Le bombe di TV e giornali

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Trascorso ormai più di un mese dall’invasione russa in Ucraina, si può trarre un bilancio di come la stampa e i mezzi di informazione di massa stiano raccontando quella guerra. Due presupposti, per comprendere le diverse fasi, sono però necessari: i mezzi di informazione mainstream debbono innanzitutto vendere il proprio prodotto e orientare lettrici/lettori e telespettatrici/tori. In funzione di questo debbono adattarsi velocemente a tempi emotivi e di reazione del pubblico in cui non è prevista alcun tipo di analisi della complessità di quanto accade.

La pornografia del dolore, la condanna verso l’unico cattivo di turno, le dimostrazioni di umanità di cui solo chi detiene i sedicenti “nostri valori” è capace, l’informazione a senso unico, sono ingredienti che non possono mancare per produrre un immenso bombardamento culturale verso chiunque si provi a capire. In una prima fase questo è stato il corollario di qualsiasi notizia.

Inutile dare conto delle fonti da cui provenivano le notizie al punto che anche i corrispondenti Rai, non certo considerabili arruolati da Putin, sono stati, per il loro bene (sic) costretti a tornare in Italia. Le soli fonti credibili in Italia sono state considerate quelle di una parte in causa, il governo ucraino e i giornalisti embedded che andavano a visitare i luoghi del conflitto insieme alle truppe dell’esercito che si difendeva.

Ogni tanto qualche rettifica proveniva dalle agenzie governative russe ma erano guardate con sospetto quando non irrise, considerate, solo loro, propaganda che confermava in realtà la brutalità degli occupanti che, chi scrive, non mette affatto in discussione. Facciamo un passo indietro nel tempo, l’allora giovane Marc Bloch, storico che si continua a leggere e che resta di radicale attualità, nel 1914 combatté nel primo conflitto mondiale. Tornato in salvo scelse di raccontare solo e soltanto ciò che aveva potuto vedere con i propri occhi. Ne seguì una lunga riflessione sulle modalità con cui i conflitti sono percepiti e raccontati tanto da portare alla pubblicazione, nel 1921 di un libro da rileggere,

La guerra e le false notizie.

L’esperienza bellica è definita da Bloc un «esperimento immenso di psicologia sociale» e lo storico deve imparare a studiarla come tale. Il «rinnovarsi prodigioso della tradizione orale, madre antica delle leggende e dei miti», ha creato un ambiente favorevole alla fabbricazione e diffusione delle «false notizie» che hanno circolato nelle trincee. Bloch ne ha svelato i percorsi, individuando nei grandi stati d’animo collettivi il sostrato che consente ai pregiudizi di trasformare una cattiva percezione in leggenda.

La guerra in atto è quanto di più moderno si possa avere. Al racconto orale si sono sostituiti da una parte i social, dall’altra le grandi concentrazioni editoriali, possedute da gruppi economici e finanziari tali da poter uniformare il racconto. Come se per i più, sono pochi ancora, almeno in Italia, coloro che hanno il tempo e gli strumenti per avventurarsi in ricerche complesse, queste verità diffuse, avessero sostituito la certezza del racconto orale.

Non solo non può esistere in tale contesto una “verità” ma non debbono trovare spazio interpretazioni complesse, che costringano ad analisi diacroniche degli eventi, ad utilizzare strumenti come la memoria e la necessità di riconnettere fili logici. Questo non per assumere un principio semplificatore di causa ed effetto ma proprio per costringere ad affrontare le diverse sfaccettature di un problema così grande. Questo perché comprenderle si tradurrebbe nel rifiutare la logica binaria amico/ nemico, noi / loro, ma nel dover ricercare gli elementi cardine che hanno determinato non solo una guerra ma le ragioni stesse per cui questa guerra si combatte. Farlo porterebbe a pensare che la guerra, in quanto tale, non può mai essere una soluzione e che le istanze pacifiste sono dettate da puro realismo.

Abbiamo parlato di “prima fase”. La seconda, scattata non appena alcuni “insospettabili” hanno cominciato a porre un pensiero altro ed una analisi più articolata, è stata quella della cancellazione e delle liste di proscrizione. Si tratta di una fase non ancora terminata per cui, chi mette in dubbio le verità, governative viene direttamente arruolato fra le fila dei “servi di Putin”, dei suoi “utili idioti” o al massimo nella demascolinizzante categoria delle “anime belle”. Poco conta che si tratti di padri e madri nobili del Paese che, quando i leader della destra e delle grandi imprese andavano ad omaggiare costantemente l’autocrate russo, protestavano contro la mancanza di libertà, l’oppressione, l’omofobia, il machismo e il fascismo nazionalista di cui è rimasto espressione il potere di Putin e della sua banda di miliardari.

I Salvini, le Meloni, i tanti e le tante che celebravano l’uomo del Cremlino come baluardo dei “valori occidentali”, hanno repentinamente fatto marcia indietro e rinnegato il proprio punto di riferimento, probabilmente anche economico. Hanno scoperto che il terrore dei giornalisti, l’anticomunista, lo stragista in Cecenia era un criminale pronto anche ad un’invasione sanguinosa in Ucraina che inevitabilmente avrebbe cozzato contro l’espansionismo Nato. Ma in guerra non si può restare nel mezzo e, con una straordinaria opera di rimozione, la destra con tratti fascistoidi in Italia, si è ritrovata non solo anti Putin ma capace di andare a prendere e portare in salvo profughi dalle città bombardate, compiendo quello che, riferendosi a conflitti che si combattono ad altre latitudini, sarebbe stato considerato, favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, se non fosse intervenuta una direttiva europea.

Questa parte della storia è stata cancellata totalmente dall’informazione, come sono stati rimossi gli anni complicati che sono trascorsi in Ucraina dopo le violenze nelle repubbliche del Donbass, i conflitti che hanno attraversato l’intera Ucraina sospesa fra legittime aspirazioni occidentali e altrettanto legittimi legami con la Russia. Ma, nella seconda fase, chi raccontava questo era inevitabilmente “amico di Putin” ed in quanto tale da silenziare. Riprendendo il caro Mc Luhan, secondo cui “il mezzo è il messaggio” diverse sono state le strategie comunicative con cui si sono dispiegate a seconda dello strumento di amplificazione del messaggio propagandistico utilizzato. Se il segretario di un partito sedicente progressista si preoccupa di far stralciare il contratto con una trasmissione Rai ad un docente dalle posizioni considerate non compatibili con il pensiero dominante, siamo veramente alla totale coercizione del sapere.

Poche le voci rimaste critiche in questa fase che ancora dura, pochi gli spazi per dare voce ad una narrazione diversa, i programmi televisivi somigliavano e somigliano sempre più a bollettini dell’Istituto Luce o del Minculpop. Una valanga emotiva e narrativa tale da sommergere qualsiasi perplessità. Abbiamo un nuovo Hitler da eliminare, uniamoci insieme per farlo, poco importa che contemporaneamente, mentre ci alleiamo tutti contro il novello tiranno, grandi imprese petrolifere, grande distribuzione, fabbricanti di armi eccetera, speculino aumentando i prezzi, anche dei generi di prima necessità e non per cause dovute al conflitto ma per aumentare vertiginosamente i profitti.

E poco importa che contemporaneamente si allunghi con l’invio di armi il conflitto mentre si continua a pagare Mosca per il petrolio e il gas gentilmente forniti, per ora, non in rubli. “Siamo della Nato. Dobbiamo difenderci” “Dobbiamo salvare il popolo ucraino” e se questo porta al peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari nostrane, poco importa. Danni collaterali, li si sarebbe chiamati un tempo. L’Odg sull’aumento delle spese per le armi al 2% del pil (+ 13 mld di euro) non è ancora legge dello Stato ma solo indirizzo politico, tanto basta a non poter più esporre il bilancio e le risorse per sanità, scuola, case, bisogni primari per cui i soldi non ci sono.

Ma è possibile, non certo, che i conti sulla subalternità culturale in Italia siano stati fatti con troppa ed eccessiva fretta. Il combinato disposto fra gli effetti economici e sociali di una pandemia da cui non si vedevano che tenui segnali di ripresa e il colpo micidiale inferto con l’impegno bellico, ha prodotto in settori anche inaspettati della popolazione, una reazione significativa.

Diversi i segnali: da un egoistico rifiuto per l’aumento delle bollette, agli allarmi, lanciati a sproposito – per ora – sul rischio di carenze alimentari (ci sono stati assalti ai supermercati simili a quelli pre lockdown, a riflessioni di carattere generale ed anche etico sul rifiuto della guerra.

La sovraesposizione di una narrazione a senso unico ha portato da una parte ad un allontanamento dai canali ufficiali di informazione, monocorde e apertamente priva di spessore, dall’altra a riscoprire, ancora in piccole frange, l’importanza di una azione individuale, concreta, in nome di un qualcosa di profondamente ancestrale come il diritto alla pace. Per cui contemporaneamente si sono moltiplicate le iniziative solidali verso i profughi ucraini, da parte di un mondo vasto del volontariato e dell’attivismo sociale laico e religioso ma, contemporaneamente si sono realizzate mobilitazioni che via via hanno perso timidezza e si sono rivelate capace di ampliare e di unire l’arcipelago complesso di coloro che non si sentivano arruolati ad una guerra.

Non siamo all’ “Oceano pacifico” del 2003, troppi attori sono oggi diversamente posizionati, ma si assiste ad una rimobilitazione di soggetti che sembravano scomparsi. E quando anche grandi organizzazioni di massa come Cgil e Anpi, hanno affermato il proprio rifiuto all’invio di armi in un conflitto in nome del fatto che “la pace si costruisce con la pace e non con la guerra”, anche il mondo dell’informazione, forse nel timore di perdere in acquirenti e sponsor, oltre che in credibilità, ha iniziato quella che potremmo definire una “terza fase della propaganda”.

La riassumiamo in maniera quasi rozza: si organizza un talk show, si invitano l’esperto di geopolitica, un paio di rappresentanti delle forze politiche governative o para governative che sostengono la necessità di sostenere con le armi il sacrosanto diritto all’autodifesa del popolo ucraino e a questi si aggiungono, in variazione, due tipologie di ospiti. Persone, spesso donne, di nazionalità russa o ucraina che provano a raccontare il proprio punto di vista e/o l’esponente pacifista, possibilmente della sinistra radicale, chiamato a difendersi da un vero e proprio processo.

Per rafforzare l’informazione di guerra si scelgono oppositori a questa, spesso poco in grado di produrre argomentazioni corpose, magari poco preparate ai match televisivi, ottimi per far salire lo share, per creare polemiche artificiose ma non per approfondire i temi. Non a caso gli “esperti” sono scelti, quasi sempre, in maniera oculata fra coloro che di fatto rafforzano le posizioni governative.

Laddove ne viene invitata/o una/o che definisce una critica ragionata alla narrazione bellicista, si usa ogni mezzo necessario per distruggerne le argomentazioni, spesso senza aver neanche un libro, un saggio, un articolo di chi parla ma semplicemente estrapolando una frase decontestualizzata per poter concludere col fatidico “lei è con Putin”. “lei giustifica i massacri”, “lei chiede la resa alla resistenza ucraina” eccetera eccetera.

Non mi riferisco ai programmi spazzatura di cui è piena la programmazione televisiva in cui ad esempio il noto e “rispettabile” direttore di un quotidiano, arriva a definire una sua interlocutrice, “gallina comunista” per poi riproporre la leggenda nera del comunismo come male assoluto del “secolo breve”, (ci vuole coraggio a rimuovere il nazifascismo) ma più a talk show patinati e ammantati di serietà progressista in cui il finale è già scritto: chi non la pensa come la maggioranza parlamentare è, al massimo della generosità, un putiniano inconsapevole.

Se questo ragionamento ha valore nelle trasmissioni televisive, più stabile e monocorde è stato il meccanismo che caratterizza le redazioni dei giornali cartacei. Tranne scarse eccezioni in Italia impera la narrazione dominante è stata interrotta sporadicamente da pezzi di colore. Il racconto è unicamente basato su una delle fonti e sui giornalisti che hanno scelto di raggiungere alcune città ucraine e non certo russe.

Ogni tanto ci sono dotti – o meno – analisti e politologi che spiegano come “fascisti e comunisti vadano accomunati in unico calderone che, in nome di uno strumentale appoggio al Donbass, agiscono, insieme, per indebolire l’occidente e divenire, “pifferai di Putin”. Un patetico copia e incolla di notizie, spesso peraltro neanche verificate, in cui, cercando un esempio individuale di foreign fighters di cui è piena l’azione bellica attuale, si rioffre la rappresentazione di un immaginario e bruto nemico interno che parla di pace ma agisce in guerra contro quello che si ostinano a chiamare “il mondo libero”.

Qualche elemento di approfondimento giunge provando a cercare nella stampa estera, meno embedded della nostrana come Al Jazeera, Ma l’invasione in Ucraina rappresenta, più che in passato, la trasformazione in chiave social, del conflitto. Chi cerca informazioni si affida non solo ai canali più abusati ma, attraverso telegram o il deep web, prova a sentire anche altre voci, dall’altra parte del conflitto.

Entriamo qui in un terreno complesso e terribilmente scivoloso. La stessa propaganda di guerra, con gli stessi mezzi, con gli stessi tentativi di manipolazione delle informazioni, la si trova dall’altra parte della barricata. Con alcune varianti: da una parte chi dichiara di combattere per difendere le legittime aspirazioni indipendentiste del Donbass, rimaste inascoltate per 8 anni anche da Putin, chi afferma impunemente che le operazioni di “polizia” in territorio ucraino hanno puramente scopo difensivo, “denazistificante”, per difendere l’accerchiamento russo da parte della Nato, chi si sofferma sul fatto di considerare l’Ucraina abitata da un popolo “fratello” da liberare dagli oligarchi pagati dall’occidente e chi infine dice esplicitamente che più o meno l’intero popolo ucraino oscilla fra il nazionalismo revanscista e il nazismo, confondendo il battaglione Azov, composto da sostenitori della croce uncinata, con l’intero Paese non privo di contraddizioni.

Del resto la predica giunge dal pulpito di un Paese come l’Italia in cui, se si andasse oggi a votare, le forze che andrebbero al potere conservano ancora ben visibili le nostalgie de Ventennio. Fatto sta che in questo modo, si torna a Bloch, trovi spazio di affermarsi una percezione dell’altro radicalmente distorta, in grado di seminare odi e rancori difficili poi da estirpare.

La guerra, qualsiasi guerra, è orrenda perché disumanizza le relazioni, fa prevalere gli aspetti più crudeli dei comportamenti. Si commettono azioni che poi chiamiamo crimini di guerra o “crimini contro l’umanità” sapendo che guerra e umanità non possono mai convivere. Ed è giusto far prevalere, in questa fase, il dubbio, rispetto alle diversità che vengono propinate a mezzo stampa, social, video.

Le vittime di Bucha, sono state giustiziate, fanno parte di un orrido meccanismo di induzione al terrore? La strada in cui sono stati ripresi i corpi è una messa in scena? Poco importa. Di certo è che sono morti, di certo è che le fosse comuni ci sono, di certo c’è che ad impedire ai profughi di fuggire sono stati, per ragioni diverse tanto russi che ucraini. Ma cambia molto? Si cambia molto sugli spalti delle diverse tifoserie sulle tastiere e cambia moltissimo nelle narrazioni tossiche che si costruiranno in Ucraina per marcare le distanze e l’impossibilità a qualsiasi dialogo.

Se, un giorno speriamo non lontano, si potrà fare un bilancio non solo numerico delle vittime dell’invasione e si potranno portare alla sbarra i diversi carnefici che si sono alternati per costruire questa comunicazione basata sul massacro, chi studia storia, chi intende documentarsi, avrà in mano strumenti di verità. Ma per la maggior parte delle persone, quelle che hanno deciso da principio con chi schierarsi, prendendo come ignobile menzogna, tutto quanto proveniva da fonti che non confermavano la propria scelta, poco o nulla cambierà.

Lo si vede dalle diverse ricostruzioni fornite rispetto agli ultimi micidiali otto anni in quei territori. Ricostruzioni divergenti che difficilmente potranno divenire memoria comune e condivisa perché è proprio sul fatto che restino divergenti che si costruisce una identità fondata sul rifiuto dell’altro.

A chi, come noi ha fatto una scelta radicale di ripudio della guerra come strumento atto a risolvere le controversie internazionali, spetterà, se saremo intellettualmente onesti, il compito di ricostruire fili, di affrontare la complessità di portare nell’oblio le propagande da cui, in maniera e in contesti diversi, siamo stati immersi.

Un impegno duro, forse impossibile, che spetterà soprattutto a chi in Ucraina potrà ricostruire, senza il bisogno di rendersi partecipe di uno strumento esiziale come la Nato e in Russia potrà progettare un futuro diverso dal nazionalismo reazionario made in Putin. Ci vorranno forse generazioni, ma su questo e per questo, occorre non interrompere le mobilitazioni.

Stefano Galieni

Resp. Immigrazione PRC

9/4/2022

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