Miliardo Yida: scarti di vite operaie per l’economia ‘verde’

Debbono perder sangue, ma non debbono crepare”

B. Brecht, Santa Giovanna dei Macelli

La realtà di sfruttamento dietro l’economia “verde” e “circolare”

Nella pianura di Pontecurone, in provincia di Alessandria, opera la Miliardo Yida, un’azienda che ricicla rifiuti di plastica, carta, cartone per la futura trasformazione in nuovi prodotti. Leggendone il sito sembra di trovarsi di fronte a una storia innovativa di economia circolare, tutela ambientale e multiculturalismo: “La nostra è la storia di un’azienda giovane e multietnica, dove lavorano a stretto contatto diverse culture – italiana, cinese, egiziana – ma con alla base una lunga esperienza nel settore, principalmente nel campo delle materie plastiche. Operiamo in piena sinergia con i principi dell’economia circolare e della green economy”. A commentare le finalità dell’azienda fa capolino una suggestiva citazione dello scienziato Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

L’immagine manierata che la circular economy company offre di se stessa è un bel fondale di cartapesta che nasconde una realtà di sfruttamento lavorativo, resa nota dalle lotte sindacali. Dal 2019 si susseguono, infatti, scioperi e trattative durante una lunga e difficile vertenza aperta dal sindacato SI Cobas su diversi licenziamenti ritenuti illegittimi, sul rispetto del contratto nazionale della logistica e delle norme di sicurezza e igiene. Nonostante l’ambiente ostile alle rivendicazioni, il sindacato riesce a ottenere dei risultati e rendere visibili le precarie condizioni di lavoro alle quali è costretta la manodopera; si tratta di lavoratori e lavoratrici prevalentemente immigrati, molti dei quali assunti da società e cooperative esterne secondo un sistema, documentato anche dagli organi competenti, d’intermediazione illecita di manodopera. Gli stessi hanno riconosciuto a diversi operai di aver subito danni retributivi e contributivi, avendo essi dovuto lavorare anche per sette giorni su sette, per un ammontare di ore non previsto dal contratto, fino alle dodici ore al giorno; altri risultavano invece impiegati senza un regolare contratto.

Si sono verificati diversi incidenti sul lavoro, alcuni potenzialmente mortali, e, in generale, i lavoratori hanno denunciato, con tenacia, di non essere dotati di protezioni adeguate alla possibilità di ferimento e al rischio biologico nella movimentazione degli scarti destinati al riciclo tra i quali sono inglobati, spesso, altri tipi di rifiuti. È stata documentata la presenza di coltelli, carcasse di animali e, persino, rifiuti sanitari. Altri rischi riguardano l’utilizzo delle macchine senza un’adeguata preparazione e protezione; l’esposizione ad agenti tossici nel processo di riconversione degli scarti e, in generale, a spazi di lavoro insalubri con la possibilità di sviluppare nel breve, medio e lungo termine delle patologie a essi correlati. Non trascurando che lo stress determinato dalla precarietà, conflittualità e insicurezza lavorativa è, esso stesso, un fattore di rischio per la salute.

La malattia da lavoro che deve sparire: testimonianze dagli operai

Fadil*, un trentenne che lavora per l’azienda da circa tre anni, è stato vittima di un grave incidente che ricorda così:

Sono caduto dentro la vasca che macina la plastica. La stavo pulendo e ci sono caduto dentro mentre andava, mi sono graffiato da tutte le parti (del corpo) con le lame. Dentro le vasche c’è acqua con candeggina e altro ancora. Un amico, grazie a Dio che c’era lui, ha chiamato un altro ragazzo per chiudere la vasca (fermare la macchina) e sono riusciti a farmi uscire. Non ho fatto la “malattia” perché mi hanno detto i ragazzi: “Se fai la malattia ti licenzia”; e io non l’ho fatta. Un amico ha bloccato la vasca, però dopo che mi ero già fatto male alla testa, alla schiena. Sopra la vasca c’era un pannello, io stavo sopra il pannello a metà vasca, stavo pulendo e, improvvisamente, la vasca si è girata, si è mangiata il pannello di legno da sotto e io sono caduto dentro, io e il pannello siamo caduti dentro la vasca. Sono caduto con tutto il corpo dentro l’acqua dove c’era la candeggina, i ragazzi mi hanno detto: “Non uscire! Se esci la lama ti prende la testa”. E allora sono stato più di tre o quattro minuti dentro la vasca, finché l’hanno bloccata e dopo sono uscito. Ero proprio dentro, dentro con la faccia, non respiravo e stavo per morire. I ragazzi mi hanno detto: “Se chiami l’ambulanza ti licenzia”. Allora non ho chiamato nessuno perché avevo già lasciato il mio precedente lavoro e non potevo ritornare. Dove vado a cercare lavoro?

Da quel giorno continua ad avere delle difficoltà respiratorie:

Da quando sono caduto nella vasca non respiro bene. (…) Anche adesso non respiro bene. Per respirare devo bere l’acqua. Per respirare devo bere l’acqua sempre. (…) Quando prendo il respiro non lo prendo bene, non lo prendo bene il respiro. Devo bere sempre acqua o acqua e menta. Mi aiuta a respirare. (Questa cosa è iniziata) da quando lavoro là, prima era tutto a posto, facevo il cartongesso (in un’altra azienda) ed era tutto a posto. Da quando sono venuto qua (alla Miliardo Yida) ho (anche) mal di pancia, mi fanno male i polmoni, gli occhi mi bruciano e sono anche caduto tre, quattro volte in fabbrica. Scivolavo perché il pavimento è pieno d’acqua. Se mi facevo male non lo dicevo, (altrimenti) licenziamento…

Fadil aggiunge che lavorando si “respira di tutto, immondizia, rifiuti”. Quando si entra nella fabbrica: “Tu entri e vomiti. Ti entra (l’aria) e muori (ti senti male)”. A chi gli suggerisce che per il problema respiratorio dovrebbe sottoporsi a esami e analisi specifiche, risponde: “No, no, questo al cimitero lo fanno”; a dire che si può essere curati solo troppo tardi, quando si è già morti. E aggiunge:

Manca poco, poco che vado dallo psicologo, sempre penso e penso, lavoriamo con la paura nel posto di lavoro, finiamo il lavoro, andiamo a casa e abbiamo paura che poi vengano licenziati i ragazzi e tante altre cose. Se non c’è nessuno dietro di noi (che ci protegge), noi non possiamo fare nulla, giusto?

Malik è un ventiquattrenne, lavora nella fabbrica da diversi anni. Durante la primavera del 2021 si è recato al pronto soccorso con dei traumi all’avambraccio e al polso causati dal lavoro. Un amico lo aiuta a tradurre in italiano quanto racconta in arabo: “Lavorava con noi sulla pala e tirava della plastica, poi si è fatto male lì nel braccio. Tirando”. Inizialmente assunto da una delle cooperative esterne che fornivano manodopera alla Miliardo Yida, dopo un iniziale periodo di lavoro grigio è stato assunto direttamente dall’azienda con un contratto a tempo indeterminato. Il trauma subito, in questo caso segnalato all’INAIL, gli provoca un dolore continuo che si è cronicizzato a tal punto da impedirgli di lavorare. Quando ritorna in fabbrica resiste qualche giorno, poi è costretto a stare nuovamente in malattia; va avanti così da otto mesi. Malik tiene tra le mani i diversi referti che traducono il suo dolore in un linguaggio medico a lui indecifrabile. Un dolore del quale non sa e non ha capito ancora quale possa essere la cura: “Io sono ancora giovane. E quando lavoro ho sempre male. (…) Lavoro poco e quando lavoro ho male. Tutto male. (…) Quando dormo la sera non riesco a dormire, prendo il ghiaccio per il dolore (che ho) in tutto il braccio quando dormo. Quando mangio non riesco a mangiare bene”. Un amico commenta: “Non può lavorare, ma deve lavorare. (…) Ci sono altri ragazzi che si sono fatti male là, ma nessuno parla. Chi parla: licenziamento”.

Shadi è un ex lavoratore della Miliardo Yida che racconta:

Ho lavorato prima sei mesi in nero. (…) Poi sotto due cooperative, sono due anni che ho lasciato questo lavoro. Quando sono partito per il mio paese (per le ferie) lui mi ha licenziato. Per quattro anni non avevo fatto ferie, non avevo preso ferie, quando sono partito per il mio paese lui mi ha licenziato. (…) Loro fino alla fine volevano pagarmi cinquanta euro al giorno, lavoravo otto ore e se anche lavoravo dodici ore, lui mi pagava sempre cinquanta euro al giorno. (…) Lavoravo dieci ore e loro mi facevano un contratto di otto ore falso e mi pagavano quattro ore nella busta paga e mi mandavano una busta paga di cinquecento euro, però io lavoravo dodici ore. Ero sempre stanco. Sono sposato e ho una figlia, quando stavo male proprio non potevo parlare, lui mi diceva: “Stai a casa due giorni, tre giorni in malattia e basta”. (…) Vogliono gente che non guarda, non parla, non sente.

Walid è un altro ex operaio di mezza età dell’azienda, si è licenziato dopo quattro anni di lavoro:

Dentro la ditta mi sono tagliato la mano, come altri ragazzi si sono tagliati la mano (mostra le sue cicatrici). (…) “Lavoravo dodici ore, senza riposare un giorno, avevo una carta dove erano scritti a mano i soldi in nero che mi doveva pagare. (…) Quando uno andava in ospedale o faceva malattia lo licenziavano subito. (…) Un altro è caduto, si è rotto qua (mostra dove) e anche rotto la schiena, un osso, lui ha denunciato al tribunale adesso”. Mostra di nuovo i tagli sulle dita e continua: “Nella macchina c’è dentro una lama per tagliare la plastica, tutti i ragazzi non fanno i corsi per la sicurezza, quando metti la mano nella macchinetta, taglia subito! La lama è come un coltello”. Racconta di una persona che lavora alla Miliardo Yida, descritta come una sorta di caporale che gestisce la manodopera e accompagna gli operai feriti in ospedale oppure a casa, dissuadendoli dal denunciare gli infortuni sul lavoro; sarebbe anche il presunto responsabile del tentato investimento di un lavoratore durante uno sciopero. Diverse voci convergono sul ruolo di questa persona che “fa paura a tutti per il licenziamento, perché tutti hanno mogli e bambini, tutti (non possono perdere il lavoro). Tutti hanno paura. E quando c’è qualcuno che cade, si taglia la mano, lui li porta all’ospedale, dice che si è fatto male a casa, che si è tagliato a casa, dentro casa non ‘dentro il lavoro’. (…) Dice all’ospedale che è caduto dalle scale, non dice che è caduto al lavoro.

Continua Walid:

Lui mi ha preso in macchina e mi ha portato a casa, poi sono andato in farmacia. Per tutti i ragazzi si fa così, per tutti i ragazzi. Anche Fadil è caduto dentro la vasca e si è tagliato la schiena, lui ha tanti problemi con la schiena, con la testa. (Anche io) da quanto ho lasciato questo lavoro ho sempre un problema alla schiena. Anche al piede, sempre. Non posso toccare il piede sotto, quando lo tocco anche adesso mi fa male. C’era tanta acqua (sul pavimento della fabbrica), lavoravo con scarpe normali di plastica e quando c’era freddo a gennaio, dicembre, la notte…Anche adesso ho sempre un dolore al piede anche ora che sto facendo un altro lavoro; lavoro piano, piano. (…) Un altro lavoratore gli ha fatto denuncia, lui è caduto, si è rotto due ossa e lui ha fatto denuncia. Ce n’è altri, ce n’è uno adesso a casa che ha tutte e tre le dita rotte, sono due mesi che è a casa, lui non vuole fare denuncia, dice che se lo denuncia poi viene licenziato, ha fatto infortunio. (…) C’è un’altra persona che ha problemi, non può più camminare. Cammina poco, però cerca (lo stesso) un lavoro perché ha figli. Lui prende sempre il Contramal (un farmaco oppioide antidolorifico), lo prende sempre per camminare. Adesso è andato in un’altra città, ha trovato un nuovo lavoro. All’ospedale di Alessandria gli avevano detto che c’era bisogno di un intervento. Ma lui non ha soldi (per farlo).

Rami è un altro ex lavoratore della Miliardo Yida che continua ancora ad accusare problemi fisici: “(Ho male) alla gamba, con il muletto mi sono fatto un colpo alla gamba. Sono stato a casa quasi un mese, ho fatto infortunio, ma ho ancora qualcosa dentro il ginocchio, devo fare un’operazione, però non posso farla al momento”. Dice di avvertire anche dei disturbi respiratori e racconta di un suo amico che, mentre lavorava nell’azienda, “si è fatto male all’occhio, l’acqua sporca gli è entrata dentro l’occhio, è stato all’ospedale di Voghera quasi un mese perché gli era entrata l’acqua troppo sporca lì dentro”. Con amarezza suggerisce che dovrebbero costruire un ospedale vicino alla fabbrica per tutte le persone che si fanno male lavorando.

Migrazione e lavoro: una “violenza a fior di pelle”

Il legame tra sfruttamento lavorativo e migrazioni è ormai noto, lungo le rotte della mobilità e nella duratura provvisorietà dei percorsi migratori. Questi lavoratori e queste lavoratrici sono particolarmente esposti a precarie condizioni di lavoro, a seconda del loro mutevole status giuridico e della necessità di sostentarsi anche in condizioni considerate irregolari. Il lavoro supersfruttato rende funzionale al mercato tale vulnerabilità e li espone a diversi tipi e gradi di rischio: dagli infortuni alle malattie professionali, fino alla morte. A questi danni causati dal lavoro s’aggiungono gli altri a esso correlati, determinati dalla precarietà delle condizioni di vita; sono l’esito di una mercificazione al ribasso del valore attribuito a certe vite, in una determinata economia della salute che stratifica in modo diseguale anche la possibilità di accesso alla cura.

In questo scenario di “violenza a fior di pelle”, riprendendo un’espressione di Frantz Fanon, la Miliardo Yida è esemplare e al passo con i tempi: attinge a una diffusa mobilità di manodopera ricattabile e usa elementi ideologici progressisti per comporre una patinata facciata etica della produzione, ben rappresentata da una delle immagini che appaiono sfogliando il sito web, un verde campo di grano sul quale campeggia la frase: “Per contribuire a un mondo migliore”. Si rende evidente come le strategie predatorie del profitto rimangano inalterate nell’ascesa dell’economia verde, in assenza di una metamorfosi radicale dei rapporti di dominio, a scapito sia della vita dei lavoratori e delle lavoratrici sia dell’ambiente.

Proprio come nel cupo ‘dietro alle quinte’ di una festosa messinscena, stanno i corpi degli operai e delle operaie che perdono dita, avambracci, polsi, polmoni, arti nella filiera del riciclo: scarti di vite sacrificabili secondo i canoni sempreverdi dello sfruttamento, per produrre una “new life for materials” [“nuova vita per i materiali”], come recita un altro slogan dell’azienda. Nel tenere insieme questa ambiguità, le ‘buone maniere’ contano nella comunicazione pubblica della produzione e nel rapporto con il territorio tanto che l’azienda contribuisce con donazioni a strutture socio-sanitarie locali: ha partecipato a una raccolta fondi per l’ospedale di Alessandria; ed è dell’aprile 2020 un pubblico ringraziamento della Provincia alla Miliardo Yida per il “sostegno delle RSA”, sottolineando la “capacità di fare quadrato tra pubblico e privato di fronte a emergenze drammatiche come quelle che stiamo vivendo” che “esalta i valori di solidarietà che contraddistinguono la migliore Italia”.

Le parole di Fadil, Malik, Walid, Shadi, Rami e le altre che in coro si aggiungono da più parti, rimangono qui a testimoniare che sono udibili solo perché c’è stata una lotta. Altrimenti non le sentiremmo, nascoste come sono al riconoscimento dai tanti fondali di cartapesta della ‘migliore Italia’. Sono voci che testimoniano come i sintomi dei corpi dolenti dovrebbero essere ascoltati per ciò che sono: non sintomi individuali, ma collettivi; e suggeriscono l’urgenza di promuovere ulteriori azioni collettive per contrastarne l’occultamento, quando esso riesce a sottrarsi anche ai più ostinati tentativi di resistenza. Come scrive Piero Coppo ne Le ragioni degli altri, ricordando la lezione di Basaglia: “L’intera società, le sue regole e le sue dinamiche erano messe sotto esame: le sofferenze dei singoli venivano lette non come guasti della persona, ma come sofferenze della società, spine nell’immagine che voleva darsi di se stessa e intralcio nel suo funzionamento”.

Ottavia Salvador

Ricercatrice indipendente. Ha conseguito un dottorato in Scienze Sociali all’Università di Genova. Tra i suoi lavori, il libro “Morti senza sepoltura. Tra processi migratori e narrativa neocoloniale” (ombre corte, 2019, con F. Denunzio) e il documentario “Ogni anima muore. Elegia per Majid” (2017).

* Tutti i nomi sono stati modificati; i racconti dei lavoratori sono stati raccolti a Pontecurone nell’autunno 2021. Si tratta di un’indagine parte di un più ampio progetto di ricerca indipendente sulle sintomatologie determinate da condizioni di sfruttamento lavorativo.

Ottavia Salvador

5/5/2022 https://www.lavocedellelotte.it

Un ringraziamento ai lavoratori e ai sindacalisti del SI Cobas per le riflessioni condivise.

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