Note sparse sulla gioventù del mondo
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di Dmitrij Palagi
Flessibilità e precarietà
Cosa vuol dire essere giovani? Lo si può essere fino a 30 anni, in Rifondazione. La soglia si alza a 40 in Confindustria. La risposta è semplice quando c’è una qualche norma o regola pronta a definire la soglia.
Diventa impossibile guardando alla società in generale. C’è infatti una componente di riconoscimento, ma poi vale l’aspetto soggettivo. Le condizioni di vita portano a maturare un certo tipo di consapevolezza, in contesti diversi tra loro. L’esperienza svolge un ruolo fondamentale.
Avere un lavoro e una prospettiva di vita stabile permette scelte difficili in altre situazioni. Chi scrive ha avuto la possibilità di terminare il percorso di laurea magistrale con un salario fisso, con cui iniziare a vivere da solo in una casa in affitto, acquistando una macchina a rate. Poi è venuta meno la società per cui operavo e si è aperta l’opportunità di un dottorato di ricerca, disconosciuta come professione. È stato come un ritorno allo stato di studente, nonostante non fossero variate le uscite economiche.
A otto anni di distanza sono quindi tornato a essere più precario e giovane di prima: difficilmente mi verrebbe dato un appartamento, con le minori garanzie da offrire alla proprietà dell’immobile.
Gli stessi problemi che ha dato una finanziaria anche per l’acquisto di un portatile da dilazionare nel tempo.
La precarietà è stata declinata come flessibilità: la possibilità di non rinchiudersi nell’angolo della stessa attività per tutta la vita. Oggi il precariato non riguarda ovviamente più solo la fase dell’uscita dal percorso educativo, ma continua a connotare le nuove generazioni, accusate nel tempo di essere schizzinose e/o sfaticate.
Durante una trasmissione radiofonica, in cui si commentavano le morti sui luoghi di lavoro di ragazze e ragazzi in età da obbligo scolastico, una madre ha chiamato per rivendicare il percorso di sfruttamento del figlio: grazie ai contatti e al duro impegno, aveva potuto arrivare a ottenere una retribuzione, per poi aprire una propria società.
Un esempio di mito dell’uomo capace di farsi da solo, con il sacrificio e la pazienza, in un mondo performativo dove si viene invitati a essere merce sul mercato, in costante competizione, investendo su di sé e percependo come fallimento individuale gli esiti negativi di tale corsa verso la propria autoaffermazione.
A che serve studiare? Una domanda pronta ad assumere sempre nuovi significati, a seconda di come cambia anche il sistema produttivo e l’immaginario associato ad esso. Oggi sembra egemone una risposta: “a lavorare”. Anzi, ad avere l’occasione di poter lavorare.
Chi ha un contesto familiare e di amicizie stabile affronta tutto questo con relativa inquietudine, comunque solitamente minore a chi invece non ha reti di protezione.
Ci sarebbe la necessità di arrivare a parlare nelle scuole di cosa sia il lavoro, del fatto che si dovrebbe ricevere un ringraziamento da chi trae profitto o beneficio per il tempo, le energie e le competenze messe a disposizione da chi lavora.
Non che la cosa sia semplice, vista la condizione di ricatto in cui si trova ancora larga parte delle giovani e dei giovani, cioè di quelle persone che escono dalla fase di studio.
Non è questo il luogo giusto in cui affrontare la discussione su reddito di cittadinanza e piena occupazione, ma la precarietà ha ricadute pesanti sull’affermazione della propria individualità.
Viviamo in un paese dove si è convinti che l’emergenza abitativa riguardi solo persone straniere, figlie di migranti o casi eccezionali di fragilità.
Per “uscire dalla casa” dei propri genitori è possibile che sia più conveniente cercare di avere accesso a un mutuo, invece di un affitto a prezzi ragionevoli, che non corrisponda al 50-60% di una busta paga?
Le questioni sociali hanno una loro specificità di lettura, anche in chiave giovanile. I modi di viverle si rinnovano continuamente, ma spesso vengono narrate e analizzate secondo precedenti chiavi di lettura. Pretendere che il nuovo nasca senza protagonismo diretto, o appaia all’improvviso, è vana illusione. Serve un confronto costante.
Gli spazi politici dovrebbero essere quelli in cui poter riferire delle proprie condizioni, trovando situazioni simili e risposte comuni a problemi diffusi, ribaltando il senso comune che viene narrato rispetto a cosa sia il lavoro.
Un ultimo esempio: nell’immaginario delle cosiddette nuove generazioni non c’è la prospettiva della pensione. Scherzando viene detto che non ci saranno, ma dietro le battute c’è l’incapacità di pensare a quale percorso possa garantire questo diritto. Un tipo di risposta è quello della previdenza complementare, privata, mentre ci dovrebbero essere percorsi di lotta considerati utili e praticabili.
È la fine del mondo
Ciao Ciao, de La rappresentante di Lista, a Sanremo, racconta la prospettiva apocalittica in cui si sono sviluppati gli importanti movimenti giovanili per l’ambiente e contro i cambiamenti climatici.
Il tempo è finito, occorre agire urgentemente, o sarà la fine per l’umanità (più che per il pianeta).
Se però niente di concreto avviene, che fare, se non sentire la condanna dell’impotenza?
Tra pandemia e invasione dell’Ucraina è difficile stupirsi dei sondaggi per cui tre persone su quattro dichiarerebbero di non riuscire a immaginare il futuro.
Del domani c’è certezza: sarà peggio di oggi, ma magari io mi salverò. Quindi, fino a che c’è l’entusiasmo (e il tempo) si lotta: più è tragica la situazione però, meno ci saranno possibilità divedere una luce di uscita. Tutti i giorni ho modo di leggere quanto sia probabile una devastazione ambientale, mentre uno tsunami e un uragano continuano ad avere un carattere di eccezionalità nella percezione comune.
Immaginare la rovina della nostra specie è una “dolce disdetta”. Per poter fare qualcosa il sistema ci invita a comportamenti individuali virtuosi, mentre appare normale l’ipotesi di ritornare al carbone per evitare di essere ostaggi dell’importazione di gas dalla Russia.
Su tutto questo Fridays for Future ed Extinction Rebellion, insieme a tante altre realtà dei territori, esprimono grande consapevolezza e chiarezza di lettura. La politica e le istituzioni però si limitano ad applaudire e ringraziare, senza ascoltare realmente.
I giochi dei grandi riguardano i palazzi, quelli dei giovani si esprimono nelle manifestazioni di piazza: pretendere di ascoltare quelle voci nelle istituzioni e nell’elaborazione politica delle organizzazioni è una necessità. Anche per mettere a confronto le importanti esperienze di elaborazione proprie della sinistra di classe, italiana ed europea, insieme a un bisogno vero, su cui si proiettano le voglie di cambiamento anche generazionali.
La questione coinvolge anche la sfera pubblica: in una scuola e in una piazza diventa chiaro quale sia il perimetro in cui si agisce. Fuori da lì però? La politica come performance insegue una comunicazione priva di contenuti e non interroga più sull’esercizio del potere, da cui le giovani generazioni si sentono escluse e a cui si pensa di poter accedere semmai per cooptazione.
La parabola delle Sardine è istruttiva, visto l’approdo di Mattia Santori in Consiglio comunale a Bologna e il ruolo di Bernard Dika per la Regione Toscana.
La depressione fa tendenza?
Come stupirsi dell’aumento di casi di depressione e ansia raccontati costantemente dal nostro sistema di informazione?
Il lavoro? Impossibile da avere garantito, se non come privilegio e fortunato dono. La casa? Spera di ereditarla. Il futuro? Segnato dalla devastazione ambientale.
Il tutto in un orizzonte in cui gli orizzonti di senso sono frantumati, come le nostre quotidianità. La visibilità e il riconoscimento sociale si spostano sul digitale, dove occorre produrre continuamente contenuti o interazioni.
Ogni attimo di vita è consumato e consumo, non c’è tempo per fermarsi, riflettere, dare una coerenza al complesso delle proprie esperienze.
Anche in questo caso la condizione giovanile è raccontata, ma priva di voce. Stare male è indicibile: si può trattare con i farmaci lo stato di malessere, o rinchiuderlo nelle stanze di un percorso psicologico, ma non siamo ancora riusciti a rendere il tema una questione politica.
In questo le nuove generazioni potrebbero effettivamente svolgere un ruolo centrale, partendo
dal loro vissuto. Per farlo sarebbe però necessario creare luoghi in cui poterle ascoltare, anche su questo. Anche se è difficile, perché sono situazioni spesso segnate dalla tendenza all’isolamento e alla non comunicabilità: occorre attenzione costante, capacità di prendersi cura delle relazioni tra persone e soprattutto l’abbandono di ogni paternalismo, senza pensare di sapere già chi e cosa si ha davanti.
Spesso nelle organizzazioni prevale invece un atteggiamento che oscilla dalla semplice delega a un’ostile diffidenza.
Per fare un esempio, sul piano della comunicazione si dà per scontato che ci debba essere un unico terreno comune sul piano dei gusti e delle scelte, mentre per alcune piattaforme digitali si lascia completa libertà a chi è appena arrivato, o ha un’età diversa.
Viviamo tempi in cui è difficile rispondere a quali possano essere gli scopi della vita. Se nel corso dei secoli la felicità è sempre stata una risposta, questa la si declinava guardando a un futuro in cui poter stare meglio, o a un passato in cui si stava peggio. Oggi le cose sono sicuramente ribaltate: si ha nostalgia per tempi non vissuti e paura per quello che verrà, anche perché mancano percorsi collettivi in cui tentare di fuggire dalla narrazione egemone.
Il prossimo numero di Su la testa (www.sulatesta.net) si occuperà anche di questo, anche se sul piano della comunicazione e dell’immaginario. Il lavoro è necessario non solo sul piano culturale: negli spazi della politica occorre intercettare le persone con i loro bisogni e creare le condizioni affinché possano esprimerli, leggendoli nella loro dimensione politica, anche quando non è immediatamente percepibile. Come? Attraverso le pratiche e i momenti di discussione, concentrati sull’oggi.
Quando una persona giovane si avvicina al partito, si aspetta una proposta chiara e precisa sul che fare. Ci deve essere quindi una proposta complessiva per rispondere a questa esigenza, ma dal primo giorno deve essere chiaro che un’organizzazione è fatta dall’insieme di chi ne fa parte.
Apparentemente è scontato, ma non è raro che invece una persona sviluppi un senso di estraneità, specialmente se le si chiede di esprimersi su dinamiche non vissute.
Nelle realtà strutturate, come i partiti e i sindacati, quello che è stato conta più di quel che potrebbe essere. La difficoltà del ricambio generazionale è legata a quella, umana, di accettare di mettersi in discussione attraverso l’ascolto e il confronto.
Dopo due anni di pandemia si è discusso molto del bonus psicologo. Per fortuna molte voci si sono levate per denunciare la parzialità di questo provvedimento, chiedendo un riconoscimento del benessere mentale all’interno del sistema sanitario nazionale. In medicina è un dato acquisito l’importanza della relazione del corpo con il contesto in cui vive. Si parla di stili di vita, di condizione soggettiva, di relazione personale tra medico e paziente. Per la depressione e l’ansia invece spariscono gli elementi sociali.
Stare male è considerato difforme. Da tenere ai margini. Non è un caso che negli istituti penitenziari si stiano di fatto riformando degli spazi in cui rinchiudere chi è considerato disturbato mentalmente.
Depressione, suicidio, panico, condizioni di infelicità: liberare queste categorie dallo stigma che le accompagna è fondamentale, quanto la capacità di intercettare chi si sente “nuovo” in questo mondo. Prescindendo anche dalla categoria delle e dei giovani.
Ogni persona è più delle sue etichette e deve avere la sua centralità, nella politica e nella società: essere vista, riconosciuta, accettata, apprezzata. Anche fuori dal digitale.
Dmitrij Palagi
Responsabile Cultura e formazione del PRC-SE
In versione interattiva http://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-marzo-2022/
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