Accoglienza ipocrita e sfruttamento badanti ucraine

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Credo che il ribrezzo provato da tanti di fronte all’uso ipocrita – ad uso e consumo dei guerrafondai al governo e nelle redazione di giornali e telegiornali – dei profughi ucraini che fuggono dalla guerra sia condiviso dalle migliaia di immigrate ucraine, da tempo in Italia, sottoposte in molti casi a umiliazioni al confine dello schiavismo come badanti nelle famiglie italiane.

Ne ho conferma dalle opinioni di queste settimane di alcune donne ucraine, ultime in ordine di tempo di altre testimonianze dirette nel mio ultimo decennio di lavoro come referente regionale in Piemonte delle pratiche di riconoscimento dei titoli sanitari esteri. Richieste di riconoscimento di esperienze ultradecennali nei Paesi dell’Est europeo che difficilmente vanno a buon fine, causa impedimenti burocratici, che privano la nostra malridotta sanità pubblica di grandi risorse mediche e infermieristiche in particolare, e costringono tali competenze sanitarie, in alcuni casi anche di Primari di grandi strutture, a scegliere di cercare un lavoro come badante.

Come le tante altre storie, che mi sono state raccontate, di donne africane che scappano dalla guerre e dalla fame di produzione occidentale, sono storie di sopprusi e sfruttamento – in alcuni casi di vero e proprio sequestro di persona in assenza di libertà di riposo – che indignano chi, come il sottoscritto, oggi assiste all’ignobile propaganda a favore dell’invio di armi dall’Europa in Ucraina. Badante, in particolare se di origine dell’Est, è spesso usato come termine dispregiativo per indicare le lavoratrici di cura e assistenza agli anziani, in casa o nelle famigerate RSA. La numerosa presenza delle donne ucraine in Italia ci parla di salari bassi, schemi pensionistici inadeguati e assenza di welfare. E rende ancora più chiara l’interessata ipocrisia della corsa all’accoglienza della politica italiana

La quotidianità di queste lavoratrici è fatta di ore di lavoro massacranti, di paghe basse, di poche tutele e in molti casi anche maltrattamenti. Le loro rivendicazioni, però, fanno fatica ad uscire dalle quattro mura di casa e hanno strumentale visibilità sui mezzi di comunicazione.

Il ricatto di esser licenziate se non si accettano condizioni capestro, l’accumulo senza soste di compiti da eseguire, il controllo di limitazione del cibo determinano il limite tra vita e lavoro che scompare in ambiti logoranti sia da un punto di vista fisico, sia da un punto di vista emotivo e psicologico.

Arrivano in Italia in un buon stato di salute che subisce nel tempo un attacco dalla massacrante attività lavorativa, le conseguenze più visibili portano a problemi muscolo-scheletrici, criticità respiratorie, ansia, panico, depressione e problematiche dermatologiche, senza che abbiano ascolto nelle famiglie datoriali e nelle strutture sanitarie.

Vivono una condizione di segregazione occupazionale che avviene a prescindere dal titolo di studio (il 20% ha una laurea) e dal proprio percorso lavorativo pregresso. La segregazione occupazionale si accompagna alla povertà lavorativa: lo stipendio medio mensile delle domestiche ucraine è di circa 680 euro. Le residenti ucraine in Italia hanno un’età media molto alta e si collocano nei numeri totali dell’immigrazione come quinta provenienza dall’estero e contano circa 235 mila persone sparse in quasi tutte le regioni e la presenza femminile raggiunge l’80%

Dati e vite clandestine ad oggi senza attenzione nei media, nelle politiche governative e regionali, per questo oggi ci risulta quantomeno odioso l’ostentato buoncuore nei salotti televisivi mentre mentre per un decennio hanno fatto morire in mare e ai confini migliaia di migranti con i loro decreti sicurezza. E continuano a morire ai confini delle nazioni dell’Est ora assoldate dalla UE.

Questa Europa se ne frega anche delle centinaia di migliaia di bambini in Moldova, Romania, Ucraina, Bulgaria crescono senza i genitori migranti. Le conseguenze sui figli sono di natura psicologica, abbandono scolastico, condizioni sanitarie precarie, esposizione alle reti di prostituzione e al traffico degli esseri umani.

Da oggi in poi, quando si saranno spente le telecamere su questa guerra, quante delle profughe ucraine saranano sfruttate dalla “accogliente Italia” in quelle famiglie di benpensanti che oggi sprecano lacrime di coccodrillo sul loro destino di profughe ma che nascondono sotto il tappeto del buon cuore accogliente le loro nefandezze compiute contro le ucraine già residenti in Italia?

Franco Cilenti

Editoriale del numero di aprile del mensile Lavoro e Salute

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