’energia, per molti di noi con malattie croniche, è limitata e dipende da molti fattori, inclusi i livelli di stress, il modo in cui dormiamo e il dolore.
Quando i cucchiai son finiti l’ unica cosa da fare è andare a dormire aspettando l’indomani per averne ancora. A volte si può prenderne in prestito qualcuno dal giorno dopo, rischiando di non averne abbastanza per l’indomani. Secondo Christine la grossa differenza tra salute e malattia sta proprio nel fatto che chi è sano può concedersi il lusso di non dover contare i cucchiai e scegliere per cosa usarli, di non doversi fermare a pensare, per ogni piccola cosa, se resteranno abbastanza cucchiai per concludere la giornata.
<< […]La differenza tra essere malati e essere sani sta nel fare delle scelte o pensare coscientemente a cose che il resto del mondo può tranquillamente ignorare. La persona sana si può permettere il lusso di una vita senza scelte, un dono che molte persone danno per scontato. La maggior parte delle persone inizia la giornata con un numero illimitato di possibilità e l’energia necessaria per fare qualunque cosa desideri fare, soprattutto se giovani. Per lo più, non deve preoccuparsi degli effetti delle loro azioni. Dunque, per spiegarlo ho usato appunto i cucchiai. Volevo qualcosa che lei potesse realmente afferrare, e che io potessi poi sottrarle, dato che la maggior parte delle persone che si ammalano la sente come una “perdita” della vita che conoscevano prima. […]Quando devi pianificare le tue giornate, hai bisogno di sapere esattamente con quanti “cucchiai” stai iniziando la tua giornata.
Le
ho chiesto di elencare i compiti della sua giornata, compresi i più
semplici. […] Quando si è buttata direttamente sul prepararsi per andare
a lavoro l’ho stoppata e le ho preso un cucchiaio. Le ho detto: “No,
non ti alzi di punto in bianco. […] Devi strisciare fuori dal letto e
poi devi prepararti qualcosa da mangiare prima di poter fare qualsiasi
altra cosa, perché se non lo fai non puoi prendere le tue medicine e se
non lo fai allora tanto vale che lasci tutti i tuoi cucchiai per oggi e
anche domani”.
Le ho tolto via un cucchiaio velocemente e
lei si è resa conto di non essersi ancora vestita. Fare la doccia le è
costato un altro cucchiaio, solo per lavarsi i capelli e depilarsi le
gambe.
[…] È stata costretta a fare delle scelte e a
pensare le cose in modo diverso. Ipoteticamente, ha dovuto scegliere di
non fare la spesa, per poter cenare quella sera.
Quando siamo arrivate alla fine della sua finta giornata, […]erano solo 19.00, e aveva dunque il resto della serata ancora, ma probabilmente sarebbe rimasta con un cucchiaio, quindi poteva fare qualcosa di divertente, oppure pulire il suo appartamento, o fare le faccende, ma non poteva fare tutto.
È difficile, la cosa più difficile che abbia mai dovuto imparare a fare è rallentare, e non fare tutto. Questa è stata la mia battaglia fino ad oggi. Odio sentirmi lasciata fuori, dover scegliere di rimanere a casa, o non fare le cose che voglio fare. Volevo che sentisse la frustrazione.[…] Mi manca quella libertà. Mi manca il non dover mai contare i miei “cucchiai” >>
Michela Masat
13/8/2021 https://www.intersezionale.com
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