377 Operai al macero

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I meno giovani dei lettori forse ricordano i frigoriferi FIAT, proprio la medesima produttrice della 500. Era il 1938 quando l’azienda degli Agnelli acquistava dalla Westinghouse la licenza per assemblare frigoriferi domestici. Nel tempo, la produzione dei compressori (i motori dei frigo) venne resa autonoma con la creazione dell’Aspera Motors poi, più semplicemente, Aspera SpA. Nel frattempo la FIAT passò la mano sui frigoriferi ma mantenne la produzione per compressori per aziende esterne (Zanussi, Indesit, Smeg, ecc.) La sede di c.so Corsica (a due kilometri da Mirafiori) divenne stretta e verso la metà degli anni ’60 del secolo scorso venne inaugurato lo stabilimento di Riva presso Chieri.

La zona chierese è tradizionalmente luogo d’elezione democristiano, i preti la fanno letteralmente da padroni. Essere assunti all’Aspera significa passare prima dalla canonica. In questo modo il diavolo comunista rimane fuori dai cancelli. Infatti, per lungo tempo il sindacato rimarrà anch’esso a guardare dalla strada i 2.500 lavoratori che su tre turni producono cristianamente, obbedienti e laboriosi. Ciononostante, il vento del ’68 sparpaglia qualche foglia anche a Riva e CHIERI OPERAIA, mensile edito dal “Collettivo operai-studenti” di Chieri dedicherà molti articoli alla più grande azienda metalmeccanica della zona con ampi contributi di giovani assunti.

Sono gli operai che scoprono così che la fabbrica non è il paradiso e non sono disposti a tacere. Lentamente, la FIOM entra in fabbrica e dopo alcuni licenziamenti di “agitatori”, la direzione si rassegna alla civiltà del conflitto sociale. Non senza operare alacremente per affiancare ai sindacalisti rossi delegati ben più mansueti. Negli anni in cui la CISL aveva una componente interna di sinistra troppo forte per essere affidabile, la UIL trova facile ospitalità.
Ma la FIAT oramai ha intrapreso la strada della ristrutturazione perpetua e decide che i compressori per frigo e condizionatori non rientrano nel core business: nel 1985 l’attività dell’Aspera viene ceduta all’americana Whirpool che opera dai primi anni del ‘900 nel settore delle attrezzature domestiche, oggi elettrodomestici. Così il tutto finisce nella controllata brasiliana Embraco.

Lentamente i dipendenti decrescono, qualche incentivo, qualche pensione anticipata e l’emorragia occupazionale ha l’avvio. Nel 1988 la Whirpool acquisisce la divisione elettrodomestici del colosso Philips: le sedi produttive sono sparse in tutto il mondo. Il valzer delle ristrutturazioni ha inizio con piroette di scorpori e delocalizzazioni. Arriva l’anno 2000 e Whirpool cede a compratori improbabili stabilimento e attività dell’Embraco Italia. Anche i cinesi si affacciano, nel frattempo altre aziende scoprono la crisi e le soluzioni fantasiose divengono la norma.

Chi, preposto al governo del paese, predica il vangelo del “mercato” non sa che pesci prendere, visto che si esclude che lo Stato possa intervenire nell’economia.
L’invenzione di formule assurde quanto incoerenti spesso si sposa con le necessità impellenti delle campagne elettorali. Difficile dire quale politico, nazionale e locale, non abbia fatto dell’Embraco la propria vetrina per un giorno: le promesse sono facili, i voti sono molti. Così politici incapaci e opachi raccolgono a man bassa la disperazione che si trasforma in voto. Vedremo, faremo, investiremo: tanti -emo che non si trasformeranno mai in alcuna realtà.

Ma a volte, la politica non si ferma allo stupido cinismo per una manciata di voti, sa andare più in là, molto più in là: al raggiro, alla truffa vera e propria. E, allora, si scopre a posteriori che tutti, esattamente tutti i politici, nazionali e locali sapevano perfettamente che la vicenda non aveva sbocchi. E che in questa agonia sguazzavano criminali economici di ogni tipo. Nessuno ne era all’oscuro. Pena l’essere bollato quale incapace di intendere e volere. La truffa ha avuto nomi diversi: Whirpool, Acc Wan Bau, MISE, Italcomp, infine Ventures Srl. Un succedersi di attori e sigle che avevano un unico obiettivo: i soldi pubblici.

Con i politici a fare il palo mentre colletti bianchi furtivi riempivano i sacchi del bottino. Nessun politico che abbia pronunciato promesse ai lavoratori ex-Aspera può dimostrare di aver fatto realmente qualcosa in loro favore. Ma in molti hanno fatto tanto perché la truffa avesse luogo: nomine, contatti, raccomandazioni, decreti mirati a creare illusioni.

Alcuni, particolarmente ignobili, hanno sempre rifiutato gli incontri con i lavoratori ma non hanno lesinato dichiarazioni altisonanti alla stampa. Vero, ministro Giancarlo Giorgetti? Vero Viceministro Alessandra Todde?, Vero on. Carlo Calenda? Vero ministro Luigi Di Maio?

Elio Limberti

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

EX EMBRACO

Intervista a Ugo Bolognesi della Fiom-Cgil

Elio Limberti: La politica è entrata di prepotenza nelle vicende dei lavoratori ex-Embraco ma nessun effetto positivo pare esserne scaturito. La Regione Piemonte, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali hanno giocato un ruolo importante ma sempre uscendone facendo una figura misera. Promesse sono arrivate in questi decenni come se piovesse e a tutte è seguito il deserto. Inoltre, proprio la politica ha sferrato la mazzata decisiva introducendo la Ventures Srl, rivelatasi poi un covo di malfattori, anche ben accreditati presso le forze governative. Centro-sinistra e centro-destra in questo non hanno fatto differenza, usando i lavoratori ex-Embraco come riserva di voti facili a causa della loro disperazione. Voti che si sono rivelati poi per quello che erano: inutili. Oggi, nell’organizzazione contemporanea della produzione, la politica può ancora avere un ruolo attivo e positivo per i lavoratori?

Ugo Bolognesi: Certo! Dipende però, appunto, dalla “politica”, da chi decidiamo di farci o non farci rappresentare, e da come e quanto partecipiamo alla “politica”, cioè alle scelte che determinano anche la vita di ognuno di noi. Dalle scelte che si fanno in campo economico e sociale da chi ha responsabilità di Governo, a partire da quello centrale. Si potrebbe scegliere un ruolo diverso del pubblico nella “organizzazione contemporanea della produzione”. Dove sta scritto che: cosa produrre, dove e come, e in quali condizioni per i lavoratori, debba essere unicamente deciso dal privato, oggi dominato dalle aggregazioni di società multinazionali? Negli ultimi incontri il delegato del Mise ci ha risposto che ad avere deliberato l’archiviazione del progetto del polo italiano del compressore per refrigeratori non era stato né il ministro né il vice ministro ma il “mercato”, come si trattasse di una entità sovrannaturale e incontrollabile. Il “mercato” è un fatto umano, ed è quindi condizionato: se chi rappresenta il Paese e dovrebbe (diamo valore alle parole) occuparsi dello “sviluppo economico” agisce da spettatore e rimane indifferente ai processi economici, il mercato viene controllato e dominato da poteri che perseguono unicamente l’obiettivo di creare profitti per pochi senza nessun interesse per il bene collettivo. Chi paga il prezzo più alto sono le lavoratrici e i lavoratori, operai e impiegati, che si ritrovano privati della dignità del lavoro, sia in termini materiali che in quelli sociali, cadendo in uno stato di disperazione che non è accettabile in un paese civile. Ne siamo tutti coinvolti.

E. L. L’organizzazione del lavoro ha subito negli ultimi venti anni una trasformazione radicale con delocalizzazioni selvagge, crisi aziendali dovute alla ristrutturazione globale dei cicli produttivi e alla concorrenza tra capitali, depauperazione dei salari e dei diritti dei lavoratori. A fronte di una costante deindustrializzazione del lavoro in Italia, ritieni che realmente sia possibile una strategia di difesa dei posti di lavoro esistenti?

U. B. L’industria in tutto il mondo è in trasformazione rapida, i temi legati alla sostenibilità ambientale e la cura del Pianeta non possono essere più procrastinati. L’industria, però, la produzione di beni e servizi, l’avanzamento tecnologico, proseguiranno, non si arrestano. È il nostro Paese che è in un declino industriale da decenni, e la distribuzione della ricchezza, che da sempre non è equa (tutt’altro) viene messa fortemente in discussione, con un impoverimento generale di massa non solo dal punto di vista materiale. Torino, inteso come territorio metropolitano, è il luogo in cui questo processo è più marcato e drammatico. I dati sulla situazione del settore Automobilistico, che rimane di gran lunga il più importante da un punto di vista economico, sono oramai più che noti a tutti. Eppure questa conoscenza non diventa consapevolezza dell’urgenza di interventi significativi. L’emergenza non viene affrontata, i limiti di una classe dirigente emergono prepotentemente. Le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare continueranno sempre a lottare per difendere i posti di lavoro, è una questione di sopravvivenza. Ma è chiaro che serve un cambio di marcia nell’organizzarsi, serve la ragione e serve la forza. Ci riguarda tutti, non solo chi viene travolto direttamente: il fatto che a Riva presso Chieri uno stabilimento attivo e vivo da generazioni oggi diventi un immobile abbandonato è un problema non solo per le 400 famiglie che hanno perso il proprio posto di lavoro e adesso devono trovare nuova occupazione, ma per tutta la comunità che si ritrova più debole e fragile e nessuno ne è escluso.

E. L. Il caso della GKN sembra voler indicare la possibilità di una diversa gestione delle crisi occupazionali ma ciò significa una coscienza sindacale e politica dei lavoratori particolarmente elevata e diffusa, ciò che raramente oggi si può riscontrare. Nel caso dell’Embraco (Aspera-Embraco-Whirpool-Ventures), questo aspetto ha rappresentato un punto di debolezza?

U. B. Le lavoratrici e i lavoratori della GKN hanno reagito e stanno dimostrando una capacità di organizzazione dal basso importante, bisogna stare con loro e sostenerli. Ma al momento non mi pare che la gestione della crisi da parte del Governo sia diversa, purtroppo. Davanti alla scelta della multinazionale di spostare la produzione in un altro territorio l’unica risposta è quella della “reindustrializzazione” da parte di un privato. L’Esecutivo continua a fare lo spettatore dei processi, non interviene per determinare, al massimo sostiene economicamente l’investitore. Si deve sperare che sia serio, e non una scatola vuota come per noi! Ma non è questo il ruolo che dovrebbe svolgere chi ci rappresenta e ha giurato di tenere fede al dettato di “rimuovere gli ostacoli”. Altrimenti anche per loro il rischio di finire come la rana bollita di Chomsky è più che probabile, è infatti lo hanno già denunciato pubblicamente. L’attenzione, soprattutto mediatica, alla lotta e alla resistenza di quattro anni dei lavoratori Embraco è stata alta. Ma spesso la sensazione di essere però soli è stata vissuta e sentita, e non dovrebbe succedere. Oggi sono tanti, e in tanti posti, quelli che lottano per il lavoro, non lasciamoli soli. Creiamo ponti e connessioni, facciamo che una storia come quella Embraco non si ripeti più.

E. L. L’unità sindacale confederale comporta a volte il vantaggio di una maggiore forza contrattuale, altre volte pare rappresentare un limite poiché, per mantenere l’unità, si sceglie una più bassa soglia di conflitto, magari indebolendo alla fine la forza contrattuale stessa. Da molte parti, in questi decenni, ci sono state critiche a comportamenti di componenti sindacali meno inclini a rapporti di forza. Quanto ha pesato nella sconfitta dei lavoratori Embraco l’unità a tutti i costi?

U. B. Io sono convinto che sono, e debbano essere, le lavoratrici e i lavoratori a decidere come organizzarsi. Non sempre decidono come piacerebbe a noi, è così. Ma questo significa smettere di sentirsi parte? Per me no. La rappresentanza sindacale dell’Embraco alla fine del 2017, inizio della vertenza, era formata da una maggioranza Uilm e una minoranza Fiom. Nel corso del tempo sono state coinvolte dai lavoratori anche la Fim e l’Uglm, creando una situazione dove nessuna organizzazione sindacale poteva vantare una egemonia e spingendo verso una collaborazione tra sigle. È stato un vantaggio o no? Non lo so. Ma la mancanza di forza contrattuale in un Paese in cui una azienda può decidere, in nome della “libertà d’impresa”, di chiudere e andarsene, senza dovere rispondere a nessuno delle conseguenze delle proprie azioni, è un problema che va affrontato perché altrimenti in una vertenza ci può essere una sola organizzazione oppure dieci ma il risultato non cambia. Come hanno scritto i compagni della GKN puoi anche riuscire a raggiungere “il migliore accordo per il contesto in cui siamo”, ma il problema rimane, il problema è il contesto!

8/2/2022

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