Nell’oscurità del lavoro nero

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Negli ultimi venti anni il legislatore ha tentato più volte di intervenire per attenuare un fenomeno, quello del “lavoro nero”, che non riguarda solo il nostro Paese ma l’intera Europa. Dati alla mano, il lavoro sommerso non solo incide negativamente sul sistema economico ma crea di fatto delle disparità sostanziali tra occupati e non occupati.

Da tempo, la politica conservatrice sul terreno del lavoro si è concentrata soprattutto nell’ abbattere quella parte residuale di tutela di cui gli occupati di aziende al di sopra delle 15 unità potevano usufruire in caso di contenziosi. Una norma su tutte l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Superata la discussione, con una cancellazione sistematica dell’art. 18, ed in particolare, con l’introduzione nell’ordinamento lavoristico dei decreti attuativi del Jobs Act, in primis il D Lgs 23/2015 che regola il “ contratto di lavoro a tuteli crescenti”. Tutto la parte normativa, che doveva prevedere la tutela dei lavoratrici e lavoratori estromessi dal mondo del lavoro, è rimasta nei cassetti della politica consegnando di fatto il lavoro ad una precarietà costante.

A tale fenomeno di progressivo smantellamento dei diritti, si sono aggiunte con la loro drammaticità, la pandemia e la guerra, che ha ridisegnato un nuovo mondo, dove questi tragici mutamenti di scenari colpiscono le fasce economicamente e socialmente più deboli del Paese.

Basta questo per giustificare il variegato universo del sommerso? Certamente no.

Ci sono condizioni storiche che incidono da sempre sulla possibilità di una piena occupazione della forza lavoro del paese, fra tutte il costo del lavoro e i bassi salari.

Con i fondi del PNNR è stato introdotto il Portale Nazionale del Sommerso ( D Lgs 36 aprile 2022), per dare maggiore forza ed incisività alle forze deputate al controllo del lavoro nero. La via scelta è stata tuttavia prevalentemente quella della sanzione penale o amministrativa.

Sarebbe necessario invertire la rotta ed investire per creare formazione. Tutto ciò, insieme ad altre misure mirate, aiuterebbe non solo l’emersione del lavoro nero, ma andrebbe di fatto a costruire condizioni per cui chi perde il posto di lavoro, successivamente ad eventuali periodi di Naspi ( Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’impiego), potrebbe essere reimmesso nel mercato del lavoro, aggiungendo al bagaglio di competenze passate una formazione all’altezza di nuove sfide lavorative incentivate dall’ intervento pubblico.

Su questo aspetto, oggi più che mai, devono riacquistare un ruolo centrale i Centri dell’Impiego, per riequilibrare l’offerta del lavoro che non può essere gestita solo da aziende private.

Si parla spesso di lavoro povero, anche per coloro che hanno un regolare contratto. Le ragioni risiedono principalmente nel basso costo dei salari minimi previsti dalla contrattazione collettiva. Ben venga, pertanto, la Direttiva Europea volta a stabilire un quadro di regole uniformi a livello comunitario per garantire che i salari minimi siano fissati a un livello adeguato. Tale intervento normativo, mentre l’inflazione corre a ritmi che non si registravano da 30 anni nel nostro Paese, consente di approvare a livello nazionale leggi che prevedano un aumento dei salari minimi previsti nella contrattazione nazionale di categoria. Ciò potrebbe costituire un altro tassello per fronteggiare l’emergenza del lavoro sommerso. Il costo del lavoro, unito a salari minimi fermi da decenni, non solo produce disoccupazione, ma facilita l’espandersi del lavoro nero, paradossalmente più conveniente in assenza di salari che non garantiscono le necessità primarie. Bisogna cominciare ad invertire la rotta, uscire fuori dallo steccato delle piccole convenienze delle parti.

Il lavoro, le lavoratrici e i lavoratori, non sono merci, il mercato non può decidere a suo arbitrio chi tenere dentro o fuori. Il lavoro è dignità, per tanti rappresenta un’opportunità di riscatto, per altri è un investimento di vita, come stabilirono le madri e i padri costituenti, riconoscendo il valore fondamentale del lavoro nella Costituzione Italiana del 1948.Un lavoro che dia diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto. Un lavoro in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa ( art. 36 Costituzione Italiana).

In queste parole c’è già una risposta alla logica iniqua del lavoro precario e in nero, in un Paese dove lo Stato purtroppo è spesso assente ingiustificato e il mercato del lavoro è spesso disumano. Tra le tante realtà negative, basterebbe citare i numeri che riguardano il settore dell’agricoltura, dove le norme di contrasto al caporalato non sono state sufficienti a porre rimedio allo sfruttamento di una parte consistente di questi lavoratori.

In tale comparto, come del resto in tutti gli altri settori che richiedono manodopera manuale, si sfrutta la mancanza di salari dignitosi e si attinge a categorie sociali vulnerabili che non hanno altre prospettive che accettare condizioni lavorative precarie e al nero che incidono anche sul diritto alla sicurezza e la salute dei lavoratori.
Lo Stato viene percepito come distante dalle esigenze quotidiane di chi deve sottostare allo sfruttamento salariale e a scarse regole di sicurezza.
Non sono sufficienti pertanto le sanzioni penali o amministrative.

Bisogna avviare un percorso di prevenzione, dare l’opportunità ai lavoratori e alle lavoratrici che subiscono lo sfruttamento di avere una via di uscita. Per esempio, attraverso la formazione e la creazione di cooperative sociali che possano, con l’aiuto delle istituzioni, creare occupazione sana e retribuzioni giuste. Le stesse potrebbero essere finanziate con i fondi ricavati dalle sanzioni amministrative nei casi di violazioni comprovate e contestate ai datori di lavori.
Tutto ciò porterebbe dei vantaggi sociali ed economici importanti, darebbe prospettive anche a chi oggi viene sfruttato nei campi, compresi anche gli immigrati.

Inoltre, per quanto riguarda gli infortunio sul lavoro, sarebbe altrettanto necessaria la costituzione di un Fondo Nazionale per i risarcimenti del c.d. danno differenziale nei casi definitivamente accertati in sede giudiziaria. In favore, di quei lavoratori e lavoratrici in nero e non, che spesso si trovano a prestare la propria attività lavorativa con società o aziende che nelle more del giudizio hanno cessato la propria attività.

In tutti questi casi si tratterebbe di attivare la richiesta di risarcimento al Fondo Nazionale, che potrebbe essere finanziato con risorse statali e delle imprese

Domenico Carcone

Avvocato del Lavoro

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