I sommersi e i dimenticati. Le frontiere di cui non si vuole parlare.
Superati i primi momenti, quelli che ci allontanano dal fatto di cronaca che ci ha scosso, impressionato, addolorato (il naufragio del 18 aprile 2015) finiscono le parole, i commenti, la retorica – buonista o meno che sia – e tutti, morti e condannati a morte, finiscono nel dimenticatoio. Vie di fuga non vuole dimenticare, lasciar cadere per lasciare spazio ai resoconti su politiche irragionevoli come quella sbandierata da alcuni giorni sulla distruzione dei barconi. Il 2015 ha tutte le carte in regola per essere un anno di arrivi record. Se nel 2014 abbiamo contato 170.000 arrivi per quest’anno le stime parlano di 250.000. Ma questo potrebbe non essere l’unico record, infatti dall’inizio dell’anno sono già morte 2.000 persone su un totale di 20.000 arrivi; il 10%. Duemila persone, annegate una dopo l’altra mentre l’Europa si ostina a difendere Triton, che vede raddoppiato il budget dopo il 18 aprile, e nega persino la possibilità di parlare di corridoi umanitari. Ma quella delle frontiere che grondano sangue non è solo una questione europea, è una questione ben più ampia che riguarda tutto i paesi del nord del mondo. E se oggi noi guardiamo il Mediterraneo come a una tomba d’acqua, gli Stati Uniti d’America guardano il confine con il Messico come una tomba di sabbia. Anche qui le cifreattestano migliaia di morti e, è importante sottolinearlo, sono sempre cifre per difetto, infatti riguardano solo i corpi ritrovati lungo il confine, sia dallo statunitense Department of Homeland Security Border Safety Initiative che dal messicano Secretariat of Foreign Relations. In questi numeri non trova spazio chi perde la propria vita durante il tragitto, il viaggio parte per la maggior parte da un altro confine quello del Messico con l’America Latina, o chi subisce danni permanenti come la perdita di un arto o chi deve sopportare violenze e abusi. Altra frontiera foriera, se non di morti, di abusi dove la negazione del diritto di asilo è diventata uno slogan elettorale è l’Australia. Con il programma “Stop the boats” l’Australia sta respingendo le barche cariche di migranti che cercano di approdare sull’isola. E non finisce qui perché il Dipartimento per l’Immigrazione e la Cittadinanza sancisce in modo netto che, in base al Migration Act del 1958, tutti i non cittadini o tutte le persone che risiedono illegalmente nel Paese devono essere arrestate e deportate, inclusi i bambini e i figli dei richiedenti asilo. Tutti i richiedenti asilo vengono “deportati” in centri di detenzione come quello di Nauru o quello di Manus Island in Papua Nuova Guinea. Qui, in attesa dell’asilo, possono restare per mesi o anche lunghi anni. Bisogna arrendersi all’evidenza, antica quanto il mondo, che i flussi migratori non sono regolabili né contenibili. Il rischio che stiamo correndo è solo quello di incrementare i morti e di perdere l’occasione di operare un cambiamento di rotta che permetta alle nostre frontiere di non essere più luoghi di sterminio. 5/5/2015 Fonte: viedifuga.org
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