Chi racconta la Palestina è sotto tiro

L’altro giorno, molti di noi si sono svegliati con la notizia che la giornalista di lungo corso di Al Jazeera Shireen Abu Akleh era stato uccisa nella Cisgiordania occupata. La donna, cinquantunenne, stava seguendo un’incursione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin quando è stata colpita in faccia da un cecchino israeliano, nonostante indossasse un giubbotto antiproiettili. Testimonianze di prima mano dicono che è caduta dopo essere stata colpita, ma la sparatoria è continuata, impedendo ad altri giornalisti di raggiungerla e soccorrerla.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett, con la consueta mancanza di senso di colpa, ha affermato che le informazioni raccolte da Israele suggeriscono che i palestinesi armati siano responsabili della morte della giornalista. Ma Walid al-Omari, capo dell’ufficio di Gerusalemme di Al Jazeera, ha detto che Abu Akleh è stata deliberatamente uccisa e che non ci sono stati scontri con uomini armati sul luogo della sparatoria. Parlando al Guardian, Shatha Hanaysha, una giornalista di Quds News Network che ha assistito all’incidente, ha ricordato: «Eravamo parte di un gruppo che portava la scritta addosso di ‘Press’, Shireen indossava persino il casco. Quindi, è ovvio che colui che le ha sparato intendeva colpire dove non era protetta».

Hanaysha parla di «assassinio». A ciò risponde una dichiarazione ufficiale rilasciata da Al Jazeera che condanna il «palese omicidio» di Abu Akleh, «assassinata a sangue freddo», ed esorta la comunità internazionale a ritenere responsabili le forze israeliane.

Abu Akleh aveva denunciato e documentato l’oppressione israeliana dei palestinesi per più di quindici anni per Al Jazeera Arabic. Per i palestinesi come me, il suo giornalismo incarnava il coraggio palestinese di fronte al regime brutale di Israele.

Ma nonostante il particolare status di Abu Akleh tra i palestinesi e la stampa, il direttore di Israele e Palestina per Human Rights Watch, Omar Shakir, ha suggerito che la sua morte non è anomala. In primo luogo, ha una notevole somiglianza con la morte di Ahmad Abu Hussein e Yasser Mortaja, due giornalisti palestinesi uccisi dai cecchini israeliani mentre seguivano le proteste della Grande Marcia del Ritorno nel 2018. In effetti, un anno fa, durante l’incessante pestaggio di Israele della Striscia di Gaza, i jet israeliani radevano al suolo un edificio contenente gli uffici di testate giornalistiche tra cui Associated Press e Al Jazeera.

Secondo il Palestine Journalists Syndicate (Pjs), cinquanta giornalisti palestinesi sono stati uccisi dal 2000. Reporter senza frontiere afferma che almeno 144 giornalisti sono stati feriti dalle forze israeliane, anche con proiettili, manganelli e granate assordanti, dal 2018. Solo il mese scorso una denuncia formale è stata presentata alla Corte penale internazionale dalla Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj), dal Sindacato dei giornalisti palestinesi e dal Centro internazionale di giustizia per i palestinesi (Icjp) sulla «mira sistematica» da parte di Israele dei giornalisti palestinesi. Separatamente, l’anno scorso l’I’lam – Arab Center for Media Freedom, Development and Research ha rilevato che gli attacchi e le aggressioni contro giornalisti e operatori dei media israelo-palestinesi riguardanti manifestazioni e violenze in Israele e nei territori occupati sono stati commessi in misura schiacciante dalle forze israeliane.

Solo pochi giorni fa, i soldati israeliani hanno aggredito e ferito il giornalista locale Basil al-Adraa nel villaggio di a-Tuwani nelle colline meridionali di Hebron mentre dava conto dell’ordine dei soldati israeliani a un palestinese di demolire una struttura improvvisata che aveva costruito lì. Secondo quanto riferito, ai soldati dava fastidio che al-Adraa cercasse di filmarli. Qui sta l’obiettivo: soffocare la documentazione della pulizia etnica e dell’oppressione sistematica in cui sono impegnate le forze israeliane, in modo che si possa procedere senza sollevare consapevolezza e affontando zero responsabilità.

Non è un caso che questi atti di violenza avvengano in un momento in cui il maltrattamento e lo sfollamento forzato dei palestinesi stanno peggiorando. La scorsa settimana, l’alta corte israeliana ha dato il via libera allo sgombero di mille palestinesi da Masafer Yatta, un’area rurale delle colline di South Hebron che ospita diversi piccoli villaggi palestinesi. Quell’espropriazione dalla terra destinata a essere riutilizzata per uso militare, costituirà una delle più grandi espulsioni singole di uomini e donne palestinesi degli ultimi decenni.

Questa settimana segna settantaquattro anni dalla violenza della Nakba – la catastrofe, in arabo – in cui 750.000 persone furono rese profughi, migliaia uccise e centinaia di villaggi distrutti prima della formazione dello stato di Israele nel 1948. La Nakba non è stata un singolo momento nella storia, costituisce un processo continuo di violenza e sfollamento, e le forze israeliane stanno cercando – fallendo – di nascondersi.

«Ho scelto il giornalismo per essere vicina alla gente – diceva Shireen Abu Akleh – Potrebbe non essere facile cambiare la realtà, ma almeno potrei portare la loro voce nel mondo». Sulla scia della sua morte, diventa chiara l’importanza di ascoltare quelle voci, così come di ascoltare le loro richieste di incrollabile solidarietà di fronte all’aggressione di Israele.

Hamza Ali Shah è ricercatore politico in un think tank e frequenta un master al King’s College di Londra. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

13/5/2022 https://jacobinitalia.it

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