Ricalcolare la povertà

Il terzo anno di pandemia inizia con dati allarmanti, ma che non stupiscono, perché denunciano l’acuirsi di disuguaglianze già presenti nella nostra società. E in particolare quelle di genere.

In questi giorni hanno fatto notizia diversi dati: il primo è che la pandemia ha riportato l’occupazione femminile stabilmente sotto il 50% e che, per le donne che lavorano, la qualità del lavoro è peggiorata. Lo ha dichiarato Cecilia Guerra presentando il Bilancio di genere dello Stato, e i dati sull’occupazione e quelli presentati recentemente da Inapp lo confermano.

Il secondo dato è che è cresciuta la percentuale dei “lavoratori poveri” ossia di quelle persone che pur lavorando rimangono sotto la soglia di povertà.

I due dati sono correlati: la povertà, infatti, si misura (purtroppo ancora) su base famigliare. Quindi, gli uomini risultano molto spesso lavoratori poveri quando le loro compagne rimangono fuori dal mercato del lavoro, e sono gli unici della famiglia ad avere un lavoro retribuito.

In generale, per come viene calcolata, la povertà lavorativa riguarda più gli uomini delle donne, nonostante queste ultime subiscano il part time involontario, siano più precarie, lavorino in settori con salari più bassi e a parità di mansione spesso guadagnino meno. Si viene a creare allora un ‘paradosso di genere’ che avviene proprio per la subordinazione delle donne: lavorano meno e quindi sono meno esposte alla povertà lavorativa.

Nella maggior parte delle famiglie il salario delle donne è il cosiddetto salario accessorio o secondo reddito, cioè di “supporto” a quello maschile. E infatti, le lavoratrici povere sono spesso donne sole con figli a carico che sommano al fatto di essere le uniche percettrici di reddito la scarsa qualità che caratterizza il lavoro femminile. Il risultato è che il 24% delle famiglie monoparentali sono povere.[1]

Come ci ricorda Marcella Corsi, “in generale, il rischio di povertà lavorativa è direttamente collegato al numero di adulti che lavorano nella famiglia, nonché al rapporto tra il numero di adulti che hanno un’occupazione e il numero di persone a carico. Il numero crescente di famiglie monoparentali incide sulla capacità media di tutti i tipi di famiglie di far fronte alla povertà lavorativa a livello aggregato”. 

Dobbiamo allora cambiare le lenti attraverso cui guardiamo il problema, se vogliamo risolverlo davvero. Più donne che lavorano e maggiore qualità del lavoro femminile potrebbero rappresentare il più efficace degli strumenti di contrasto alla povertà.

Note

[1] A proposito di povertà lavorativa si veda l’articolo di Roberta Paoletti e Marta Capesciotti uscito su inGenere ad aprile 2021.

24/1/2022 https://www.ingenere.it/

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