Nelle carceri italiane 14 suicidi dall’inizio dell’anno
Dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane sono stati commessi ben 14 suicidi, ovvero una media di uno ogni quattro giorni. Uno degli ultimi casi riguarda una giovane donna che si è tolta la vita impiccandosi nella propria cella, nel carcere di Messina, a poche ore dall’arresto. Questa settimana, inoltre, ben due rivolte sono scoppiate negli istituti penitenziari di Varese e Canton Mombello (Brescia): seppure non siano ancora state chiarite le cause, è evidente come all’interno delle carceri si stia vivendo un momento di altissima tensione. Il tasso di suicidi è di per sé un dato allarmante che porta a galla le carenze di un sistema retrivo che fa acqua da tutte le parti e, come spiega la Garante dei diritti dei detenuti di Alessandria Alice Bonivardo, evidenzia la situazione di «abbandono istituzionale» nella quale si trovano i reclusi.
Il Garante nazionale delle persone private della libertà personale ha descritto il quadro di una situazione allarmante. Sono 12 i suicidi di detenuti compiuti all’interno delle carceri dall’inizio dell’anno, ai quali si aggiungono i suidici di 2 agenti penitenziari e 4 morti “per cause ancora da accertare”. Una delle ultime detenute a togliersi la vita è stata Manuela Agosta, di 29 anni, che si è impiccata con un lenzuolo nella cella dove si trovava in custodia cautelare. Le accuse nei suoi confronti erano di concorso in spaccio di sostanze stupefacenti, in particolare marijuana e hashish. I pm di Messina, a seguito dell’accaduto, hanno aperto un fascicolo per “istigazione al suicidio contro ignoti”. Si tratta di una tendenza in netto aumento rispetto agli anni passati che denota una situazione critica all’interno degli istituti penitenziari, nei quali la tutela della salute e dell’integrità dei detenuti è fortemente compromessa.
A confermare il quadro di una «situazione drammatica» è Alice Bonivardo, Garante dei detenuti di Alessandria. «Vi sono due elementi che garantiscono il buon funzionamento di un carcere: buoni rapporti con le famiglie e la tutela della salute, ovvero un’assistenza sanitaria che funzioni. Sono due sfere che, inevitabilmente, hanno molto risentito degli effetti della pandemia. Tuttavia le direttive nazionali sono state applicate in maniera disomogenea da ciascun istituto e questa è certamente una delle cause che ha contribuito a creare un clima molto teso».
Le carenze in ambito sanitario, tuttavia, precedono di molto l’esplodere della pandemia. Con il passaggio delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale, avvenuto nel 2008, si è venuta a definire una situazione di grave criticità. «Le ASL faticano a mantenere gli standard corretti di personale presente nelle strutture penitenziarie. Durante la pandemia l’accesso alle cure è stato difficile per le persone fuori dal carcere, per i detenuti è ancora più complicato. Spiegarne a loro le ragioni non è semplice, sentono di essere stati abbandonati». Non aiuta la situazione la mancanza di supporto psicologico: «Gli psicologi ci sono e possono far capo sia al Ministero della Giustizia che all’ASL o al SERD, ma in genere ce n’è uno in tutto l’istituto e si occupa per lo più di osservazione, non fa clinica né intraprende effettivamente un percorso psicologico».
«Ciò che in genere viene messo in ombra riguardo il discorso dei suicidi è il problema grave della salute mentale all’interno delle carceri, che non può essere affrontato in maniera adeguata per tutte le carenze che ho appena descritto» sottolinea con forza Bonivardo. «Per questo motivo sono moltissimi anche i casi di autolesionismo. C’è da considerare poi che procurarsi ferite o togliersi la vita in carcere non è semplice, in genere avviene in modo davvero truce: questo comporta difficoltà anche per gli agenti penitenziari, che si trovano ad affrontare difficoltà per le quali non sono preparati. Sicuramente buona parte dei casi di autolesionismo sono atti dimostrativi a titolo di protesta, ma avvengono perché alle spalle c’è una problematica di malagestione della salute mentale, di mancanza di ascolto delle esigenze dei soggetti».
La partecipazione politica alla scena è, inoltre, del tutto inesistente: «Da quando è esplosa la pandemia nessun politico è più entrato in carcere. I Parlamentari non hanno bisogno di autorizzazione per accedere agli istituti, eppure di fatto nessuno lo fa. Allo stesso modo, se il Comune e gli assessori entrassero nel carcere si renderebbero conto di quanto la presenza del Comune sia fondamentale, soprattutto per le attività di reinserimento in società nel momento in cui termina la pena».
L’intera concezione del carcere come istituto destinato alla rieducazione, nel quadro appena descritto, non può che vacillare. «L’art. 27 della nostra Costituzione è quello che viene applicato meno in assoluto, perché nel momento in cui si decide di applicare il carcere come pena principale e non in extrema ratio è difficile pensare che davvero si voglia pensare a un percorso rieducativo. Ad oggi, noi non educhiamo le persone detenute e non risolviamo il problema della sicurezza, perché coloro che escono di galera o commettono nuovi reati o sono comunque legati all’assistenzialismo delle istituzioni. Il carcere è un’istituzione granitica: dalla riforma del ’75 non è stato rinnovato nulla, l’unico moto che si è visto è stata l’introduzione delle nuove tecnologie, ma si è dovuto attendere il 2020 e una pandemia perché questo avvenisse. È un’istituzione irremovibile rispetto ai suoi principi fondatori, che andrebbe chiusa e completamente ripensata».
Valeria Casolaro
17/2/2022 https://www.lindipendente.online
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