Breve guida per raccontare lo stupro

Foto: Unsplash/ Ekrulila

“Mi appoggiava il piede tra le gambe”. Adesso Ciro Grillo si difende così. Alberto Genovese: “Non l’ho pagata e mi ha denunciato”. I legali del principe Andrea: “Virginia Giuffre potrebbe avere la sindrome dei falsi ricordi”. Questi titoli di giornale, tratti da tre quotidiani italiani, si riferiscono ad altrettanti casi di violenza sessuale molto discussi nell’ultimo anno: l’accusa mossa da una ragazza contro Ciro Grillo, figlio del comico Beppe, che l’avrebbe violentata nella villa del padre in Costa Smeralda nel 2019; il caso del fondatore di facile.it, che deve rispondere di due violenze avvenute nel suo attico a Milano nel 2020; e il contenzioso tra Andrea di York, figlio della Regina Elisabetta, e Virginia Giuffre, che gli imputava un abuso consumatosi nel 2000, quando lei era minorenne.

I tre titoli hanno un vizio comune: assumono tutti il punto di vista del presunto stupratore. E se è vero che fermarsi al titolo non è mai una buona idea, è altrettanto vero che il titolo è la parte di un articolo che arriva a tutti, anche a coloro che decidono di proseguire oltre senza leggere l’intero pezzo. Il messaggio che esso veicola, dunque, è di fondamentale importanza. 

Quanto a messaggi trasmessi, tuttavia, la narrazione della violenza sessuale sui giornali italiani non si può considerare completamente libera da stereotipi e pregiudizi: infatti, spesso è la donna a finire sul banco degli imputati. Accade, ad esempio, che della vittima siano valutati il comportamento e l’abbigliamento, due elementi che ai fini della ricostruzione dei fatti sono spesso irrilevanti, con il risultato di addossare a lei una parte di colpa (victim blaming): il famoso “se l’è cercata”.

Il termine himpathy, invece, indica un atteggiamento particolarmente indulgente, una “empatia sproporzionata” di cui godono alcuni uomini nei casi di violenza di genere. Genovese, ad esempio, all’indomani della denuncia per stupro, è stato descritto dal Sole 24 Ore come “un vulcano di idee che, al momento, è stato spento”; non proprio una caratterizzazione impietosa per il “genio delle piattaforme”. L’articolo ha scatenato le proteste di alcune giornaliste e il Sole lo ha poi modificato, scusandosi.

Le donne, dunque, mentono, provocano o denunciano per convenienza; gli uomini, al contrario, agiscono mossi da un “istinto rapace” che, per natura, non possono imbrigliare, oppure da qualcos’altro che fa perdere loro il controllo (nel caso di Genovese, ad esempio, le droghe). Questi sono solo alcuni dei “miti dello stupro” più diffusi, presenti anche nei titoli sopra citati, e che in genere finiscono per deresponsabilizzare l’uomo e colpevolizzare la donna.

Una volta riconosciute queste criticità, c’è da chiedersi come si può proporre una narrazione alternativa. Nel Testo unico dei doveri del giornalista, in vigore dal 1 gennaio 2021, l’Ordine dei giornalisti chiede a chi scrive di violenza di genere di non perpetuare gli stereotipi e di attenersi all’essenzialità della notizia, evitando di spettacolarizzare gli eventi e riportandoli con moderazione. Da un punto di vista pratico, però, come si traducono queste direttive in un racconto più rispettoso delle donne?

Nel saggio Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale (Bologna, Il Mulino, 2017), Elisa Giomi e Sveva Magaraggia consigliano innanzitutto di “mettere il maschile al centro”, il che non significa assumere il punto di vista dell’uomo e concentrarsi sulle sue motivazioni, ma nominarlo e ricostruire in modo preciso ed esplicito le responsabilità, senza nascondere la figura maschile dietro formule che romanticizzano i fatti o li riconducono a “un momento di follia”. È importante, infatti, che lo stupratore (o il femminicida) non appaia come un mostro, un pazzo o uno “sbandato”, perché insistere sulla sua devianza rischia di dipingere le violenze come casi eccezionali, azioni aberranti commesse da individui anormali. Invece, ciò che dovrebbe emergere sono le radici profonde della violenza. 

In più, si può lavorare sulla presentazione della donna, cercando di eliminare – soprattutto nei titoli – quei dettagli che non sono attinenti, come l’abbigliamento, e di non insinuare che lei abbia in qualche modo sbagliato, che, insomma, abbia fatto qualcosa che possa aver innescato la violenza. Scrivere, ad esempio, “L’errore di lei? Ricalca quello commesso da tante altre donne uccise per mano del marito: l’amore ingenuo, il cedere alla richiesta di rinunciare al proprio lavoro, la vergogna e il terrore di ribellarsi” (Libero Quotidiano, 12 giugno 2017) significa attribuire alla donna una parte di colpa: se fosse stata meno ingenua o se si fosse ribellata, non sarebbe successo niente.

La stessa storia si può raccontare sostituendo questo passaggio con un altro che, al contrario, sottolinei le responsabilità dell’uomo che non ha accettato la scelta della compagna di porre fine alla relazione. Se si vuole andare oltre, indagando più in profondità le cause della violenza, costruire interi articoli sul parere degli amici di lui o dei vicini di casa non è l’ideale. Piuttosto, si possono contattare esperti e recuperare statistiche che permettano di contestualizzare meglio i fatti.

Inoltre, la caratterizzazione della figura femminile spesso si appiattisce e perde di spessore. I giornali, infatti, tendono a concentrarsi su pochi elementi: la bellezza, la (giovane) età e le relazioni familiari e/o sentimentali. Così, però, la soggettività della donna si perde e il vero protagonista del racconto giornalistico diventa l’uomo. Di lui si conoscono le passioni, le attività, e il carattere, mentre di lei spesso si sa solo che è una ragazza giovane e carina, che è stata violentata.

Sappiamo, dalle studiose che se ne sono occupate, da Joanna Bourke a Flaminia Saccà, che questa narrazione si può modificare rendendo le figure femminili più sfaccettate, restituendo dignità e complessità a donne che sono molto più che “vittime”. Una buona pratica, apparentemente semplice ma non scontata, ad esempio, è citare anche il cognome della donna, anziché solo il suo nome di battesimo; in questo modo si rende la protagonista riconoscibile e si evita di infantilizzarla e anonimizzarla.

Infine, può essere molto utile chiamare le cose con il loro nome. Uno stupro è, appunto, uno “stupro”, non un “drammatico evento”; un femminicidio non è una “tragedia” né un “gesto fatale” dettato dalla gelosia o da qualche forza sovrumana. Non c’è nessun fato avverso che stupra o uccide le donne, ma “solo” una violenza sistemica che non può più trovare giustificazioni, a partire dalle parole che si usano per raccontarla.

Riferimenti

Chiara Lalli, Impariamo a parlare di stupro, Internazionale.it, 23 aprile 2015

Francesca Coin, Cos’è uno stupro e come si racconta, Internaizonale.it, 19 gennaio 2021

Joanna Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale dal 1860 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2006

Elisa Giomi, Sveva Magaraggia, Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale, Bologna, Il Mulino, 2017

Flaminia Saccà (a cura di), Stereotipo e pregiudizio. La rappresentazione giuridica e mediatica della violenza, Milano, Franco Angeli, 2021

Testo unico dei doveri del giornalista, in vigore dal 1 gennaio 2021

Raccomandazioni della Federazione Internazionale dei Giornalisti

Sara Bichicchi

17/5/2022 https://www.ingenere.it

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