La memoria usata come politica contro la storia
«La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. (…) Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi (…) Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo».
È possibile mettere in dubbio questa testimonianza di Primo Levi? I leader europei Michel, Sassoli e von der Leyen hanno scritto, nella loro dichiarazione su Auschwitz, che sono state le «forze alleate» a liberare quel campo di steminio. Formalmente è corretto, ma l’espressione «forze alleate» indica generalmente la parte anglo-americana dell’alleanza antifascista. Le ragioni tutte politiche dell’attuale confronto della Ue e degli Stati Uniti con la Russia sono alla base di un falso storico che continuamente ripetuto può diventare senso comune.
È in questo contesto che va analizzato quell’amalgama di estremo ridicolo e, nello stesso tempo, di estremo pericolo, che ha contraddistinto gli svolgimenti della vicenda Montanari. Il ridicolo di Meloni che accusa lo storico dell’arte Montanari di voler fare «carriera» con l’antifascismo visto che manca di «talento specifico». Montanari il cui «talento specifico» è giudicato dalla comunità scientifica di appartenenza, ha espresso il suo giudizio «politico» con riferimento ai risultati della ricerca di una storiografia professionale. Cioè di una storiografia per cui le ragioni della conoscenza si basano sulle «regole della logica e del metodo» (Max Weber, 1919).
In questa «guerra», purtroppo, ad essere vera forza non è il «talento specifico» di Montanari e degli studiosi, bensì quello delle Meloni, degli Orban, dei Kaczyski, di quell’ampio schieramento politico che in Europa è intento a edificare nuove storie nazionali mediante la ricostruzione della memoria collettiva sul modello dell’ «invenzione della tradizione». Un’operazione guidata direttamente dalla politica che non solo non cerca alcun supporto nella storiografia professionale, ma vede in questa attività, guidata dalle «regole della logica e del metodo», un ostacolo da travolgere, o per lo meno da ridurre in un ghetto autoreferenziale.
Per coloro che considerano il 1945 la data della sconfitta di una continuità nazionale, una ricostruzione delle memoria che li trasformi da colpevoli in vittime, significa la possibilità di cancellare le fasi orribili della propria storia. La politica della memoria, quindi, si manifesta programmaticamente come politica contro la storia.
Esemplare il caso della Polonia dove il governo ha fondato addirittura un Istituto della Memoria Nazionale, deputato a rivendicare la continuità tra la Polonia degli anni Trenta e quella rifondata a partire dagli anni Novanta. Una continuità, quindi, con istituzioni politiche parafasciste, con una legislazione antiebraica, con la diffusione, nel 1936-1937, di pogrom in tutto il paese, con un ministro degli esteri che metteva in conto la possibilità di trasferimento degli ebrei polacchi in Madagascar.
Un itinerario comune a quasi tutti gli Stati dell’Europa centro orientale. «Nello stesso giorno io dovrei onorare la memoria dei miei parenti ebrei, morti per mano delle SS lettoni in un rogo da loro appiccato nella città di Slonim in Bielorussia, e quelle stesse SS, decedute successivamente nei combattimenti con le truppe sovietiche, e che oggi hanno un monumento a loro dedicato in Lettonia». Così ha commentato Alexey Miller, storico russo liberale, uno dei più autorevoli studiosi delle politiche della memoria.
Gli sconfitti del ’45 in Italia sono partecipi, non secondari, di questa stessa logica nella politica della memoria. Nonostante il post-1945 italiano abbia avuto un segno del tutto diverso rispetto a quello dell’est Europa, risultano evidenti le lunghe continuità.
Il fascismo carsico ha attraversato tutta la storia italiana dopo il 1945, ed oggi ha referenti politici assai popolari. In primis Meloni e il suo partito che orgogliosamente ostenta la fiamma che esala dal tumulo funebre di Mussolini, ed anche un assai ampio schieramento esterno a quel partito, ma interno alla medesima temperie politica.
Pensare che, in assenza di una sinistra all’altezza della sfida in corso, sia sufficiente fare bene il proprio mestiere di storici per contrastare questo spirito del tempo, è solo un’illusione.
Paolo Favilli
16/9/2021 https://ilmanifesto.it
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