Costruire un movimento per la giustizia climatica anti-imperialista

Nel suo nuovo libro,  A People’s Green New Deal [Pluto Press 2021, ancora inedito in italiano, NdT], Max Ajl presenta una valutazione approfondita, che prende spesso la forma di una denuncia schiacciante, dei limitati tentativi del Nord globale di mitigare e adattarsi al riscaldamento globale. L’eco-nazionalismo, l’eco-modernismo, la socialdemocrazia verde e le declinazioni socialiste democratiche del Green New Deal sono tutte esaminate e tutte sono trovate carenti. Tutte, sostiene Max, a loro modo sono troppo attaccate a quello che Ulrich Brand e Markus Wissen chiamano “lo stile di vita imperiale”. Un modo di vivere basato sulla subordinazione del Sud globale ai bisogni, ai desideri e alle esigenze del Nord globale. E ognuna, a modo suo, nega l’ampiezza della crisi sociale ed economica che abbiamo di fronte.

In risposta Max si rivolge alle lotte del Sud globale. Lì trova i contorni di una risposta alternativa al collasso climatico, radicata nelle pratiche agricole agroecologiche, nei risarcimenti climatici e nelle lotte per l’autodeterminazione. Il libro di Max è quindi molto più di una critica, è un appello stimolante rivolto a noi cittadini del Nord globale per riconsiderare il modo in cui lottiamo per la giustizia sociale e climatica.

In questa intervista Kai Heron parla con Max del suo libro e dell’importanza di mettere l’agricoltura e le lotte del terzo mondo per l’autodeterminazione al centro delle politiche ambientali.

Kai Heron: Forse possiamo iniziare con una semplice domanda. Ci sono già almeno cinque libri disponibili che immaginano come potrebbe essere un Green New Deal (GND). Cosa ti ha spinto a scriverne un altro? E dato quanto sei critico nei confronti delle cornici della GND già esistenti – incluso l’US-centrismo implicito nel nome stesso – perché hai deciso di reimmaginare il contenuto della GND piuttosto che chiedere qualcosa di completamente diverso?


Max Ajl: In primo luogo, era molto chiaro dalla fine del 2018 che l’idea del GND stava interagendo in modo strano con il dibattito pubblico, insieme all’invenzione di Alexandria Ocasio-Cortez (AOC) come socialista democratica. Il GND proposto da lei e da Edward Markey è stata immediatamente etichettato come eco-socialista, mentre l’intera questione dell’imperialismo e dell’accumulazione diseguale è stata interamente liquidata. Divenne subito chiaro che era necessario un intervento che evidenziasse le richieste provenienti dal Terzo Mondo e i bisogni di sviluppo del Terzo Mondo, e che potesse portare la discussione nel nucleo imperiale lontano da una sorta di sostegno morbido alla socialdemocrazia imperialista, verde o altro.

Per quanto riguarda la re-immaginazione del GND mi viene da dire: l’idea del GND ha catturato l’attenzione della gente. Naturalmente, questo è collegato al potere dei media capitalisti e della pubblicità e al fascino persistente di una nozione romantica del New Deal statunitense, che dimentica la minaccia del comunismo come componente trainante del nuovo patto sociale basato sugli Stati Uniti. Ma io sono un po’ populista e non mi dispiace cercare il contatto con la gente là dove c’è effettivamente, almeno in qualche forma.

Tuttavia, o in aggiunta, il libro si occupa di molti dei dibattiti costruiti intorno al GND, mentre chiarisce le loro lacune, assenze e carenze. Inoltre penso che ci sia un bisogno persistente di immaginare – anche se attraverso la sua abolizione o la sua decolonizzazione, o entrambi – che tipo di società può essere costruita sulle terre attualmente occupate dagli Stati Uniti. Penso che molte persone stiano cercando di capire quale potrebbe essere la forma di una tale società, e che questo includa immaginare come essa possa diventare giusta e genuinamente internazionalista, una vera repubblica al servizio dei suoi abitanti. Quindi per tutte queste ragioni aveva senso intitolare il libro A People’s Green New Deal.

Il tuo libro riprende l’appello di Colin Duncan affinché i marxisti mettano l’agricoltura al centro delle lotte per il comunismo. Perché pensi che questo sia importante? E che cosa apporta alla tua analisi la centralità dell’agricoltura, che forse è mancata a coloro che trascurano il settore in favore di argomenti più comuni come le transizioni energetiche verdi?


Mi è sempre stato chiaro che se si vuole costruire un mondo sostenibile, egualitario e giusto, è necessario prendersi cura delle sue basi materiali e costruire un fondamento forte: è necessario prendersi cura della terra, gestirla al meglio. L’agricoltura è la tecnologia storica attraverso la quale l’umanità si è presa cura della terra mentre erigeva civiltà complesse – anche se in molti luoghi terribilmente gerarchiche. Questo è il punto più generale.

In effetti, l’agricoltura è probabilmente in grado di diventare completamente carbon-negative, e di assorbire qualcosa come l’equivalente del 10 per cento, alcuni dicono fino al 30 per cento, delle attuali emissioni globali annuali. Non lo sappiamo con precisione, perché il capitalismo sovradetermina l’epistemologia. Non è  redditizio, anche se sarebbe vantaggioso per la parte più povera dell’umanità, sapere come forme sostenibili di agricoltura potrebbero assorbire l’anidride carbonica atmosferica in eccesso.

Inoltre l’agricoltura industriale capitalista è uno dei principali motori della distruzione della biodiversità attraverso i pesticidi, la deforestazione e la distruzione degli habitat in generale. Dal punto di vista ecologico è chiaramente urgente – e possibile – ricostituire l’agricoltura su basi interamente sovrane ed ecologiche. Nel Terzo Mondo i rendimenti per unità di terreno aumenterebbero con la produzione agroecologica, e comporterebbero diminuzioni relativamente piccole – circa il 25% al massimo per le colture di cereali – dei rendimenti nel Primo Mondo, che produce un massiccio surplus di cereali, specialmente il mais che viene dato in pasto agli animali o trasformato in etanolo e sciroppo di mais.

Mettere l’agricoltura al centro dell’attenzione è anche il modo in cui possiamo immaginare e costruire una convergenza di sviluppo tra il Primo e il Terzo Mondo. In quest’ultimo, i buoni motivi per mettere l’agricoltura al centro sono chiari: l’agro-ecologia, insieme alle riforme agrarie e alla diffusione della adeguata tecnologia rurale, aumenterebbero la salute ecologica generale, aumenterebbero il consumo pro capite di cibo sano e amplierebbero i mercati interni, fornendo al contempo le materie prime organiche richieste da un processo di industrializzazione sovrana. Il rovescio della medaglia è che il Nord, che attualmente dipende dalle esportazioni di prodotti tropicali del Sud, come il caffè, la frutta e la verdura fuori stagione e l’olio di palma, avrebbe bisogno di trovare analoghi domestici, o di pagare prezzi equi per le esportazioni di materie prime dal Terzo Mondo. Questo potrebbe implicare una maggiore attenzione ai sistemi agricoli del nord, e forse – non ne sono sicuro – un coinvolgimento di più persone nel settore agricolo, e certamente più persone coinvolte nella cura del territorio.

Mettere al centro l’agricoltura ci ricorda allora che l’imperialismo, il colonialismo e l’iperindustrializzazione hanno costruito il mondo in un modo molto specifico in cui è stato fondamentalmente possibile immaginare di ignorare la tutela della terra. Questo tipo di alienazione deve essere annullata.

Mentre leggevo A People’s Green New Deal mi è venuto in mente l’annoso dibattito negli studi agrari critici tra i marxisti agrari come Henry Bernstein, Terence Byers e Tom Brass che prendono spunto da Karl Kautsky e Lenin e quelli che a volte vengono chiamati populisti contadini come Jan Douwe van der Ploeg e Miguel Alteri che si ispirano ad Alexander Chayanov. A People’s Green New Deal sembra oscillare tra queste due tradizioni. L’importanza di Marx nel tuo lavoro è evidente, ma anche il nome del tuo libro sembra alludere a un’influenza populista. Il libro non si chiama ‘Workers’ Green New Deal’ o ‘An Anti-imperialist Green New Deal’. Pensi che questa sia una valutazione giusta? Allo stesso tempo, il tuo lavoro è debitore di studiosi associati alla rivista Agrarian South: Samir Amin, Sam Moyo, Paris Yeros, Utsa e Prabhat Patnaik per citarne alcuni. Qual è il contributo di questa tradizione al suo pensiero e alle lotte per la giustizia climatica?


Laddove ha avuto più successo, il marxismo è stato capace di adottare e rielaborare le tradizioni vernacolari e le rivendicazioni populiste e nazionaliste al servizio delle trasformazioni rivoluzionarie. Pensate alla capacità di Ho Chi Minh di sintetizzare nazionalismo e comunismo in una teoria per una rivoluzione nazional-popolare, l’attenzione di Amilcar Cabral per la cultura nazionale e la capacità di parlare alle tradizioni nazionali della Guinea-Bissau, l’adozione da parte di Lenin di alcune retoriche del populismo russo, e nella nostra epoca, la brillante capacità di Hugo Chávez di assorbire e riorganizzare il patrimonio rivoluzionario e nazionalista dell’America Latina e soprattutto del Venezuela per gli obiettivi di trasformazione rivoluzionaria del Chavismo. Le rare doti politiche di ognuno di loro tendevano a interagire con una capacità di parlare “con”, “a”, e “per” il popolo, comunque lo si voglia definire.

Nella metropoli c’è una chiara necessità di mettere a punto un progetto popolare internazionalista, anticoloniale e antisciovinista. È possibile, ma forse non probabile, che i Paesi della metropoli imperiale si trasformino in repubbliche popolari al servizio dei loro abitanti, piuttosto che, come avviene attualmente, evolvere verso Stati herrenvolk. Questo richiederebbe, certamente, di prendere l’esempio dai movimenti neri e indigeni negli Stati Uniti tra i quali il nazionalismo rivoluzionario è stato la grammatica della lotta per molto tempo. Quindi penso che la tradizione populista offra una ricca retorica e un immaginario per la pratica politica reale, anche se con le ben note critiche, spesso sterili, dei fragili marxismi metropolitani.

Ora, Chayanov e dopo di lui Miguel Altieri hanno avuto il genio di confrontarsi con la vita contadina, e il sapere contadino, misurandoli secondo i loro propri principi fondanti, e di individuare in quei modi di vita, concentrati meno sulla cultura o sul “popolo” in sé che sulla produzione materiale, le potenzialità per una trasformazione rivoluzionaria. Le loro proposte erano spesso brillanti. Chayanov chiedeva di decentrare la cultura in un’utopia contadina in un modo che anticipava l’appello di Mao a favore di una crescita rurale-urbana equilibrata, mentre immaginava anche modi per costruire delle cooperative nelle campagne. Al di là di questo, l’attenzione dell’agroecologia alla logica e alle promesse dei sistemi agricoli tradizionali è uno dei maggiori filoni di ricerca popolare-contadina sullo sviluppo degli ultimi 40 anni, eppure ha per lo più subito l’oblio del marxismo metropolitano.

Abbiamo bisogno di una nuova fusione che sia in grado di prendere il meglio da quest’ultima tradizione, pur assicurandosi di mantenere la classe e l’imperialismo al centro del quadro. In questo senso l’ampia gamma di pensiero che può essere etichettata come populismo dovrebbe essere vista come una correzione esterna al marxismo, una correzione esterna che è necessaria per riorientare il marxismo, e infine una correzione esterna che nelle parole di Richard Levins viene “da un esterno già influenzato in parte dal marxismo” un esterno che è stato sia “accolto che ostacolato”.

Mettere l’imperialismo al centro della scena mentre si prende atto dell’importanza della nazione è stato un contributo centrale del progetto di Agrarian South, incluso il loro riconoscimento dell’assoluta centralità del nazionalismo nero radicale in Zimbabwe nel realizzare la più importante redistribuzione della ricchezza del dopo Guerra Fredda. Se il concetto di popolo va di pari passo con quello di nazione, possiamo capire in maniera chiara che il nazionalismo popolare è stato una componente centrale delle vere rivendicazioni a favore di chi possiede le ricchezze del mondo [le classi popolari del Terzo Mondo, NdT].

Per quanto ne so il tuo libro è il primo sul GND ad affrontare la tradizionale questione marxista della divisione tra città e campagna. Sono pienamente d’accordo che oggi questa è una questione urgente per i radicali di tutti i tipi. Ma perché era così importante per te affrontare la questione e perché pensi che gli altri l’abbiano trascurata?


Il GND è emerso come una proposta del Nord globale di trasformazione ecologica e di gestione della domanda di tipo socialdemocratico o keynesiano. Il Nord non è più molto agricolo, e infatti i progetti agricoli sono spesso ridicolizzati. Mi sembra che la maggior parte del marxismo accademico di moda sia stato fondamentalmente intossicato dalla teoria della modernizzazione e consideri in un modo o nell’altro che il Nord abbia completato con successo, anche se in modo frammentario, la sua transizione verso una società industriale e urbanizzata. Per il Sud, beh, meno se ne parla meglio è.

In questo modo sembra non accorgersi che la nostra società è profondamente alienata, ecologicamente distruttiva, vorace nel suo consumo di natura non umana, e che ignora allegramente  gli impatti dell’accumulazione e dei consumi del Nord sulla maggioranza del pianeta, al punto che molti scritti sul GND del Nord semplicemente ignorano l’agricoltura, o abbracciano schemi coloniali o fascisti per la pulizia etnica delle popolazioni pastorali, attraverso il rimboschimento della savana con alberi e altre simili “soluzioni”. Questo semplicemente perché non sanno o non si preoccupano di quello che succede nelle campagne. Ora, se l’essere determina la coscienza, la posizione metropolitana della maggior parte dei marxisti del Nord sembra spiegare molto bene perché l’agricoltura e la divisione città-campagna sono state ignorate o ridicolizzate, parte del radicato pregiudizio anti-rurale del marxismo occidentale con la “M” maiuscola.

A People’s Green New Deal muove una forte accusa morale contro il GND così come è concepito dai socialisti democratici e dai progressisti. Tu mostri in modo persuasivo che questo tipo di GND si basa sulla fantasia della “crescita verde” e sul furto, il saccheggio e lo sfruttamento delle terre e del lavoro del Sud globale. Ma quanto è probabile che vedremo qualcosa di simile al GND progressista cinicamente adottato dagli stati imperialisti nei prossimi anni? E cosa possono fare quelli di noi che si oppongono a questa soluzione capitalista verde alla crisi climatica per fermarla?


Man mano che nel Nord crescono le rivendicazioni popolari nel Nord a favore della redistribuzione e per affrontare la crisi climatica, quasi certamente alla fine vedremo delle misure profilattiche: cioè la socialdemocrazia verde. Penso che Ocasio-Cortez sia stata una prima anticipazione di questo, e molti come Naomi Klein sembrano essersi offerti di servire come emissario di AOC nel reinventarla come alleata nella lotta contro il capitalismo, il colonialismo, ecc. Quindi la minaccia è molto reale.

Per fermarlo, dobbiamo identificare concretamente i suoi meccanismi, smascherarne i piani e, se necessario, identificare coloro che stanno vendendo questi piani come antisistemici o anticapitalisti alla sinistra progressista o socialdemocratica. Questo tipo di contro-insurrezioni si verificano nella storia: non è solo “il sistema” o un’ingenua intellighenzia ben intenzionata ma confusa che produce queste falsità. Emergono concretamente, con chiare linee di responsabilità. Bisogna prima identificarle e poi costituire un polo separato di forza organizzativa che possa di fatto fermarle.

Un New Deal popolare e verde chiede che il Nord globale ripaghi il debito climatico accumulato nei confronti del Sud globale. Sono d’accordo che questo è indispensabile per le lotte per la giustizia climatica. Ma ogni volta che si fa questo ragionamento c’è sempre chi dice che è impossibile riunire i lavoratori del Nord del mondo intorno alla solidarietà con il Sud del mondo finché le condizioni della classe lavoratrice del Nord del mondo non sono migliorate: sanità pubblica universale, lavori verdi sindacalizzati, e così via. Cosa ne pensi di questi argomenti? E come è possibile oggi costruire concretamente la solidarietà tra il Nord e il Sud?

Penso che coloro che non vogliono discutere questi temi dovrebbero chiedersi se forse sono più coinvolti nel colonialismo di quanto vorrebbero confessare pubblicamente. Consideriamo l’assistenza sanitaria universale, un argomento che riprendo nel libro. Cuba ottiene risultati sanitari superiori perché ci sono più medici pro capite, c’è un’assistenza comunitaria, e c’è un’assistenza sanitaria preventiva, economica ed efficiente piuttosto che reattiva, costosa, pesante per i beni industriali e inefficiente. E’ una questione di modelli. Un modello si basa su abilità umane, conoscenza e cura, e può essere portato avanti con metodi relativamente leggeri in termini di risorse. L’altro modello si basa su tutti questi elementi più la tecnologia massiccia, e dà risultati peggiori, con emissioni di anidride carbonica molto più alte.

Perché non insegnare alla gente i modelli alternativi di assistenza sanitaria? Dovremmo insegnare loro il modello cubano. Dovremmo proporre un aumento massiccio dell’assistenza comunitaria e della formazione dei medici, un’attenzione alla nutrizione e all’assistenza sanitaria universale gratuita, come a Cuba. E dovremmo combinare tutto questo con il rimborso del debito climatico. Il problema è che una qualche immaginaria “classe operaia occidentale” non è interessata a questo progetto? O piuttosto il problema è il razzismo redditizio degli opinionisti occidentali? Abbiamo bisogno di una discussione seria su questo, tenendo presente che il razzismo è un sistema di classe.

Certo, la solidarietà Nord-Sud è difficile. Ma inizia sostenendo le lotte del Sud per la dignità, lodando i loro successi e mostrando come il Nord stia bloccando queste lotte. Sfortunatamente, gran parte della classe degli opinionisti e della stampa vanitosa ad essa collegata prende la strada opposta: sostengono le lotte del Sud per quella che chiamano dignità solo negli Stati presi di mira dall’imperialismo statunitense, non lodano mai i successi finché non sono costretti a farlo, come nel caso del tardivo riconoscimento della diplomazia medica di Cuba di fronte all’attuale epidemia, e sistematicamente negano e cancellano il ruolo del Nord nell’impedire l’autodeterminazione del sud.

Basti pensare che Historical Materialism, una rivista marxista dichiaratamente antimperialista, ha ignorato per anni le sanzioni occidentali sullo Zimbabwe, o più recentemente ha ignorato il ruolo occidentale nel colpo di stato contro il Partito dei Lavoratori in Brasile, e i suoi collaboratori hanno firmato una lettera che chiedeva di sanzionare l’Iran. Poi altri opinionisti in altri settori dello stesso cartello editoriale lamentano il razzismo permanente della classe operaia e la conseguente impossibilità di costruire la solidarietà tra Nord e Sud. Credo che il termine che i giovani usano per questo spettacolo sia “gas-lighting” [una forma di manipolazione psicologica che mina le capacità cognitive della vittima, NdT]. Mi sembra che il problema del razzismo cominci con gli opinionisti che vendono la loro penna piuttosto che con l’ignoranza della classe operaia.

Tu sei stato inflessibile nella critica a studiosi, organizzatori e opinionisti che non prendono in considerazione le lotte e le tradizioni intellettuali del Sud globale. Cos’è che ti spinge ad adottare questa linea? E quali opere dovrebbero conoscere gli organizzatori del Nord globale se vogliono migliorare la loro comprensione di come funziona l’imperialismo oggi?

Ho passato la maggior parte degli ultimi 13 anni, o la maggior parte della mia vita adulta, fuori dagli Stati Uniti, soprattutto nella regione araba. Ma questo è un aneddoto personale. In realtà, l’umanesimo dovrebbe guidarci e può spingere chiunque di noi all’empatia e al sostegno delle lotte del Sud per il pane, la terra, la libertà, l’emancipazione e lo sviluppo popolare. Tutti sul pianeta meritano di avere una vita decente, e bisogna essere seriamente sovra-istruiti e sotto-informati per pensare che il cammino verso la buona vita per il pianeta proceda principalmente attraverso l’azione politica delle classi lavoratrici occidentali e il lavoro intellettuale di criticare le contraddizioni interne dello sviluppo del Terzo Mondo dalle cattedre universitarie del Nord.

E’ proprio il contrario: sono state le periferie a spingere la trasformazione rivoluzionaria, portando a loro volta nuove prospettive nel centro, dall’URSS, al maoismo, a Cuba, alla rivoluzione vietnamita e, per questo, alla Palestina. Se siamo d’accordo che un sistema mondiale giusto è quello in cui i più esclusi e oppressi hanno dignità e libertà, allora sembra logico che dobbiamo tener conto delle loro richieste e dei modi in cui la loro oppressione è legata all’imperialismo contemporaneo. Al contrario, coloro che ignorano e denigrano quelle richieste e quelle istanze rivoluzionarie stanno stabilizzando il sistema attuale.

Per fortuna le cose stanno cambiando. Infatti, stiamo vivendo un periodo di rinascita della teoria rivoluzionaria sull’imperialismo. Non posso che raccomandare le opere di Utsa e Prabhat Patnaik, John Smith, Ali Kadri, tutti i libri e gli articoli del progetto Agrarian South, accanto al lavoro fondamentale di Samir Amin, Walter Rodney, Ruy Mauro Marini e Vania Bambirra, e la letteratura sulla teoria della dipendenza in senso lato, emersa in ogni regione periferica.

Max Ajl è ricercatore presso il gruppo di sociologia rurale dell’Università di Wageningen e ricercatore associato presso l’Osservatorio tunisino per la sovranità alimentare e l’ambiente. È un redattore associato di Agrarian South. Il suo libro, A People’s Green New Deal, è stato pubblicato nel 2021 con Pluto Press.

Fonte: Roar Magazine

Traduzione a cura di CIVG

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