Povertà: una scelta politica
Ricchezza e povertà negli Stati Uniti e in Italia: alcuni dati
La povertà non è una catastrofe naturale, ma –nella stragrande maggioranza dei casi- una precisa scelta politica. L’affermazione è particolarmente vera se si prendono in considerazione società affluenti quali quelle occidentali e in particolare gli Stati Uniti – il paese più ricco del mondo- o l’Italia. Alcuni pochi dati sulla paradossale situazione vissuta nei due contesti consentiranno di dar concretezza a quanto si viene dicendo.
Nonostante una ricchezza media per adulto tendenzialmente o assolutamente in aumento o in forte aumento durante tutto il nuovo millennio, corrispondente per il 2020 -secondo i dati del Crédit Suisse Research Institute – a 505.421 dollari negli Stati Uniti (era di 294.135 dollari nel 2005 e di 463.549 dollari nel 2019, a prezzi correnti) e a 239.244 dollari in Italia (era di 200.172 dollari nel 2005 e di 218.853 dollari nel 2019, sempre a prezzi correnti)1, la povertà assoluta in entrambi in paesi ha raggiunto oggi dimensioni intollerabili.
Negli Stati Uniti, dopo un breve periodo di declino durato cinque anni -in cui solo l’anno scorso era finalmente inferiore a quella registrata nel 1973! – la percentuale dei poveri assoluti nel 2020 è tornata a crescere, con proiezioni catastrofiche per il 20212. Si tratta di 32 milioni di persone, destinate a diventare presto 45 milioni (un povero assoluto ogni 7 americani)3, che non riescono a far fronte alle esigenze più basilari di sopravvivenza. In Italia, dopo quindici anni di costante aumento del numero e della percentuale dei poveri assoluti, con la notevole eccezione del 2019 –causata con ogni probabilità dall’introduzione del reddito di cittadinanza- la situazione non è stata mai così tragica. L’Istat riporta un numero di poveri assoluti pari a 5,6 milioni, su una popolazione di meno di 60 milioni, per una percentuale mai toccata prima di 9,4 italiani su 100, ossia quasi uno ogni dieci4.
Il furto dei ricchi a danno dei poveri
Povertà alle stelle, dunque, complice certamente anche l’orrido Covid. Solo marginalmente, tuttavia, giacchè i poveri crescevano anche prima della pandemia, mentre la ricchezza media viceversa aumentava -in via di tendenza (come in Italia, che dal 2005 ha visto alti e bassi) o senza soluzione di continuità (come negli Usa, salvo ovviamente l’anno della Great Recession: il 2008). Anzi la ricchezza media, stando ai dati del Crédit Suisse Research Institute, è aumentata tanto negli States quanto in Italia perfino fra il 2019 e il 2020, quando al contrario il crollo dei più deboli è stato più drammatico. D’altronde proprio in quello stesso lasso di tempo i ricchissimi accrescevano come mai era accaduto prima il loro patrimonio: in entrambi i paesi la pandemia ha, infatti, accelerato i guadagni dei miliardari.
In Italia la loro ricchezza complessiva, che ammontava nel 2019 a 125,6 miliardi di dollari, in quattro mesi (dall’aprile al luglio 2020) è balzata a 165 miliardi di dollari, con un incremento del 31 per cento e oltre quaranta miliardi di dollari in più, ossia 33,7 miliardi di euro5. Secondo i dati riportati dalle banche svizzere PwC e Ubs, il numero dei paperonissimi italiani, fra il 2019 e il 2020, è passato da 36 a 40. Per quel che riguarda gli Stati Uniti, dieci mesi dopo l’inizio della crisi i 660 miliardari del paese -di cui 46 coniati di fresco- hanno visto crescere il loro patrimonio di quasi il 40%, per un totale di guadagno di 1100 miliardi6.
Il Covid ha, insomma, colpito i più deboli che si sono vieppiù indeboliti, secondo un orientamento da tempo in atto che vede un progressivo peggioramento economico degli strati più vulnerabili della popolazione a tutto vantaggio di chi più ha. Questi ultimi non solo si mangiano, per così dire, tutto l’incremento di quella torta che è la ricchezza nazionale, ma via via sottraggono a chi non ha le misere fettine che sono rimaste loro. È questa la vera spiegazione dell’aumento della povertà nei paesi ricchi, che diventano -chi più, chi meno- sempre più ricchi, nei quali però la povertà non solo non viene eliminata o ridotta drasticamente, ma di regola aumenta. Si tratta di un vero e proprio furto dei ricchi a danno dei deboli, che permette ai primi di accrescere a dismisura la percentuale di ricchezza nazionale di cui si appropria.
I dati relativi alla distribuzione nel tempo della ricchezza italiana sono eloquenti. Scrive Giulio Marcon nel suo rapporto di ricerca al riguardo:
“Secondo i dati Banca d’Italia l’1% più ricco della popolazione adulta (circa mezzo milione di persone) detiene il 14% della ricchezza totale, e tale quota è rimasta invariata tra il 1995 e il 2016. Le stime di Acciari et al. (2020) mostrano invece un aumento dal 17% del 1995 al 24% nel 2016.
Al vertice della piramide, la quota dello 0,1% più ricco è cresciuta più rapidamente dal 5,5% del 1995 al 12% attuale, con valori stimati della ricchezza individuale che passano da 8 a 21 milioni di euro. Viceversa, il 50% più povero ha visto la propria quota di ricchezza passare dall’11% del 1995 al 3% attuale (Acciari et al., 2020, p.3-4).”7
Sul fronte statunitense, per parte sua, la Federal Reserve ha di recente evidenziato come nel trentennio che va dal 1989 al 2018, l’1 % più ricco degli americani abbia accresciuto il proprio patrimonio della iperbolica cifra di 21.000 miliardi di dollari, mentre il 50% più povero abbia subito una riduzione del proprio di 900 milioni8.
Le scelte della politica
È dunque lo spostamento di ricchezza dai meno abbienti ai più abbienti a produrre le povertà crescenti tanto negli Stati Uniti quanto in Italia, frutto a sua volta di precise strategie di politica del diritto. Si tratta di scelte relative a settori cruciali dell’ordinamento giuridico, effettuate al tempo del neoliberismo sfrenato prima oltreoceano e poi qui da noi, secondo un moto circolatorio di imitazione che porta i modelli organizzativo-sociali dal centro del mondo verso la periferia.
Un sistema fiscale sempre meno progressivo che, prima lì e poi qui, ha ridotto drasticamente gli scaglioni, le aliquote marginali e l’imposta sul reddito delle società a vantaggio dei più ricchi ha avuto per esempio come conseguenza un fortissimo indebolimento di quello stato sociale (welfare state) che nel passato per decenni aveva offerto ai più deboli un salvagente, magari a volte un po’ sgonfio, su cui appoggiarsi per consentire loro di rimanere a galla.
È, però, soprattutto sul piano delle politiche del lavoro che le scelte compiute hanno alimentato il furto di ricchezza ai danni dei più deboli e ciò che è avvenuto sul quel fronte negli ultimi quarant’anni negli Stati Uniti è lo specchio di quanto è accaduto o sta accadendo anche da noi.
È in particolare la globalizzazione selvaggia e amorale, risultato degli accordi GATT e WTO, ad avere inciso pesantemente sui destini dei lavoratori statunitensi che, a partire dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, hanno assistito ad un’emorragia di posti di lavoro nel ben pagato settore manifatturiero che ne ha ridotto notevolmente la forza contrattuale. Le industrie rimaste hanno avuto buon gioco a ridurre salari, permessi, ferie e assicurazioni, mentre i sindacati hanno perso terreno, laddove la sindacalizzazione del settore privato, che ai tempi di F.D. Roosevelt aveva creato le basi per l’ottenimento di forti tutele giuridiche, quali un salario minimo decente, un orario di lavoro accettabile e in generale condizioni di minor sfruttamento da parte dei padroni, è passata dal 24,5% del 1972 al 6.3% attuale. La classe lavoratrice dell’industria manifatturiera in sparizione, è stata sostituita da un terziario mal pagato e senza protezioni giuridiche di sorta, la cui precarietà è fatta non soltanto di facili licenziamenti, ma soprattutto di imprevedibilità assoluta dell’orario di lavoro e quindi di paga: trasformati in merce usa e getta da un diritto che permette che possano essere chiamati quando utili al business e lasciati o mandati a casa senza paga quando non servono, essi hanno visto ricadere su di loro il rischio di impresa che spetterebbe invece al loro datore di lavoro.
E se quando il lavoro non c’è i lavoratori possono essere tranquillamente dismessi, essi sono però sfruttati al massimo, attraverso l’uso di un algoritmo che li mette uno contro l’altro, quando il lavoro c’è. L’ideale per ottenere quell’individualizzazione dei lavoratori che non consente più loro di combattere una battaglia comune per migliorare le proprie condizioni economiche, che così peggiorano sempre di più a vantaggio del capitale e dei manager di industrie e società. Lo strabiliante risultato è stato una distribuzione del reddito e della ricchezza esageratamente sperequata a favore delle multinazionali e dei loro CEO. Si pensi che questi ultimi dalla fine degli anni ‘70 al 2018 hanno visto crescere i loro stipendi complessivi di quasi il 1000%9, mentre tutti i lavoratori senza diploma universitario hanno visto decrescere i loro redditi da lavoro fino all’11.1% e ancora fino al 2019 il lavoratore mediano maschio, a parità di potere di acquisto, aveva un salario più basso rispetto al 197310. È d’altronde la stessa Rand Corporation, uno dei think tank più conservatori degli Stati Uniti, a dichiarare che qualora la distribuzione dei redditi da lavoro fosse rimasta uguale a quella del trentennio glorioso (1945- 75) oggi non si produrrebbe lo spostamento di ben 2500 miliardi l’anno ai danni del 90% dei lavoratori e a vantaggio in particolare dell’1%.
La lezione americana
Combattere la povertà significa in primo luogo lottare per un lavoro che restituisca la dignità: è questa la lezione che ci proviene da oltreoceano. È per questo che la lotta dei lavoratori della Gkn che, con l’aiuto di impegnati giuslavoristi, hanno oggi messo a punto un documento di indirizzo per una legge di contrasto alle delocalizzazioni selvagge rappresenta -insieme alla proposta di direttiva europea in tema di due diligence delle imprese globali volta ad assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori, dell’ambiente e dei diritti umani lungo tutta la catena di produzione11– la speranza di un’inversione di rotta rispetto alla disastrosa dinamica imitatoria del modello statunitense, generatore di disuguaglianza e povertà12.
1 Cfr. global-wealth-databook-2021.pdf dal sito
2 Cfr. tutti i dati in https://www.census.gov/content/dam/Census/library/publications/2021/demo/p60-273.pdf,Table B-4
3 Cfr. https://www.urban.org/sites/default/files/publication/103656/2021-poverty-projections_1.pdf
4 Cfr, tutti i dati in http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCV_POVERTA
5 Cfr. https://www.ilsole24ore.com/radiocor/nRC_07.10.2020_14.04_39210392
6 Cfr. https://inequality.org/great-divide/updates-billionaire-pandemic/
7 Cfr. https://mpra.ub.uni-muenchen.de/107809/1/MPRA_paper_107809.pdf, p.17
9 Cfr. https://www.epi.org/publication/ceo-compensation-2018/
10 Cfr. Congressional Research Service, Real Wage Trends, 1979 to 2019, al sito: https://fas.org/sgp/crs/misc/R45090.pdf; e U.S. Census Bureau, Income and Poverty 2020, https://www.census.gov/library/publications/2021/demo/p60-273.html, Table A7; Cfr. anche E. Gould, State of Working America. Wages 2019. A Story of Slow, Uneven, and Unequal Wage Growth over the Last 40 Years, al sito: https://www.epi.org/publication/swa-wages-2019/
11 Cfr. https://www.amistades.info/post/normativa-europea-due-diligence-imprese-diritti-umani
12 Cfr. Deborah Lucchetti: https://ilmanifesto.it/la-lotta-alla-gkn-insegna-nessuno-si-salva-da-solo/
Elisabetta Grande è professore ordinario di diritto comparato all’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Da più di trent’anni si occupa di circolazione dei modelli giuridici ed esplora temi legati alla diffusione del sistema statunitense. Le questioni della povertà e della discriminazione giuridica del povero sono al centro delle sue indagini, confluite fra l’altro nel “Il terzo strike. La prigione in America”, Sellerio, 2007 e in “Guai ai poveri. La faccia triste dell’America”, Ega, 2017. Scrive, fra l’altro, per Micromega e Volere la luna.
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