Da Viareggio a Milano: giustizia a binario unico
La sorte ha voluto che le motivazioni delle sentenze per il crimine ferroviario di Viareggio e gli omicidi da amianto alla Scala di Milano venissero depositate a poche settimane l’una dall’altra, confermando una visione sfavorevole alle vittime di parte della Magistratura.
A Viareggio le aggravanti per violazione delle norme di sicurezza sono state disconosciute rispetto ai precedenti gradi di giudizio. Ciò ha determinato una revisione della posizione dei responsabili, tra cui l’ex ad Mauro Moretti, con in vista una riduzione di pena e la tagliola della prescrizione. A questo si aggiunge l’odiosa richiesta di restituzione delle statuizioni ad alcune parti civili, tra cui i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. In quel caso, i lavoratori interessati (i macchinisti) hanno evitato la morte durante il deragliamento e l’esplosione del treno applicando il diritto (art. 44 d.lgs. 81/2008) alla fuga dal posto di lavoro. Non vi è stato infortunio né decesso di lavoratori, ma il rischio era palesemente lavorativo: un treno è un’attrezzatura di lavoro, come accertato durante il processo, la manutenzione non era corretta e il contesto (la linea ferroviaria) non aveva pieni requisiti di sicurezza, tutti frutti dello spezzatino causato dalla liberalizzazione del trasporto ferroviario. La questione sui rischi lavorativi ferroviari appariva superata dalla sezione IV della Cassazione (sentenza 48376 del 7.12.2015): «Non si rinviene alcuna norma che escluda l’applicazione del d.lgs. 81/2008 per i lavoratori delle ferrovie o che dichiari la sua incompatibilità con le disposizioni del dpr 753/1990 … è esplicitamente previsto che le sue disposizioni si applicano in tutti i settori di attività privati o pubblici”.
La sentenza aggira la questione con un distinguo che ha l’amaro sapore del cavillo: “che sia stata violata una norma prevenzionistica (…) non garantisce che l’evento sia stato commesso proprio con violazione di essa”, esplicitato nell’affermazione “nessun potere spetta al datore di lavoro nei confronti di persone circolanti al di fuori della stazione». Ma il trasporto di sostanze pericolose può determinare rischi non contenibili nella sede ferroviaria, che allora come oggi erano e sono prevedibili e dunque prevenibili per i lavoratori come per i residenti delle zone attraversate.
Alla Scala di Milano, la sentenza sulle patologie e i decessi di lavoratori e lavoratrici esposti per decenni all’amianto degli arredi e delle attrezzature del teatro introduce un’ulteriore beffa per le vittime. Secondo il giudice i datori di lavoro che si sono succeduti si sono resi conto del rischio e hanno preso provvedimenti, ma solo dopo l’entrata in vigore della legge 257 del 1992 che vieta l’utilizzo di amianto. In precedenza, quindi, erano dispensati da qualunque obbligo valutativo, preventivo e protettivo. Ma l’asbestosi è una malattia professionale riconosciuta “in qualunque attività …. che esponga a polveri di amianto” dal Regio Decreto 455 del 1943. Se le prime norme esplicite sono solo del 1991 (d.lgs. 277/91) è altrettanto vero che almeno dagli anni ’50 (dpr 303/1956) che “nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti a impedirne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambienti di lavoro”, inclusa la misurazione e la sostituzione del materiale. Quindi incolpevoli, ma per ignoranza e tardività o imprecisione (le fibre non sarebbero polveri) del legislatore. Ha pesato anche una tesi discutibile, formulata dai migliori scienziati pagati dalle difese, per cui la cancerogenesi da amianto è dovuta a sinergie che non rendono individuabile una dose killer. Il colpevole va ricondotto alla prima esposizione che è molto remota nel tempo (i periodi di latenza dei mesoteliomi sono di 20/40 anni), come se le esposizioni successive fossero ininfluenti.
Ciò che unisce queste sentenze è una regressione giurisprudenziale che tende ad assolvere il datore di lavoro ogni qualvolta la sua azione o mancata azione non sia riconducibile a un “esatto, completo e definito nei dettagli” precetto normativo. Sempre più numerose sono perciò le sentenze che negano responsabilità del datore se emerge una qualunque azione del lavoratore concausale l’infortunio. Una direzione opposta a quella che, per azione dei movimenti (Porto Marghera su tutti), si era spinta verso la tutela della dignità e della sicurezza del lavoratore/lavoratrice in attuazione concreta dei principi, oltre che dei dettati normativi. Ricordiamo l’opera e l’azione del giudice del Lavoro di Milano Romano Canosa.
«Mala tempora currunt» per i lavoratori, la causa non è lo sfavore degli dei ma il cumulo di norme che prima e dopo il Jobs act hanno tolto loro dignità riportandoli in una realtà di precarietà e ricatti che rendono difficile organizzare l’autotutela. La debolezza e la minorità dei movimenti per la sicurezza favoriscono queste sentenze. Non solo, tra le pieghe della «riforma della giustizia», vi è la previsione di limitare fortemente che parti civili – associazioni portatrici di interessi generali – possano costituirsi nei processi coadiuvando le vittime nella ricerca delle responsabilità e nella affermazione dei propri diritti lesi. Oltre al danno, la solitudine di fronte al garbuglio della giustizia.
Marco Caldiroli
Presidente Medicina Democratica
21/9/2021 https://ilmanifesto.it
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