La secessione del nord spinge il sud alla deriva

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Ma perché le regioni vogliono un’autonomia differenziata e non basta l’autonomia prevista dall’Art. 5 della Costituzione? (“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo…”). Perché vogliono ridurre al minimo l’intervento dello stato, fare quello che vogliono, investire e usare i ‘loro’ soldi senza render conto a nessuno. Questo semplificando e ascoltando i governatori.

In realtà le istanze e le ragioni di chi, dietro i governatori, davvero muove la partita dell’autonomia differenziata sono più solide e antiche. Esse rispondono alla spinta degli interessi economici e finanziari che controllano l’economia del Centro-Nord, che ambisce ad integrarsi con il centro Europa: per queste forze non è conveniente uno sviluppo omogeneo del paese che recuperi i ritardi del mezzogiorno e che abolisca le disuguaglianze territoriali e sociali perché, secondo loro, ciò si tradurrebbe in un rallentamento della crescita del Nord ed in un disallineamento rispetto alle economie forti dell’Europa. Lo si è visto anche nella distribuzione dei fondi PNRR, che, contravvenendo alle stesse indicazioni europee, sono stati scippati al Sud cui è stato attribuito non più il 65% ma il 35%.

E tali realtà sono così forti e decisive che resistono e sono in grado di imporsi contro tutte le evidenze, come quelle sollevate dalla pandemia.
La pandemia, infatti, aveva dimostrato l’assoluta impreparazione/inadeguatezza/inaffidabilità delle regioni ad affrontare e gestire la crisi proprio sul terreno della Sanità pubblica, che era già di loro competenza esclusiva e che costituisce i due terzi dei loro bilanci.

In particolare la Lombardia, dopo aver mandato cinicamente a morire medici di base, anziani, lavoratori in combutta con Confindustria, ha riproposto e votato, e il Ministero approvato, una legge per la sanità regionale ancora peggiore della precedente, che aveva quasi azzerato presidi di prevenzione e del territorio, e messo buona parte della sanità in mano al privato. La nuova legge prosegue nella stessa direzione, intrecciandosi con il PNRR, e prevede che le case e gli ospedali di comunità, potranno anche essere gestiti dai privati: che potranno, in questo modo, prendersi oltre agli ospedali anche il territorio, compresa la prevenzione, già ridotta al minimo, adattandola alle proprie esigenze con la moltiplicazione di prestazioni inutili. In 20 anni di gestione decentrata della Sanità Il privato ha comunque ormai una presenza diffusa ormai in tutte le regioni, senza distinzione alcuna tra governi di centro destra e centro sinistra, vedi il Lazio dove il privato, come in Lombardia, assorbe quasi il 50% delle risorse per la sanità. Il fatto che Governo e Ministero della Salute, facciano passare, dopo tutto quello che è successo in questi due anni e quasi senza battere ciglio, il modello lombardo, dove addirittura si anticipa l’autonomia differenziata, fa capire che anche le forze politiche sono sostanzialmente d’accordo con essa, nonostante gli effetti perversi che l’accompagnano. Del resto il ministero della sanità si occupa solo ed esclusivamente di pandemia e vaccinazioni ed ha abdicato alle sue competenze di programmazione, indirizzo e controllo sul resto della Sanità.

A questo punto si è arrivati non solo perché la distribuzione dei finanziamenti è stata fatta sulla base della spesa storica che ha penalizzato il Sud, ma anche per l’acquiescenza della classe dirigente e politica del Sud e per la malversazione (tale deve definirsi) dei rappresentanti del Nord che si sono sistematicamente opposti non solo alla definizione di criteri per un’equa distribuzione ma anche a qualsiasi tentativo di perequazione da parte dello Stato.

Infatti, l’autonomia differenziata aumenterà ulteriormente il divario tra Nord e Sud, per quanto riguarda risorse, infrastrutture, servizi poiché i finanziamenti sono stati distribuiti sempre secondo la spesa storica che, stante gli scarsi servizi del Sud, ha continuamente riprodotto il sottofinanziamento degli stessi. Un esempio eclatante è dato dal finanziamento degli dagli asili nido al Nord e al Sud. Nel 2013, un bambino con meno di tre anni, se residente a Reggio Calabria aveva 31 euro l’anno, se residente a Bologna ne aveva 3400, come se un bambino bolognese valesse più di 100 bambini reggini. Nel 2017, su base regionale, un bambino con meno di tre anni, se residente in Campania aveva 219 euro l’anno, se residente in Emilia Romagna ne aveva 1754: come se, per lo Stato, un bambino emiliano valesse otto bambini campani. Il divario è confermato se si esamina la spesa totale del nostro bambino per macroaree (Report Istat 2016): a un bambino residente al Sud vanno 206 euro, nelle
isole 443 Euro, al Nord-ovest 817 Euro, al Nord-est 1.056 Euro e al Centro 1.328 Euro.

Che la situazione sia alquanto precaria e penalizzante per il Sud è riportato anche dal “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica”, della Corte dei Conti, nel paragrafo “Finanza degli enti territoriali: criticità e prospettive”. Da esso risulta che Il sottofinanziamento riguarda sia le Regioni del Sud sia i Comuni, che vi è molta incertezza sulla definizione dei fabbisogni legati alle funzioni fondamentali, sulle fonti di finanziamento e sui meccanismi perequazione dei livelli essenziali. Quindi, dopo quasi 12 anni, gli effetti della legge Calderoli sul federalismo fiscale sono devastanti: la mancata applicazione dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni) e il calcolo dei fabbisogni standard dei Comuni, sulla base della vecchia spesa storica, hanno messo in ginocchio le Regioni e i Comuni del Mezzogiorno. Uno scippo continuo di risorse, in tutti i settori, che ha finito per acuire il divario tra Nord e Sud.

Lo stesso succede negli investimenti per la sanità: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno. In termini pro-capite significa, ad es. che, mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4, la Toscana 77, il Veneto 61,3; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2, il Molise 24,2, il Lazio 22,3, l’Abruzzo 33.

Forti differenze sono fornite anche dal sistema dei CPT (Conti pubblici territoriali) che riguarda l’insieme della spesa pubblica allargata al Sud e al Nord. Da essi risulta che nel 2018, un cittadino del Centro-Nord riceveva 17.621 Euro, un cittadino meridionale ne riceveva 13.613, con 4008 Euro di differenza. Quindi se i diritti dei meridionali valessero quanto quelli dei settentrionali, lo Stato spenderebbe nel Mezzogiorno quasi 83 miliardi in più ogni anno per i 20,697 milioni di abitanti del Sud.

In questo quadro Sud e Isole rischiano una deriva irreversibile, perché partono da una situazione di svantaggio per il minor gettito fiscale e perché, soprattutto negli ultimi venti anni, a questi territori sono stati scientemente sottratti finanziamenti, si parla di 62 miliardi almeno, attraverso un iniquo calcolo della spesa storica pro-capite, calcolata sull’età media, che al Sud è più bassa, e sui servizi esistenti o zero esistenti anziché su quelli necessari.
In verità, l’art. 117 del Titolo V, prevedeva la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, i cosiddetti LEP, come ribadito dalla legge 42/2009 attuativa del federalismo fiscale. Ma tale determinazione non è mai avvenuta, dal 2001 ad oggi, per ragioni politiche e di convenienza: se fossero stati stabiliti, infatti, vi sarebbe stato un riequilibrio della spesa a favore del mezzogiorno e a scapito del Nord.
Continuando a calcolare il fabbisogno secondo la spesa storica, si ha l’esito paradossale che i comuni che non spendono, per scarsità di risorse o perché del tutto privi di alcuni servizi, in base alla spesa storica registrano fabbisogni standard inferiori, o addirittura nulli, rispetto ai territori del centro-nord e delle grandi città, dove l’offerta di servizi è ampia e diffusa sul territorio, hanno livelli di spesa più alti e quindi maggiori fabbisogni standard.

Di fatto, i finanziamenti continuano ad essere distribuiti in base alla regola “tanto hai speso, tanto ti sarà dato”, generando il paradosso che chi meno ha, meno riceve, mentre chi più ha, più riceve. Ciò ha penalizzato soprattutto il sud e quindi, soprattutto negli ultimi 10 anni, quando la crisi era più forte, si è verificato un enorme travaso dal Sud al Nord di risorse finanziarie, ma anche di risorse umane qualificate.
Un esempio lampante è dato dalla sanità, il cui definanziamento, ancora maggiore al Sud, ha prodotto un progressivo aumento della mobilità sanitaria, che ha comportato per un milione di ricoveri il drenaggio verso il Nord di quasi 5 miliardi: utili a ripianare i bilanci e i debiti delle aziende ospedaliere del Nord. Altri dati che confermano il grande furto al Sud sono a piè pagina.

In sintesi, già ora i Comuni poveri ricevono solo il 43% del fabbisogno reale, perché i ricchi non partecipano alla perequazione e quindi lo stato riesce a coprire solo il 22.5% del fabbisogno.
Ciò significa che funzioni fondamentali e diritti costituzionali, come istruzione, servizi sociali, trasporto pubblico locale, asili nido, polizia locale, rifiuti, nel 50% dei 6700 comuni delle 15 regioni a statuto ordinario, non sono stati svolti o lo sono stati solo molto parzialmente.

Questa, in estrema sintesi, la situazione di spesa per il Sud: se passerà l’Autonomia Differenziata Sud e isole non saranno in grado di reggere.

Redazione Lavoro e Salute

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